Lo sguardo consapevole
Fin dalla prima comparsa la gran parte delle immagini dipinte era destinata a rappresentare quel che gli occhi avevano precedentemente visto. Questo porterebbe a concludere che il contenuto visivo delle immagini sia equivalente a quello che lo sguardo comune abitualmente rileva quando guarda ciò che gli si pone davanti, assumendo così la funzione comunicativa, definita fin dall’antichità, della mimesis, ovvero quella di una riproduzione iconica che imita e duplica le apparenze ottiche delle cose reali. Tuttavia, rimane ancora aperta una questione apparentemente defilata che gli ortodossi della teoretica definirebbero di lana caprina, ma che, come presto vedremo, amplia e problematizza l’assunto iniziale: i pittori dipingono quello che vedono o vedono quello che dipingono?
Il pittore che si limita a dipingere quello che vede, al di là delle difficoltà tecniche che questo implica, di fatto compie un'operazione sostanzialmente assimilabile a quella che avviene nella ripresa fotografica: replica sulla tela ciò che le sue retine hanno registrato. Affermare, invece, che i pittori “vedono” quello che dipingono significa alludere che i loro occhi vedono qualcosa che non appare immediatamente visibile agli occhi di tutti gli altri. Equivale a porre un discrimine gravido di conseguenze sotto molti aspetti. Attestare che l'immagine dipinta non è sovrapponibile all’apparenza ottica del mondo visibile equivale a insinuare che i contenuti dell'immagine pittorica non sono da ricondurre unicamente ai suoi referenti esterni ma all’esperienza soggettiva del pittore, alla sua personale “visione del mondo”. L'occhio del pittore, in questo caso, si farebbe carico di rilevare l’invisibile del visibile, gli aspetti, le proprietà e le caratteristiche che abitualmente lo sguardo comune non può vedere, perché appartenenti a un altro orizzonte.
Contestualizzando, poi, la questione nell'epoca contemporanea, ci si accorge che occorre aggiungere un terzo corno alla diade iniziale: il pittore non rappresenta quel che vede, ma dipinge quel che pensa di vedere, ovvero rende visibile un pensiero sulla visione, sul suo modo di vedere. In questo caso il pittore apre il suo sguardo a ciò che, pur non essendo visibile, si pone comunque in strettissima relazione con quel che appare visibile ai suoi occhi. L’attività del pittore fa emerge chiaramente che il mondo visibile, la realtà che abbiamo davanti, non è riducibile a un fenomeno ottico, perché il senso di quel che appare è negli occhi di chi lo guarda, nei suoi interessi, motivazioni, aspettative, empatie, assolutamente determinanti per la comprensione dell’immagine che lo raffigura.
Tra i testi che affrontano queste problematiche c’è il lavoro di un importante pittore e teorico dell’arte polacco, Władysław Strzemiński (1893-1952) autore del testo Teoria del vedere. Sulla creazione dell’immagine, pubblicato recentemente (Il Saggiatore, 2023, prefazione di Francesco M. Cataluccio, trad. di Alessandro Ajres). Reduce della Prima guerra mondiale, durante la quale perse la mano sinistra e la gamba destra, negli anni 1918-1919 Władysław Strzemiński iniziò la sua formazione artistica a Mosca nei primi Atelier statali, dove ebbe come insegnanti il pittore Kazimir Malevič, l’architetto Vladmir Tatlin e il fotografo Aleksander Rodčenko. Assieme a Kazimir Malevič organizzò mostre a Vitebsk esponendo le opere di artisti che verranno riconosciuti come le punte di diamante dell’avanguardia dell’arte astratta russa, da Rodčenko allo stesso Malevič, da Altman a Chagall, da Kandinskij a Ol’ga Rozanova.
Aderì inizialmente agli ideali del Suprematismo di Malevič che mirava a ridurre le componenti formali dell’immagine pittorica a puri elementi geometrici astratti, finalizzati a raffigurare l’essenza “suprema” della visione. Nel 1921 si stabilì a Lódź, in Polonia, la città in cui visse il resto della sua vita assieme alla scultrice Katarzyna Kobro e dove contribuì a fondare nel 1947 il Muzeum Sztuki, uno dei primi musei di arte moderna al mondo, progettandone la Sala Neoplastica. Partecipò attivamente alla vita dei circoli artistici più significativi dell’avanguardia polacca, aprendo un dialogo continuo con artisti come Piet Mondrian, Theo Van Doesburg, George Vantongerloo, Filippo Tommaso Marinetti, Hans Arp. Sebbene sia stato dimenticato per decenni in patria e quasi del tutto ignorato in Europa Strzemiński affiancò alla ricerca artistica anche un’intensa e innovativa attività teorica, condensata in questo testo, che lo portò a spostare il suo interesse dalla costruzione dell’immagine alla comprensione del processo visivo, considerato un mezzo fondamentale per far maturare una coscienza critica anche delle condizioni di vita dell’uomo nella società.
