L’arte di 50.000 anni fa
Ci sono domande le cui risposte non sono destinate a soddisfare una mera curiosità, o a colmare una lacuna e nemmeno ad acquisire un’informazione utile per prendere una decisione o per essere spese in qualche ambito conoscitivo: le risposte di queste domande pongono altre domande ancora più intricanti e ineludibili della domanda che le genera. Come s’è capito, spero, si tratta di domande destinate a rimanere inevase, a non avere una risposta certa, né definitiva ma che, tuttavia, continuano ad imporre la loro urgenza.
Una di queste domande è la seguente: quando la mano dell’uomo ha dipinto la prima immagine?
La risposta sembrerebbe ridursi all’individuazione di una data, o di un periodo preciso nell’evoluzione umana. In realtà la sua apparente semplicità (?) svanisce non appena si cerca di avanzare una qualche risposta.
La produzione di immagini nelle società prive di scrittura, iniziata più di 50.000 anni fa e proseguita senza mai interrompersi fino ai giorni nostri, è un tratto comune a tutte le civiltà di tutti i continenti e di ogni epoca. Dipingere un’immagine, pertanto, è una forma di espressione naturale o culturale, implica una codificazione, un’elaborazione cognitiva e un’astrazione simbolica oppure richiede un graduale apprendimento delle abilità necessarie alla trascrizione di ciò che appare davanti all’occhio? Inoltre, le immagini che i pittori paleolitici hanno dipinto sulle pareti delle grotte erano considerate dai loro autori delle raffigurazioni simboliche, delle forme mediatiche, dei supporti mnemonici di racconti mitici, degli oggetti di culto, oppure delle opere d’arte nell’accezione che gli diamo noi oggi al termine?
È del tutto evidente che a seconda della natura e della funzione, che noi attribuiamo a quelle immagini, muta non solo il loro senso ma anche il nostro modo di guardarle e cercare di comprenderle.
Queste preliminari puntualizzazioni, che ai più parranno essere dettate da un noioso esercizio di pedanteria critica, attraversano come una filigrana trasparente i numerosi saggi contenuti nel poderoso volume curato da Carole Fritz “L’arte della preistoria”, Einaudi, Torino 2022. Alla realizzazione del libro hanno contribuito numerosi specialisti internazionali delle differenti aree geografiche (Europa, Asia, Africa, Australia, Oceania e Americhe) e delle diverse fasi storiche, che gli archeologi suddividono in Paleolitico superiore (suddiviso a sua volta in Aurignaziano, Gravettiano, Solutreano e Maddaleniano, i cui nomi derivano dai rispettivi siti), Mesolitico, Neolitico, Età del bronzo ed Età del ferro in cui sono state prodotte le pitture parietali nella preistoria. Il testo documenta in modo puntuale ed esaustivo le forme specifiche che questo genere di arte ha assunto nei diversi punti della terra con un ricchissimo e sontuoso apparato iconografico, composto da 700 immagini a colori, molte a tutta pagina, ovvero di 31x24 cm di grandezza e alcune addirittura grandi il quintuplo, estendendosi sulle due facciate aperte di un foglio di carta bianca doppio e ripiegato all’interno che continua dietro il margine nelle altre tre facciate di seguito, le due del retro del foglio aperto più quella del foglio di volta. Le cinque facciate restituiscono, così, un’unica grande immagine che riproduce i venti metri di lunghezza di uno spettacolare fregio di bassorilievi scolpiti sulla parete di Le Roc-aux-Sorciers, Vienne in Francia, scoperta negli anni Cinquanta, che comprende una coppia di bisonti, un cavallo, un bisonte coricato, tre corpi femminili, un gruppo di stambecchi e un leone.
