Rossana Rossanda o dell’inquietudine intellettuale
A tre anni dalla morte, Rossanda è ormai oggetto di numerose pubblicazioni, di varia utilità. Un diluvio di parole destinato a crescere. Sono ancora, si potrebbe dire, lavori parziali, molti dei quali antologici: c’è la Rossanda “femminista” (la ristampa de Le altre, Manifestolibri 2021; Un secolo, due movimenti. Comunismo e femminismo, tracce di una vita, Futura 2022) e la Rossanda comunista (il mio Rossana Rossanda e il Pci, Carocci 2023); vi è il ricordo, splendido, di Maria Fancelli (Il diciassettesimo tasto, Clichy 2022) e, infine, questo Aperte lettere (Nottetempo 2023), una raccolta di «saggi critici e scritti giornalistici» curata da Francesco De Cristofaro, dal taglio più letterario. Altri lavori, come detto, sono in preparazione, in attesa di un lavoro complessivo, chissà, di una biografia. Ma è possibile scriverne una dopo La ragazza del secolo scorso? La sua autobiografia, pubblicata nel 2005, mette forse di fronte a un ostacolo insormontabile. Certamente parziale (si ferma al 1969, con tracimazioni occasionali), certamente – ancora – disseminata dell’imprecisione della memoria personale, dalle idiosincrasie, tutte peraltro rivendicate. Ma anche un piccolo capolavoro narrativo, testimoniale, senza reticenze. Ci si potrebbe scornare nei dettagli, dilatare gli episodi, ma l’essenziale, mi sembra, lo ha già raccontato lei. Vedremo.
Nel frattempo questa raccolta di scritti “rossandiani” ne arricchisce il ricordo. Sono brevi pezzi, il più dei quali giornalistici, legati insieme dal loro tono letterario, dal loro confronto con le lettere, con alcuni scrittori, con alcuni romanzi. Si va dal Dostoevskij di L’idiota, al Mann di L’inganno; da Stendhal a Virginia Woolf a Simone de Beauvoir. Vi si scorge una Rossanda matura, colta, perfida, ma ormai disorganica. Sono scritti che partono tardi: l’articolo più vecchio è del 1972, per arrivare – addirittura – al 2018, quando una Rossanda novantaquattrenne avrà la forza e la lucidità di discutere il Mussolini di Scurati. Sono scritti che appartengono a un’altra epoca, a un’altra circostanza biografica dell’autrice. La Rossanda degli anni Settanta, e con maggiore forza negli anni e decenni successivi, è ormai una ex militante politica. È una Rossanda sconfitta, non va dimenticato. Non rassegnata, e neanche, direi, disillusa. Ma è dentro questa sua sconfitta che avviene il confronto con il femminismo e con la nuova sinistra, come occasione e forma di ripensare se stessa. È una Rossanda che interviene e che commenta, libera (finalmente? Forse no: Rossanda non ha mai ricercato veramente questa forma di “libertà”), una Rossanda libera, dicevamo, di dispiegare il suo sapere, di confrontarsi apertamente con le nuove tensioni culturali, dando una veste diversa ai suoi ragionamenti. Non è più, diciamo dalla seconda metà dei Settanta in avanti, costretta a una disciplina stabilita altrove. Questo è il fatto determinante per comprendere il contesto di questi articoli “di cultura”.
Cosa c’entra Rossana Rossanda con la cultura del Pci? Molto poco. Lo dice lei ovunque può, in articoli, nei suoi ricordi, nella sua autobiografia, ad nauseam. Nel momento in cui il Pci si impegnava nella costruzione (strumentale, certo, ma non illegittima) di un filone culturale democratico-nazionale, di cui il comunismo italiano raccoglieva l’eredità, Rossanda dichiarava: «dell’Italia non ne potevamo più» (p. 162). Si ritrova questa diversità anche in questo Aperte lettere:
Noi eravamo il Nord, marxismo critico, anticrocianesimo, strutturalismo, varie sociologie, cosmopolitismo – insomma nuova università e classe operaia – mentre Roma era l’asse con Labriola/Croce/Gramsci, non senza incursioni nella grande destra cattolica – insomma cultura democratico-popolare e Mezzogiorno. Avevamo altri ascendenti, ognuno teneva ai suoi (p. 246).
Ma questo è chiaro e risaputo. Eppure, questa diversità culturale viene accantonata, resa marginale. Non silenziata: quando può, Rossanda lascia trasparire una cultura diversa da quella del centro “romano”, e lo fa con coraggio sulle riviste di partito, su Rinascita o il Contemporaneo (tutte cose che, morto Togliatti, le verranno fatte pagare senza sconto). Ma lei per prima è convinta (forse a malincuore, come ogni tanto dice) che nell’Italia del dopoguerra la posta in palio è un’altra, che la politica ha invaso tutto lo spazio e non ci si può sottrarre. Questo non fa di Rossanda uno di quei tipici “intellettuali comunisti degli anni Cinquanta”. Rossanda non è assimilabile al Calvino che dichiara:
Ricordo benissimo che quando mi capitava di andare in viaggio in qualche paese del socialismo, mi sentivo profondamente a disagio, estraneo, ostile. Ma quando il treno mi riportava in Italia, mi domandavo: ma qui, in Italia, che cos’altro potrei essere se non comunista?
