Pandemia / Overtourism, ripensare le città

4 Giugno 2020

Le città italiane, gran parte delle città europee e molte metropoli globali, difficilmente reggeranno l’urto della violenta e improvvisa riduzione della domanda mondiale di turismo. Per quanto le politiche locali possano favorire o costringere il turismo interno, i flussi del turismo internazionale costituiscono il carburante atto ad alimentare il processo di valorizzazione dei capitali finanziari, trovando nella metropoli il luogo in cui scaricarsi e riprodursi. Rappresentano, questi flussi e l’economia che li istituisce, il cash flow in grado di materializzare capitali altrimenti virtuali. Non meno reali, forse, ma sicuramente più aleatori. Catene commerciali del food&beverage, hotellerie, edilizia e piattaforme digitali convergono in un unico movimento speculativo che, attraverso lo sfruttamento di una gigantesca manodopera urbana dalla parossistica produttività salariale, consente ai capitali virtuali di tradursi in profitti reali, re-investiti nella virtualità finanziaria e di nuovo catapultati nella ricettività turistica. Un circolo perverso. 

La speculazione turistica probabilmente riprenderà – sarà costretta a riprendere – il suo “normale” corso fondato su di un mercato necessariamente transnazionale (come ogni mercato d’altronde: il concetto stesso di “mercato interno” è dileguato insieme al Novecento). Questo intermezzo sta producendo eventi, come consuetudine, morbosi: quelle città che morivano di turismo si trovano oggi a morire di non-turismo. Inevitabilmente, ogni monocoltura entra in crisi di fronte alla carestia specifica. Il problema non è la carestia – evento ciclico e prevedibile – ma la struttura riproduttiva di un capitalismo che funzionalizza gli spazi in ragione dei suoi interessi particolari. Fenomeno ordinario nell’industria della trasformazione manifatturiera, con le sue fabbriche e i suoi distretti, le sue catene del valore e i suoi indotti; anomalo se ad essere investita da processi monocolturali è la società urbana, per definizione complessa, molteplice e dalle funzioni sovrapposte. 

 

La crisi dunque. Girare oggi per Roma regala momenti di irripetibile appagamento: una città svuotata dal turismo internazionale e trafficata solo da romani e lavoratori pendolari. Una città vuota, dunque. La sensazione straniante è il risultato della contraddizione tra il dato statistico e quello verificato per apparenza empirica. Ci dicono i numeri, infatti, che Roma sia una città disabitata: nonostante i quasi tre milioni di abitanti, questi si trovano dispersi su di una superficie abnorme, che la rende una delle città più grandi d’Europa e d’Occidente. Per dire, una città con una superficie quasi doppia rispetto a quella di New York, che pure nell’immaginario occidentale identifica la metropoli per eccellenza. Tuttavia New York conta circa otto milioni di abitanti. Roma, per l’appunto, neanche tre. Eppure il traffico impazzito, il caos quotidiano dei suoi Municipi centrali – i luoghi cioè dove risiede il lavoro cittadino, raccontano a prima vista una città intasata, tutto fuorché svuotata. La contraddizione è solo apparente, come dimostrato in queste splendide giornate di relativa solitudine. 

 

Uno studio Tim dello scorso anno, promosso dal Comune di Roma e riferito alle cellule telefoniche presenti ogni giorno sul territorio romano, rilevava infatti come quotidianamente siano presenti, in città, circa cinque milioni di persone. Cinque milioni e settecentomila, per la precisione. Una massa – questa sì – coerente con le dimensioni della capitale, che però traffica, attraversa, vive e anima quasi esclusivamente quei due Municipi centrali in cui convergono tutte le attività direttive, produttive, commerciali e culturali della città. Roma insiste quindi nel suo status di shrinking city, ma questo non appare alla vista di chi vive il suo core urbano. La sua immensa retrovia periferica si desertifica la mattina, per tornare a popolarsi la sera, al ritorno dal lavoro, dallo studio, dallo svago. 

 

Di questi sei milioni scarsi di city users un milione è costituito da turisti internazionali, attirati dal centro storico e lì recintati. Nella sua inevitabilmente ridotta superficie, la Roma delle Mura Aureliane deve reggere, ogni giorno, l’urto di questa invasione gestita, organizzata e “processata” da quel movimento di cui abbiamo accennato prima: catene commerciali internazionali di vario genere, speculazione edilizia (sovente organica a quelle stesse catene commerciali), piattaforme digitali dell’intermediazione logistica, eccetera. Un fenomeno complesso ed epocale guidato dalla mano privata, con il Comune e la politica nazionale nel ruolo di spettatori interessati ai possibili, e sempre sovrastimati, ricavi fiscali. Sovrastimati proprio perché, nella competizione globale giocata sull’attrazione dei capitali privati, la leva principale in mano alla politica è costituita dalla perdurante opera di de-fiscalizzazione di questi stessi capitali chiamati a investire nei territori urbani. Anche qui, un circuito perverso: i trasferimenti fiscali dei Comuni si riducono da almeno due decenni, e per rimpinguare le casse comunali i suddetti Comuni tentano di attirare i capitali privati attraverso continue agevolazioni fiscali, riducendo così ulteriormente il bilancio cittadino, a quel punto “costretto” a scaricare sulla popolazione locale, attraverso addizionale Irpef e riduzione del welfare urbano, il recupero di quelle risorse che avrebbero dovuto accrescersi con l’arrivo dei fantomatici investitori globali. Gli investitori arrivano, ma la ricchezza collettiva diminuisce. 