Vale la pena ricordare che la scoperta dell’arte paleolitica, che si estende in tutta l’Europa dalla punta dell’Andalusia fino agli Urali, è un evento sorprendentemente molto recente. La scoperta della prima grotta, quella di Altamira, in Cantabria, risale al 1879; da allora sono state scoperte centinaia di altre grotte e ripari in cui furono dipinte e incise immagini prevalentemente di animali. Oggi in Europa sono stati individuati circa 400 siti di arte parietale, il cui significato altamente simbolico testimonia l’importanza che questa attività svolgeva nella vita spirituale degli uomini del tempo. La particolarità che fondamentalmente più caratterizza l’arte paleolitica è la sua collocazione, che attesta un’attrazione per i luoghi più inaccessibili, situati nelle profondità più recesse delle grotte. Nel testo viene messo in evidenza che in nessun’altra epoca gli uomini si sono avventurati tanto lontano nel sottosuolo. Esemplare a riguardo è la grotta di La Cullalvera (Cantabria), in cui i pittori paleolitici si sono inoltrati nelle profondità dei suoi reticoli carsici, alcuni di essi lunghi anche qualche chilometro, unicamente per imprimere dei segni sulle loro pareti.
L’arte paleolitica copre un periodo molto esteso, di almeno 30.000 anni e nonostante i progressi compiuti con le recenti tecnologie non è ancora possibile datare con certezza l’anno in cui le opere sono state realizzate. Il testo riporta puntualmente le differenti metodologie attualmente adottate nella datazione, spiegando i pregi e i limiti di ciascuna di esse, concludendo che in linea generale la cronologia della maggior parte delle opere rupestre è largamente congetturale, pur riconoscendo che la questione della determinazione di una cronologia affidabile costituisce il punto cruciale di ogni discussione sull’arte preistorica. Nell’ambito della archeometria sono stati approntati numerosi metodi, dalla misurazione elaborata nel 1947 da Willard F. Libby relativa alla radioattività residua naturale del carbonio-14, che per effetto del decadimento della sua concentrazione (si dimezza ogni 5568 anni) nell’organismo vivente (vegetale e animale) in cui è presente, permettendo di calcolare la data di quando è avvenuta la sua morte. Altri metodi sono chiamati di datazione indiretta perché si riferiscono alle sostanze che si sono depositate sulle pareti nel corso del tempo come le patine di ossalato di calcio, o il film di silice amorfa, o di calcite che contiene l’uranio (U/Th); la luminescenza (TL e OSL) che alcuni materiali ionici cristallizzati emettono quando vengono bombardati da radiazioni ionizzanti. Tuttavia, si precisa nel testo, che essendo queste metodologie incentrate “sulle proprietà chimico-fisiche della materia si fondano su ipotesi difficilmente verificabili che ne minano l’attendibilità.”
La mancanza di una precisione assoluta nella datazione non ha impedito però di far crollare alcuni paradigmi sull’evoluzione stilistica delle pitture preistoriche, ancorati alla convinzione che, in origine esse sarebbero state tutte essenzialmente astratte, limitate a forme sintetiche e in schematizzazioni geometriche che, soltanto successivamente e gradualmente, nel tempo si sarebbero evolute in raffigurazioni sempre più naturalistiche e fedeli alle proporzioni reali dei corpi. Ora si ha la certezza che questo ideale artistico, o canone della mimesis che i pittori paleolitici avrebbero dovuto perseguire attraverso una successione di fasi o stili, ritenuto valido in tutte le epoche, teorizzato prima dall’abate Henri Breuil e poi perfezionato da Andrè Leroi-Gourhan, non ha alcun fondamento storico. La tappa che ha fatto crollare questo paradigma è stata indubbiamente la scoperta, nel dicembre 1994, della grotta di Chauvet-Pont d’Arc, sulle cui pareti sono conservate le sorprendenti raffigurazioni di cavalli, leoni, bisonti, orsi e rinoceronti dipinte con straordinaria precisione nelle proporzioni e con sofisticato ed efficacissimo naturalismo nei movimenti, la cui datazione al radiocarbonio-14 le colloca tra il 36/37.000 anni fa, attestandole come i dipinti figurativi più antichi dell’umanità.
I modelli lineari dal più semplice al più complesso vengono così abbandonati, anche perché non trovano riscontro neanche nella storia più recente, dove si evince chiaramente che l’arte non risponde ad alcun concetto di progresso, né procede secondo regole prevedibili, ma alterna periodi di prodigiose invenzioni e salti in avanti a periodi di conservazione e consolidamento dei codici vigenti, ad altri di risvegli o rinascite di canoni del passato.