In Rossanda non c’è dissociazione tra i suoi interessi culturali e la sua proiezione politica, e una certa sua ansia di scoperta culturale non la avvicina a un Vittorini (ma neanche, possiamo dire, al suo amico Fortini). C’è, piuttosto, una sintesi e una gerarchia. Una sintesi che la porta a ricercare e individuare il punto di fusione tra la grande cultura europea – alla quale lei vuole appartenere – e l’azione politico-culturale comunista; una gerarchia nel senso di una politica che decide, che viene prima, senza rimpianti o auto-inganni. Tutto questo la porterà – lei così “diversa” dal sottofondo storicista e crociano del partito degli Alicata e dei Salinari (ma anche degli Ingrao) – a essere la più togliattiana dei dirigenti culturali, a tentare l’estrema impresa di tenere unificate politica e cultura, con buona pace dei lamenti intellettuali dei “settentrionali”.
Ebbene, in queste Aperte lettere parla un’altra Rossanda, svincolata da questa dimensione di problemi. Non per questo a emergere è una Rossanda “più vera”, meno compromessa o più distante dalla politica; semplicemente, una Rossanda che risponde ad altri motivi interiori e ad altri stimoli esterni. Certamente emerge una curiosità insolita anche se mai esibita, e ormai – a questa altezza – disincantata e in grado di soppesare con un occhio diverso il rapporto tra tradizione e innovazione, anche in campo letterario. Vi si conferma – ma con più forza – la sua vena anti-pedagogica, come quando afferma: «Ma non è l’ora di chiudere con la storia recente e ingloriosa della letteratura per bambini? […] Non esiste un adolescente che non possa leggere Stendhal invece che Cuore», per poi concludere, perfidamente (e magistralmente): «Condivido insomma con una correzione, ma di fondo, il giudizio di Francesca Lazzarato, che vede nei libri scritti per bambini un’idea di come la società si vorrebbe. No, come la società vorrebbe o avrebbe voluto che diventassero i ceti subalterni e le donne, cioè quelli che in grande massa non accederanno alla cultura vera» (pp. 76-79). È una polemica antica, che rimanda a quella torsione edificante insita in un certo comunismo italiano, ma che a partire dagli anni Sessanta (col boom economico e l’esplosione dei consumi culturali di massa) diviene più annichilente che progressiva.
E ancora, negli articoli che si susseguono troviamo sparsi giudizi taglienti, affilati, mai però provocatori. Come quando liquida i «modestissimi ma ben intenzionati romanzi neorealisti come L’Agnese va a morire o il Metello» (p. 242). Ora, se sul metellismo il dibattito comunista aveva sviluppato, a suo tempo, una seria polemica politico-letteraria, l’affondo su Renata Viganò colpisce più in profondità, generando onde nella palude. Oppure, ancora, quando ad essere silurata è l’intoccabile Elsa Morante:
La Storia non solo non mi pare un libro felice, ma quello che più tradisce il limite della Morante. Che è appunto indicato da Balestrini: il non riuscire a concepire che un mondo di umiliati e offesi, che la povertà, o complesse condizioni di emarginazione o devianza, o tracolli generazionali o, stavolta, la guerra e la condizione dell’ebraismo condannano ad essere ineluttabilmente vittime. Ma non solo vittime. Sono, per lei, i soli portatori di valori (p. 191).
E infine, ma solo per dare conto dell’ampiezza dei riferimenti e delle letture, come quando non ha timore di affondare un altro “intoccabile”, il Jonathan Littell delle Benevole: «un’Operazione Geniale di Mercato nell’opera di un giovane sagace e di Gallimard che gli ha assicurato il Goncourt: trattandosi del genocidio degli ebrei e di un dettagliato sadismo delle SS, è destinato ad attrarre un esercito di lettori per bene e per male» (p. 221). Siamo in presenza, dunque, di una Rossanda che commenta disinibita, svincolata da una disciplina politica che le aveva fatto stipulare il patto, per nulla avvilente o limitante, con l’urgenza della battaglia e del posizionamento. Così, io credo, vanno letti questi scritti giornalistici di un’intellettuale dalla straordinaria profondità ma dalla “grandezza” incompiuta, a cui è mancato il grande libro negli anni in cui poteva servire scriverlo. Costantemente travolta dalla quotidianità e dal lavoro – politico, organizzativo, poi giornalistico – le è mancato quel giusto respiro, o forse distacco, per dare alla sua visione delle cose una dimensione compiuta. Ma gli scritti che si possono leggere, in queste Aperte lettere o nelle altre antologie di cui verremo circondati, la collocano altrove rispetto alle miserevoli diatribe politico-letterarie dell’Italia post guerra fredda.