L’assunto su cui poggiava la sua teoria era quello di far emergere il ruolo che nel processo della visione svolge la “consapevolezza visiva”: vediamo solo quello di cui siamo consapevoli, ovvero non le immagini ottiche della realtà nella loro oggettiva costituzione, bensì solamente ciò che di queste accede e permea la memoria visiva di ogni uomo. L’autore distingue tra un vedere biologico e la consapevolezza del vedere: il primo, pur essendo derivato da una lunga evoluzione biologica, rimane immutato ed uguale per tutti gli uomini; il secondo è soggetto a una continua evoluzione in quanto è un processo storico e storicamente condizionato dalle esigenze sociali, dagli interessi e dalle attitudini soggettive.
“Teoria del vedere” è una raccolta di appunti di lezioni, articoli pubblicati su riviste e cataloghi e scritti inediti, che venne presentata per la prima volta al pubblico durante una mostra postuma dedicata a Władysław Strzemiński e a sua moglie Katarzyna Kobro nel 1956 a Lódź. Successivamente fu pubblicata in forma di libro a Cracovia nel 1958, sei anni dopo la morte dell’autore. Il titolo esplicita in modo estremamente chiaro il contenuto del testo, suggerendo che all’origine della creazione dell'immagine c’è sempre un modo singolare e non abituale di vedere quel che l’immagine dipinta rappresenta. All’origine di ogni cambiamento di stile pittorico, sostiene il pittore polacco, c’è una perspicua “consapevolezza visiva” che riflette una complessità di fattori, dalla cultura del tempo ai processi produttivi ai conflitti sociali che ne scaturiscono. Il concetto di consapevolezza visiva è la parola chiave, il leitmotiv che ritorna continuamente nel testo, chiamato a incarnare il propellente, la spinta iniziale della nascita della pittura e dei successivi cambiamenti degli stili artistici che si susseguiranno nel corso della storia. Ogni tipo di consapevolezza visiva esige dei mezzi di espressione che le corrispondono; degli elementi formali coerenti in grado di raffigurarne l’equivalente pittorico.
Per Władysław Strzemiński la consapevolezza visiva è un prodotto dell’umanità; corrisponde alla gamma dei fenomeni percepiti dall’uomo; è una variabile soggettiva e sociale la cui incidenza muta tanto in relazione allo sviluppo cognitivo dell’individuo quanto allo sviluppo storico della società ed è finalizzata a selezionare gli aspetti della realtà fisica più significativi, ritenuti tali dagli interessi soggettivi e/o dall’insieme delle idee e dai sistemi naturali della cultura. Il testo espone una carrellata delle differenti forme d’arte figurativa che si sono avvicendate nel corso della storia dell’arte, da quella preistorica a quella contemporanea, indagate e descritte come riflessi dell’evoluzione di differenti gradi di consapevolezza visiva. Teorizza una concezione della storia dell’arte come una storia del modo in cui gli occhi dei pittori hanno guardato il mondo, guidati dalla consapevolezza di rendere visibile l’inestricabile connessione che sussiste tra la visione e i sistemi culturali, l’espressione artistica e lo sviluppo della civiltà. Per ragioni di spazio ci limitiamo a elencare in modo sintetico i tratti salienti della consapevolezza visiva di alcuni periodi storici, rimandando il lettore alla lettura del libro per l’esposizione estesa. L’arte preistorica, come l’espressione figurativa dei bambini, ha origine dal primo grado di consapevolezza visuale: la cognizione del fatto che ogni cosa possiede un perimetro esterno che si può restituire con la linea del suo contorno.