Il volume si compone di due parti: la prima parte espone una panoramica delle ricerche in corso, presentate dai rispettivi autori, sull’arte rupestre mondiale; la seconda parte raccoglie le riflessioni dei ricercatori che hanno fatto parte del progetto “PréhArt” che la stessa curatrice del volume ha diretto per cinque anni.
Per gli autori del testo la sfera simbolica è quasi sempre del tutto indipendente da quella materiale e può quindi non essere influenzata dalle innovazioni tecniche. A partire da questo assunto si sostiene che la pittura figurativa abbia avuto origine da un comportamento spontaneo dell’uomo sapiens, che ha nel tempo saputo affinare fino a raggiungere livelli prodigiosi di perfezione tecnica e stilistica. Si esclude che l’uomo neandertaliano avesse potuto raffigurare immagini naturalistiche, pur avendo acquisito un comportamento simbolico rilevante, in virtù del quale ha potuto elaborare forme grafiche essenzialmente schematiche. “Pur possedendo le capacità cognitive necessarie allo svolgimento di alcune pratiche simboliche, i Neandertaliani non hanno prodotto nessun tipo di arte figurata.”
Gli archeologi autori dei saggi distinguono nettamente la nozione di simbolismo (o di pensiero simbolico) da quella di creazione di forme grafiche complesse, quella che chiamiamo arte figurativa: le due pratiche non devono essere confuse perché non sono simultanee. Il possesso di un pensiero simbolico non assicura di per sé la capacità di creare forme grafiche complesse. Tra la pratica di incisioni lineari, la produzione di forme grafiche semplici e la raffigurazione di forme degli animali non c’è stato nel corso dell’evoluzione un passaggio lineare e graduale. Allo stato attuale delle conoscenze, sostengono gli autori del testo, la comparsa della capacita cognitiva e culturale di creare figure animali o umane è una prerogativa esclusiva dell’uomo Sapiens.
I frammenti di ocra con le incisioni lineari incrociate scoperti a Blombos, risalenti a 70.000 anni fa, o le decorazioni a griglie geometriche incise sui gusci delle uova di struzzo utilizzate come scodelle, di 60.000 anni fa, trovate nel sito di Diepkloof sempre in Sudafrica, attestano un registro relativamente limitato di motivi e organizzazioni figurali e sono collocati a una distanza temporale di circa 30.000 anni dalle prime raffigurazioni di animali. Soltanto dopo un lungo periodo di comportamenti simbolici, condivisi con le ultime generazioni di neandertaliani, che producono grafismi semplici, compare “improvvisamente” (su scala millenaria) l’immagine figurativa. Tutto sembra portare a concludere che l’apparizione delle immagini di animali e di uomini dipinte sulle pareti delle grotte europee abbia richiesto un lungo periodo di maturazione di pratiche simboliche, una condizione necessaria ma non sufficiente perché, sottolineano gli autori del libro, occorre aggiungervi il fattore cognitivo.
Il libro è un compendio prezioso e ricco di analisi stilistiche dei siti archeologici più importanti, ma siccome per ragioni di spazio non possiamo rendere conto qui di tutti, ci limitiamo a riferirne alcune, relative ai siti meno noti ma che si contraddistinguono per la loro singolarità stilistica.
Tra questi rientra la sorprendente parete del riparo di Ushakothi, Chhattisgarh, in India, collocata nel Neolitico coperta da una moltitudine di segni grafici e motivi geometrici variopinti; la elegantissima stele dei cervi del sito di Ulaan-Uushig, di Hộvsgộl (Mongolia), sulla quale è incisa una sequenza di motivi schematizzati del palco del cervide, le cui curve arrotondate inverano una sorta di metamorfosi di motivi zoomorfi in motivi fitomorfi. L’animale sembra librarsi in aria assumendo anche la forma di un uccello, con un muso assottigliato simile a un becco, conferendo alla stele il significato di un elemento che mette in comunicazione la steppa con il cielo.
Non meno sorprendenti sono le gigantesche incisioni di Niola Doa (Ennedi nel Ciad) del Neolitico che raffigurano la steatopigia di enormi figure femminili dalla testa rotonda modellata da cerchi concentrici, vestite da fitte decorazioni e texture di motivi geometrici ondulati, a spina di pesce, a zig-zag o da moduli a losanga.
