Morfologia del difforme
Sempre più spesso si sente dire che la sporcizia è un indice della civiltà e dell’educazione di un popolo. A giudicare dall’elevato numero di cartacce appallottolate, lattine schiacciate, cartoni di bevande spiegazzati, fazzolettini di carta stropicciati e abbandonati dopo l’uso con i quali inevitabilmente conviviamo tutti i giorni, nelle stazioni, nelle piazze, sui tram, nelle metropolitane e nelle aule delle nostre scuole, dovremmo considerarci un popolo decisamente incivile. Ma rimandiamo ad altre occasioni una riflessione sul problema morale ed educativo che la sconfortante onnipresenza di questi oggetti indurrebbe a fare e focalizziamo la nostra attenzione sulla loro forma. Non appena si prova a descriverla ci si rende subito conto di quanto il livello della complessità morfologica di questi oggetti sia, insospettatamente, alto. Non perdiamoci d’animo e proviamo ad osservare e descriverne uno. Che cosa distingue una lattina schiacciata da un’altra? Un fazzoletto da naso, una volta usato e accartocciato, da un altro che ha subito la stessa sorte? Un foglio di carta appallottolato da un altro, abbandonato poco più in là?
Senza alcuna difficoltà riusciamo a distinguere le lattine dalle cartacce e i cartoni dai fazzolettini, siamo cioè in grado di cogliere immediatamente ciò che contraddistingue un oggetto da un altro, la loro diversità di materia, colore, peso, dimensione e ovviamente quella relativa alla loro specifica e inconfondibile forma.
Ma a ben guardare è proprio la loro “inconfondibile forma” che si rivela essere un vero e proprio enigma percettivo. Proviamo a descrivere gli aspetti che confeririscono a ciascuno di essi un carattere di individualità o di singolarità, quei tratti morfologici che rendono immediatamente inconfondibile una mela stark da una mela renetta, un bicchiere a calice da un altro cilindrico, o un coltello da dolce da uno da carne, una bottiglia da vino da una boccetta di profumo, ecc. Cos’è che differenzia una cartaccia da un’altra, una lattina schiacciata da un’altra? Quali sono le caratteristiche e le proprietà che ci consentono di non confonderle? Proviamo a dare qualche risposta.
Ciò che rende inaspettatamente difficoltoso distinguere una cartaccia da un’altra, una lattina schiacciata da un’altra deriva dal fatto che questo genere di forme sembra essere privo di quei tratti, condivisivi da tutti gli altri oggetti, che abitualmente svolgono una funzione, diciamo così, fisiognomica, in quanto assicurano a ciascuno di essi una individualità propria e sui quali concentriamo la nostra attenzione visiva. La loro irregolarità, la mancanza di una struttura semplice e ordinata, disposta secondo le coordinate dello spazio cartesiano, l’assenza di un orientamento preciso, (quale delle loro tre dimensioni corrisponde all’altezza, quale alla lunghezza e quale alla larghezza?) e il susseguirsi di pieghe, strappi, ammaccamenti, spellature, disposte in un modo del tutto imprevedibile costringerebbero l’occhio che le volesse memorizzare a un esercizio di focalizzazione faticosissimo ed estenuante e all’immagazzinamento di una smisurata quantità di informazioni visive inutilizzabile ai fini dell’apprezzamento visivo della loro forma e della loro affordance percettiva.
Ciò che noi vediamo nella visione diretta sono gli invarianti percettivi di ciascuna determinata classe di oggetti, la cui funzione è proprio quella di garantirne l’immediato riconoscimento. Per ottenere questo risultato percettivo la visione si avvale dei principi gestaltici della massima economia nel selezionare e organizzare, nel minor tempo possibile, gli stimoli visivi relativi ai tratti peculiari e portatori di un significato morfologico univoco. Il compito della percezione visiva è quello di raccogliere informazioni provenienti dal nostro ambiente ottico su quanto si presenti come persistente e stabile rispetto a quanto continua a mutare. Il rilevamento delle invarianti percettive è ciò che guida il nostro abituale modo di guardare il mondo che ci circonda, mediante il quale noi non rileviamo le singole componenti del percetto ma cogliamo l’oggetto nella sua pienezza oggettuale, con tutto il suo portato cognitivo e operativo, sintetizzabile nel concetto di affordance: è una visione di tipo sintetico in cui l’insieme, il tutto, prevale sulle qualità e proprietà dei dettagli.