Successivamente una maggiore intensificazione dell’osservazione delle cose porta alla consapevolezza dell’intera superficie di un oggetto, restituita con la visione del profilo di una figura compatta al suo interno, atta a figurarne l’uniformità della struttura materiale. Alla fine del Paleolitico in connessione con l’emergere dei riti e culti magici sorge la questione della relazione spaziale degli oggetti restituita per mezzo della prospettiva intenzionale, per la quale la grandezza che un oggetto ha nell’immagine non dipende dalla sua grandezza reale ma deriva dal rapporto soggettivo, magico o emotivo che questo intrattiene con il pittore. Nell’epoca dell’arte arcaica dell’antica Grecia la pura visone di profilo cessa di corrispondere alla nuova consapevolezza visiva che pone la necessità di rimodellare tutti gli elementi formali dell’espressione. Subentra la proiezione parallela delle figure poste su di un’unica base e introduce il motivo della loro sequenza ritmica, nonché la colorazione del loro profilo affinché risultino nettamente separarle dallo sfondo.
Particolarmente curiosa è la spiegazione della nascita della architettonizzazione delle figure, fatta derivare dal fenomeno fisiologico dell’immagine residua, che permette il trasferimento di singoli elementi della forma da un oggetto all’altro, da un oggetto architettonico a un vaso o alla testa di una figura umana. Per l’autore si tratta dell’accumulo di sguardi trasferiti, anche involontariamente, da una forma a un’altra. L’essenza del bello classico dell’arte greca deriva dalla consapevolezza visiva “dell’evoluzione del realismo del vedere nella bellezza del vedere l’esperienza estetica come una necessità della purificazione morale interiore.” Nell’arte romanica percepiamo come bellezza l’armonia architettonica come la vera essenza del vedere, perché in essa esisteva lo stesso elemento formale che la legava alla pittura: la cupola quadrata e la pianta quadrata della volta a crociera recepite in pittura nella griglia quadrata dello schema delle proporzioni.
Il contenuto visivo sviluppato dal gotico e dal primo Rinascimento è riducibile alla visione di oggetti isolati. Soltanto con l’invenzione della prospettiva convergente, avvenuta in epoca rinascimentale, la terza dimensione dello spazio divenne un fattore attivo, che permise all’occhio dell’osservatore di determinare il grado di distanza della profondità spaziale. La consapevolezza visiva del chiaroscuro che teneva in conto l’oggettiva esistenza dell’ombra fece esplodere il sistema coloristico rinascimentale.
Il percorso storico si conclude con un’interessante analisi del lavoro pittorico di Vincent Van Gogh, incentrata sulla funzione che i punti focali svolgono nella composizione pittorica di alcuni suoi paesaggi, identificandoli come i centri di attenzione visiva su cui si è concentrato lo sguardo del pittore. Il testo in questo excursus ripropone una versione personale di una metodologia critica assimilabile a quella che lo storico dell’arte svizzero Heinrich Wölfflin aveva già teorizzato nel suo fondamentale I concetti fondamentali della storia dell’arte, del 1915, dove il percorso si snodava in analisi comparative di coppie di elementi formali lineare-pittorico, superficie-profondità, forma aperta-forma chiusa, molteplicità-unità, chiarezza assoluta-chiarezza relativa, che si susseguono nel tempo storico. La parte più originale e interessante del testo, quindi, non è la metodologia critica adottata quanto l’aver precisato e descritto la differenza che sussiste tra la visione biologica e il vedere artistico; la trasposizione di alcuni fenomeni percettivi in mezzi espressivi, dall’immagine residua ai centri di focalizzazione dello sguardo. In particolare, il contributo più rilevante lo si riscontra senz’altro nel ruolo attribuito alla consapevolezza visiva: “l’origine dei cambiamenti nelle arti visive è nel cambiamento della consapevolezza visiva.” Per Strzemiński è il più importante fattore generativo dell’innovazione degli elementi formali e dell’evoluzione della figurazione pittorica.
In questo excursus si può facilmente evincere una risposta molto precisa alla questione posta all’inizio. Il pittore polacco afferma che “il contenuto visivo, cioè la quantità di impressioni visive di cui ci siamo resi consapevoli, non rimane lo stesso, ma si sviluppa nel corso della storia dell’umanità;” ragion per cui lo sviluppo del realismo pittorico è infinito, giacché ogni espressione artistica di ciascun periodo storico è una forma di realismo storicamente limitata, in quanto figlia esclusivamente di quel determinato periodo. Questo spiega che, se ogni epoca produce il suo realismo, nessuna forma di rappresentazione può mai riflettere pienamente la realtà fisica, né quella storica del mondo.