Dal white cube all’Apple Store

24 Ottobre 2013

Artelibro, il festival del libro d’arte che si tiene a Bologna, è giunto quest’anno alla sua decima edizione. E, per celebrare l’anniversario, si è aperto ai nuovi media ospitando una mostra dal titolo L’arte nell’editoria digitale tra educazione e sperimentazione. La sezione è a cura di Michela Arfiero, editor del magazine interdisciplinare per iPad Fruit of the Forest.

 

Parte delle app, dei periodici e degli e-book presenti in mostra sono sviluppati da case editrici e istituzioni museali di spicco in ambito artistico, mentre il resto è costituito da vere e proprie opere in formato digitale. Benché la panoramica non si possa considerare esaustiva (poco più di venti i progetti inclusi), l’esposizione ha il merito di portare in Italia, forse per la prima volta, alcune delle esperienze in cui il connubio tra arte contemporanea ed editoria digitale si rivela più proficuo.

 

Mousse Magazine

 

Curiosando tra le varie app e i vari magazine forniti da musei e case editrici, si ha la netta impressione di trovarsi in un periodo di passaggio: è assente uno standard, o perlomeno una modalità di navigazione consolidata come quella presente sul Web (si pensi allo scroll verticale e al menu orizzontale in alto). Tuttavia si scorge un pattern, riassumibile nella formula →↓, in cui le varie pagine sono disposte orizzontalmente e ognuna di esse è fruibile attraverso lo scroll verticale. Un modello la cui migliore espressione risiede nell’app dell’italiano Mousse Magazine, che non a caso si distingue per un approccio intelligente al design anche nella versione cartacea.

 

The Unilever Series at Tate Modern

 

La varietà delle soluzioni adottate provoca a volte un leggero senso di vertigine, poiché si è costretti a mettere da parte le proprie conoscenze pregresse per far spazio a modelli “esotici” di interazione. Si consideri il menu di navigazione in stile iPod dell’app prodotta dalla Tate Modern: mentre i vantaggi ergonomici svaniscono del tutto su iPad, ciò che rimane è una soluzione che cela la struttura dei contenuti.

 

Nei casi peggiori l’esperienza si rivela addirittura frustrante: capire da che parte bisogna fare lo swipe equivale a risolvere un enigma, non a caso la maggior parte delle app è introdotta da una pagina di istruzioni. Dove sono dunque l’intuitività e la naturalezza –o meglio naturalità– dell’interazione di cui si fa un gran parlare? Per dirla con Bruce Ediger, «l’unica interfaccia intuitiva è il capezzolo».

 

Anish Kapoor, Monumenta 2011

 

A ciò si aggiunge la necessità imprescindibile di “condire” le proprie app di funzionalità in linea con le possibilità tecniche offerte. Si assiste così a un rovesciamento: mentre i contenuti vanno sullo sfondo, ciò che emerge con forza è lo spettacolo del dispositivo. Ciò è dimostrato per negazione dall’app di Anish Kapoor, che delude le aspettative poiché non è dissimile da un comune pdf e manca di qualsivoglia effetto speciale.

 

D’altronde la maggior parte dei progetti in mostra, a eccezione di alcuni libri in formato ePub, sono sviluppati specificatamente per iOS. Ci si chiede allora quanto l’editoria digitale in ambito artistico sia, allo stato attuale, dipendente da tale ecosistema. Azzardando un parallelo con il white cube, che ha contribuito a riconfigurare le pratiche artistiche contemporanee, l’Apple Store sembra imporre in maniera analoga, se non persino maggiore, la propria logica sulle esperienze editoriali emergenti.

 

The Design Museum Collection

 

Anri Sala

 

Le eccezioni non mancano: il Design Museum di Londra propone un’app caratterizzata da un’interfaccia ludica, che diverte senza disorientare. Il catalogo digitale di Anri Sala si distingue per un uso espressivo dello scroll e per la presenza di clip ipnotiche al limite del Cinemagraph, rese ancor più intense dalla vividezza dei display ad alta risoluzione. Vi sono infine pagine statiche che fanno da contrappunto ai momenti più vivaci, contribuendo così a scandire il ritmo.

 

A Neoist Research Project, a cura di N O Cantsin

 

A Porky Prime Cut, Tony White

 

Passando ai veri e propri e-book d’artista, l’assenza del “nuovo” può lasciare perplessi. Si considerino ad esempio A Neoist Research Project o A Porky Prime Cut, entrambi editi da Artists’ eBooks. Il primo consiste in un’antologia del Neoismo in formato ePub, il cui layout fa a pugni con la levigatezza dell’interfaccia di iBooks poiché rimanda a un immaginario a metà tra le punkzine e il Commodore 64. Il secondo è un breve racconto che fa un uso insistente dei link, i cui contenuti collegati rivelano spesso un certo sarcasmo o risultano talmente tautologici da farci sorridere. Eccone un esempio:

 

Then he took a Polaroid of the finished article which he gave me the next day and I’ve still got somewhere.

 

HELL_TREE, Petra Cortright

 

Wht is a book?, Paul Chan

 

Nei libri editi da Badlands Unlimited sono spesso presenti screenshot in cui finestre di vari software si sovrappongono e dialogano a loro volta con l’interfaccia dell’e-reader utilizzato. Il caso più emblematico di tale approccio è HELL_TREE di Petra Cortright, libro-performance che “si svolge” completamente sul desktop dell’artista. Al contrario, Wht is a book? di Paul Chan, il cui tema è la natura stessa del libro, è realizzato tramite una tecnica analogica di sovrastampa ed esiste come copia unica cartacea al prezzo di $500 mentre è disponibile illimitatamente in digitale per meno di due dollari.

 

Michela Arfiero afferma che l’editoria digitale «non può replicare l’odore della carta ma può fare altro». Dunque in cosa consiste questo “altro”? Se le nuove meraviglie tecnologiche sembrano addirittura negare il messaggio in favore del mezzo, forse la chiave di lettura va cercata altrove. Probabilmente è necessario esaminare l’atto editoriale nella sua totalità, considerando il contenuto scelto, l’urgenza di pubblicarlo (o ripubblicarlo), le molteplici modalità di distribuzione e la volontà di diffonderlo, archiviarlo e dunque preservarlo.

 

Non bisogna dimenticare inoltre il rapporto con il contesto economico e le implicazioni del formato scelto. In tal senso le esperienze più riuscite sembrano andare oltre le contingenze del dispositivo, rinunciando sia all’entusiasmo evangelico che al timore reverenziale. Esse fanno volentieri a meno del prefisso “digitale” e delle aspettative che esso comporta, immettendosi nei nuovi canali con la stessa disinvoltura con cui si stampa una zine indipendente.

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