Svuotamento e overtourism sono dunque in rapporto reciproco. Più la città si riempie di turisti, più si svuota di abitanti. Un fatto noto. Di fronte alla “catastrofe”, decisamente naïf appaiono le richieste di “ripopolamento” dei centri urbani e della città consolidata fatte da alcuni sindaci, ad esempio Dario Nardella. Non è un processo attivabile, men che meno realizzabile, dall’oggi al domani. Soprattutto, è un percorso pensabile unicamente attraverso una pianificazione pubblica, dalle decisioni politiche conseguenti, cosa oggi semplicemente inimmaginabile. Cosa fare dunque? Spezzare il circuito perverso che lega il turismo alla morte della città. 

 

Foto di Massimo Vitale.


La soluzione non può essere pensata in una logica binaria di opposizione tout court al turismo, fenomeno economico-sociale collegato a quella libertà di movimento che garantisce tutti noi di un margine di libertà, personale ma anche economica, auspicabilmente da preservare. L’alternativa all’overtourism non può coincidere con la limitazione dei movimenti della popolazione. Non solo passeremmo da una società malata a una repressiva, ma sosterremmo così le ragioni elitarie di chi potrà continuare a permettersi di viaggiare, scaricando sulla popolazione impoverita l’illuminata preservazione dell’ecosistema urbano. Il groviglio può essere sciolto unicamente dentro una programmazione pubblica dei processi economici alla base dell’overtourism. Senza programmazione, gli “spiriti animali” del capitalismo continueranno a moltiplicare quei flussi di popolazione temporanea su cui si fondano le possibilità di rigenerazione degli investimenti privati. 

 

Una città come Roma non deve privarsi di quei quaranta milioni di turisti che ogni anno la visitano (e la impoveriscono, a dispetto delle apparenze). Deve ripensare la sua funzione urbana in base ai bisogni della sua popolazione residente. Introducendo nuovamente, ad esempio, forme di controllo pubblico sul livello medio di affitti e mutui, legando tutte le zone della città, anche quelle pregiate del centro storico, a un valore sostenibile per la popolazione locale. Per fare questo, oltre che limitare le possibilità di determinazione dei prezzi alla sola speculazione immobiliare, dovrebbe regolare veramente le attività economiche delle piattaforme digitali dell’home sharing, oggi vere e proprie agenzie immobiliari di gestione degli affitti brevi. Airbnb, ma in parte anche Booking, Opodo, Kayak eccetera, consentono ai proprietari immobiliari – il più delle volte multiproprietari immobiliari – di gestire il loro patrimonio abitativo urbano unicamente in funzione della valorizzazione del proprio investimento.

 

Porre un limite alla gestione di un bene primario quale la casa può apparire anche “impensabile” al giorno d’oggi, ma la crisi pandemica e poi economica ha reso pensabile molto di ciò che fino a pochi mesi fa veniva considerato stravagante e anacronistico. Limitare la possibilità di affittare un appartamento intero per pochi giorni l’anno, massimo trenta giorni ogni 365 (non è “socialismo”: lo fanno già a Berlino, Barcellona, Parigi, seppure con numeri ondivaghi e maggiore permissività); stabilire dei prezzi di mercato calmierati; vietare ai multiproprietari la possibilità di affittare sulle piattaforme digitali il loro patrimonio, provando a dividere così la sorte comune che lega chi arrotonda il proprio reddito condividendo una sua camera o l’appartamento ereditato con chi, investitore di professione, fa man bassa del patrimonio immobiliare cittadino riaffittandolo poi su quelle stesse piattaforme che si rafforzano attraverso la narrazione dello sharing. Infine, trattare fiscalmente le piattaforme digitali come qualsiasi altra azienda multinazionale, applicando i massimi prelievi fiscali consentiti ed equiparati a chi fabbrica automobili o costruisce palazzi. Non si tratta di impedire l’home sharing, si tratta – al contrario – di renderlo effettivo: chi affitta una stanza o un appartamento lo deve, per l’appunto, condividere: deve risiederci. Questo il fulcro della narrazione sharing, su cui pure si basa una parte della forza evocativa di piattaforme quali Airbnb. Rendere obbligatorio questo fatto non significa limitare le potenzialità edificanti dell’economica dello sharing, significa realizzarle. Se, al contrario, la casa diviene oggetto di investimento, questo processo va regolato come si regolano tutte le forme d’investimento simili. Né più né meno.

 

L’insieme di queste norme, inevitabilmente, inciderà su quei quaranta milioni di turisti, riducendoli. Ma non impedirà a nessuno di visitare Roma, se crede e se vuole, scoprendo finalmente un contesto tipico, e non una qualsiasi Disneyland a sfondo archeologico riproducibile altrove e a pagamento. Continuare a visitarla continuando a selezionare le tariffe adatte alle proprie tasche. Fiscalmente, anche il dimezzamento di quei flussi manterrà inalterate le entrate fiscali generati da questi, d’altronde già mediocri rispetto all’invasività dei flussi stessi, generatori di esternalità negative tutte a carico del bilancio pubblico, quali la manutenzione delle strade, la raccolta rifiuti, la gestione del traffico, la struttura urbana di supporto ai movimenti di persone, eccetera. Ancora una volta: ciò che era impensabile può essere oggi pensato, con un po' di immaginazione e di coraggio. Non è tutto, ma è qualcosa da cui cominciare. Dichiarare di voler “riportare” i cittadini nei centri storici, senza predisporre un piano di azione e di contrasto all’economia delle piattaforme, è invece il solito fumo negli occhi, narrazione tossica utile ai titoli di giornale, inutile alla soluzione dei problemi. Abbiamo davanti a noi una grande occasione. Cogliamola. 

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