Sotto l’aspetto più narrativo ancorché di una visionarietà enigmatica segnaliamo le sconvolgenti pitture del Panther Cave, Seminole Canyon nel Comstock, Texas, in cui delle strane e inquietanti figure antropomorfe, alcune di 3,5 metri di altezza, la cui testa prende forme differenti, a forma di U, a strati sovrapposti … tutte allungate e dotate di arti di ridotte dimensioni rispetto al tronco, accostate ad altre enigmatiche forme di presumibili animali, insetti giganti, o esseri immaginari, sono state interpretate come le allucinazioni visive di uno sciamano appena uscito da una trance, causata dalla mescalina. Lo stile di queste pitture, che raffigurano complesse narrazioni delle antiche mitologie mesoamericane, costituisce un tratto ricorrente tra tutte le pitture di stile Pecos River, e anche delle mitologie degli Aztechi e degli Huicholes del Messico, in quanto rispondeva alle stesse funzioni che svolgevano i codici pittorici precolombiani, ovvero comunicare mediante un repertorio grafico molto specifico concetti cosmogonici e mitologici complessi.
Concludiamo questa breve rassegna con le pitture rupestri delle popolazioni aborigene dell’Australia, le cui differenti forme sono tutte riconducibili a un unico tema, quello di Dreamtime (Tempo del sogno), la base di un sistema di credenze diffuso su scala continentale, che lega la terra agli esseri ancestrali che hanno dato origine alla stessa terra e agli uomini. Queste pitture rupestri sono attribuite dagli aborigeni agli Wandjina, esseri immateriali, spiriti delle nuvole e della pioggia, i cui antenati nel corso del Tempo del sogno hanno modellato i paesaggi della terra e il loro stesso corpo. Tali spiriti prima di morire, cercano rifugio in un riparo o in una caverna, dove dipingono la loro immagine sulle pareti prima di scomparire. Le loro immagini nel corso del tempo vengono continuamente restaurate dalle generazioni che si susseguono nei millenni affinché la loro forza vitale rimanga sempre attiva.
Le volte del sito Nawarla Gabarnmang, della Terra di Arnhem, nel Territorio del Nord Australia, collocato temporalmente in un periodo che va dal 14.000-500 anni fa, contengono un vasto numero di pitture (1380 sulle volte) raffiguranti pesci, canguri ed esseri antropomorfi molto variopinti, la cui intensità cromatica e ampiezza della tavolozza dal rosso scuro al bianco crea un forte impatto visivo. Le forme degli animali seguono le ondulazioni delle rocce affinché i loro corpi assumano uno spiccato effetto volumetrico, sebbene siano raffigurati con la tecnica “a raggi X”, che rende visibile l’interno del corpo, lo scheletro, gli organi e i muscoli.
Il vasto e bellissimo apparato iconografico ovviamente non è limitato alle opere pittoriche, per quanto decisamente le più diffuse, ma include anche delle splendide immagini alla serie delle cosiddette “Veneri”, ovvero alle sculture di corpi femminili. Tra le tante scegliamo quella che potremmo definire il primo “ritratto” scolpito, ossia l’enigmatica Dama di Brassempouy, (il nome indica la grotta in cui è stata rinvenuta) a Landes in Francia, il cui volto mostra la delicata fisionomia di una giovane donna, modellato con dovizia di dettagli somatici, inusuali a quel tempo, come il naso, le arcate sopraccigliari e un mento dolcemente arrotondato, sormontato su di un esile collo e incorniciato da una capigliature finemente tratteggiata e forse raccolta in una rete, l’insieme concorre a donare a questa piccola scultura di avorio una forza espressiva e una qualità estetica davvero unica per il suo tempo.
Tuttavia alla fine della lettura una certezza questo libro ce la consegna: quella di avere tra le mani un testo imprescindibile per tutti coloro che a diverso titolo nutrono un interesse verso l’arte preistorica e le affascinanti questioni della nascita dell’arte. Senza alcun dubbio costituirà un riferimento anche per gli studi futuri e per chi oggi è in cerca di una fonte scientifica, approfondita e, per quanto possibile, anche esaustiva delle diverse forme di arte rupestre che l’uomo, fin dalla notte dei tempi, ha impresso sulle superfici della terra e che sono pervenute fino a noi oggi.
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