Là dove la forma dovesse presentare soltanto continue variazioni delle sue proprietà morfologiche e ottiche l’occhio, assolvendo alla lettera il suo compito evolutivo, non si attarderebbe più di tanto e velocissimamente la declasserebbe nella tipologia, nel catalogo, delle forme irregolari. Per la visione la struttura è immanente ad ogni assetto ottico ambientale. L’occhio è predisposto a rilevare un invariante morfologico anche in un bordo occludente, in un gradiente di tessitura delle superfici, perché è pienamente consapevole che un oggetto solido che si muove nello spazio può dare luogo ad una infinita varietà di forme proiettive, e che una fra le tante non sarebbe in grado di fornirci le informazioni necessarie a farci vedere la forma solida dell’oggetto di cui ne è la proiezione piana.
Tuttavia noi non vediamo solo superfici, forme, oggetti, relazioni spaziali; vediamo molto di più: valori luminosi, bagliori, eventi, trasparenze, cangianze cromatiche, perturbazioni; si può vedere un’esplosione, l’acqua nel bicchiere, la sabbia della spiaggia ma nessuna di queste cose possiede una forma; e molte cose ancora che pur vediamo, non hanno una superficie; molte altre sono in movimento e le vediamo anche se non presentano un contorno preciso. L’ambiente in cui viviamo non è popolato soltanto da cose e oggetti delimitati da forme immediatamente riconoscibili.
Esiste un numero imprecisato di altre forme, le quali, proprio perché non rispondenti a queste proprietà, spesso costituiscono i più affascinanti “enigmi di forma”, fluttuanti, effimeri, complessi, turbolenti, irreversibili e cangianti. “Le onde del mare, le linee della salsedine sulla battigia, la fugace curva della baia di sabbia tra i promontori, il profilo dei colli, la forma delle nuvole, sono tanti enigmi di forma, sono tanti problemi di morfologia” (D’Arcy W. Thompson, Crescita e forma)che non si lasciano iscrivere all’interno di figure geometriche euclidee.
In realtà il mondo visibile in cui viviamo è molto più vario e più ricco di cose e sostanze materiche prive di forme regolari e ordinate, che il nostro occhio rimuove così velocemente da persuaderci che il mondo ne sia privo. Lo sguardo incontra innumerevoli altri elementi che non possiedono una forma canonica e regolare, quali possono essere le macchie, le pozzanghere, le cortecce, le nuvole, le volute del fumo, le fiamme del fuoco, i vapori, le zolle di terra, i sassi scabrosi, le schiume, le turbolenze, i gorghi, gli ammassi di polvere o le sostanze vischiose, mielose, gelatinose (…). Tutte sostanze che non presentano una forma propria, né struttura, consistenza e densità stabili, ragion per cui vengono a costituire una sorta di campionario del rimosso morfologico: oggettiesclusi dalla scienza e dalla teoria della percezione, qualificati come sostanze informi, o difformi, irregolari, indistinguibili e pertanto nemmeno memorizzabili. Chi si ricorda che forma ha la pozzanghera in cui ci siamo imbattuti sbadatamente durante una giornata piovosa?
Dopo mesi di attesa finalmente è stata completata la pavimentazione di via Paolo Sarpi a Milano. Passeggiando in lungo e in largo con l’intento di apprezzare anche visivamente il nuovo lastricato il nostro occhio non ha potuto fare a meno di constare quanto fosse di già macchiato dalle più svariate sostanze: dal bitume, a sostanze grasse, oleose, a vernici o avanzi di cibo, bevande e perfino resti di feci di cani o altri animali. Ciò che accomuna queste sostanze è che sono tutte catalogate come differenti tipi di macchie, come oggetti amorfi, privi di una propria forma, in diversi ambiti classificate come delle forme difformi.
Vengono definite tali perché destrutturano la visione, perché le loro singolari unicità non consentono all’occhio di assimilarle o identificarle con una tipologia di strutture in qualche modo riconoscibili, né gli permettono di isolarne qualche aspetto invariante da poter assumere come riferimento visivo. Le forme difformi sono prive di struttura e quindi visivamente destrutturanti, proprio perché non presentano nulla di costante, di ripetitivo, di simmetrico, di regolare, di economico... nulla cioè che possa costituirsi fattore strutturante dei processi percettivi. Eppure nella natura ogni cosa ha una forma, anche quelle che il nostro occhio non riconosce come cose perché prodotte dal caso, quindi non regolari e non rispondenti ai principi gestaltici. Purtroppo a causa del poco spazio che abbiamo rinviamo ad altro momento la riflessione sul fatto se la cosa sia un anagramma del caos o il caos sia un anagramma della cosa.