Sacro romano GRA
Pubblichiamo un estratto da Sacro romano GRA di Nicolò Bassetti e Sapo Matteucci pubblicato da Quodlibet Humboldt da pochi giorni in libreria
«Centro… Centro!», ci dicono sorridenti due giapponesi, indicando con l’indice il pavimento del Vittoriano. L’Altare della Patria, per i romani la Macchina da Scrivere, è amato dai turisti quasi quanto il Colosseo. Dalla sommità, sotto i cavalli e le bighe delle vittorie alate, si vede magnificamente tutta Roma, anzi si possiede. Forse per questa ragione, istintivamente, molti lo sentono il centro, ma altri
invece dicono: «San Pietro», «piazza di Spagna», oppure, poco più in là, «piazza Venezia».
L’ossessione del centro è comprensibile per chi cerca l’ombelico del mondo e dato che l’Urbe è una città eterna, si cerca l’ombelico dell’eternità. Un esercizio del tutto inutile. Per i romani, il centro è quello storico, contenuto dall’anello delle mura aureliane, che ancora funzionano egregiamente da simbolo capace di racchiudere qualcosa. In realtà Roma è incontenibile e si espande ovunque. Le seconde mura simboliche sono quelle ben più vaste del Grande Raccordo Anulare, protagonista della romanità quotidiana più del Colosseo e di San Pietro, nonché portatore sano di traffico e responsabile di «immani misfatti»: dagli imbottigliamenti quotidiani alla proliferazione di agglomerati abusivi o meglio spontanei, fino alle lottizzazioni delle «prestigiose dimore immerse nel verde». Proprio in tutti i territori del Raccordo si esprime un paradosso solare: l’abuso di necessità.
Una definizione assolutamente contraddittoria, che indica il peccato assolvendolo. In realtà, la necessità abitativa, non trovando sbocco in regole praticabili, ha lasciato campo libero alla spontaneità. Le regole dicevano quello che non si poteva fare, ma non quello che si poteva fare. Comunque il GRA, così come è oggi, è figlio del boom economico anche se nasce prima (i lavori partono nel 1948) e per motivi strettamente sociali. In piena concezione keynesiana, divenne un modo per creare lavoro nel dopoguerra. Da allora la sua storia e il suo sviluppo s’intrecceranno in modo indissolubile alla fisionomia dell’Urbe. «Muro di suono», «Vettore di allucinazioni collettive», «Dinosauro della città moderna», «Anello di Saturno», «Grande Serpente», «Enorme orifizio»… l’accumulo di metafore per cercare di definire il GRA diviene inarrestabile, segno prima di tutto di un tentativo di esorcizzarlo.
Ma, così come il GRA non contiene la città, nessuna gabbia interpretativa riesce a contenerlo. Per questo Renato Nicolini, in un suo breve saggio, lo affronta partendo da Duchamp: lo definisce «una macchina celibe», cioè autoreferenziale, non produttiva di senso comune. In realtà Nicolini opera anche un rovesciamento, producendo un celibato al quadrato. Se Duchamp concettualizza il manufatto artistico, lui rende artistico il manufatto funzionale e fa della più lunga autostrada urbana d’Italia un «ready made».
Dall’Altare della Patria in fuori, non si va verso un semplice nastro d’asfalto di quasi settanta chilometri, con trentatré uscite, gallerie, ponti, svincoli, complanari… bensì verso una bizzarra opera d’arte ibrida, praticabile, in perenne cambiamento, incerta e misteriosa, che mischia movimento, realtà, immaginazione e possibilità. Guardate una mappa del GRA e vedrete che è piena di punti interrogativi.
Quanti sono gli svincoli? E quelli che si prendono solo dalla corsia interna o esterna? Nessuna cartina saprà rivelarvelo. Alcune uscite sono ad usum delphini. Sconosciute ai più, finiscono in un campo, fra ruderi, in un gruppo di case disabitate: strade che non conducono a nulla. Sotto i suoi ponti stanno panni stesi e materassi, pollai e selciati di antiche strade romane; un rigattierato onnivoro del presente e la sacralità del reperto antico. Il GRA apre in due interi quartieri spontanei, malamente difesi da muri di vetro antirumore; serve da passerella a lottizzazioni legali recenti e già obsolete; lambisce decine di smorzi con le gru, che protendono il loro collo quasi sull’asfalto; penetra nelle selve etrusche fra le grotte di tufo, rifugi di uomini e di oggetti.
Gli ingorghi delle sue corsie mettono in scena quotidiane rappresentazioni dell’attesa, con l’umanità inscatolata che si definisce dalle sigle automobilistiche: quello della Panda, accanto a quello della Bmw, fra un’Alfa e una Smart. I professionisti della coda si riconoscono subito perché vanno avanti in prima con il loro notebook aperto sulle ginocchia, mentre il novellino guarda fuori, perduto nella contemplazione delle pecore sulle strade vuote delle nuove città satellite senza anima viva. Sulla corsia di emergenza intasata, solo le moto procedono a zigzag, fra i tubi di scappamento in una gimcana spesso senza speranza perché prima o poi lo stop è definitivo.
I camion sbuffano e minacciano con i loro clacson «nibelungici», ma non c’è nulla da fare. Nessuno saprà mai il perché di tanta attesa. A questo punto entrano in scena i secondi professionisti, quelli che passano con le bottigliette d’acqua e le aranciate, fra la radiocronaca di un anticipo calcistico e un rap in romanesco. Il GRA non è una strada come le altre. È la spina dorsale di un territorio in perenne fermento, un vulcano attivo che produce la sua lava, fatta d’identità perdute e riconquistate, territori strappati, luoghi in attesa, domande inevase e qualche mistero. Una grande opera, appunto, da subire e decifrare, in un luogo perennemente provvisorio. Sempre abbordabile, mai interamente posseduto.
Per gli antichi erano sacri i grandi fiumi, le montagne, tutto ciò che l’uomo non riusciva a comprendere e a governare. Da qui nasce l’idea della sacralità del Raccordo e dei territori che lo circondano. Sacro, di una sacralità prepotente e profana per la quantità di esperimenti, peripezie, invenzioni ed espedienti dettati dal bisogno e dalla libertà. Né città, né campagna, il Raccordo assomiglia di più a un fiume che a un confine, anche se i fiumi hanno spesso diviso i territori. Oltre le sue sponde, si moltiplicano i
segni di antiche e quotidiane esondazioni. I suoi abitanti, quelli che ci vivono accanto, non sono «né romani, né burini». Sono gente del GRA. Condannati al movimento, o fermi, in bilico fra l’Agro, le città impossibili dei nuovi comprensori e le borgate spontanee.
Il paesaggio che tocca quest’anello non è contenibile in nessuna formula, eppure è pieno d’energia. Colmo di responsabilità della memoria (il passato che prepotentemente emerge ovunque) e pieno di provocazioni del presente, dettate dalla spontaneità di esistenze «abusive», che non conoscono limiti all’invenzione, in un’epoca che va da Vitruvio a Robinson Crusoe, fino a Caltagirone.
Paradossalmente, il «sacco di Roma» del dopoguerra, che ha prodotto uno dei più vertiginosi disastri urbanistici d’Italia, non ha toccato questa terra. All’epoca la lontananza dal cosiddetto centro la ha in qualche modo preservata, inventando altre forme di occupazione. Se, come si dice, nell’area del Comune di Roma, all’interno delle Mura Aureliane, vivono poco più di 150 mila persone, mentre fra le mura e il Raccordo un milione e mezzo e quasi due milioni oltre i guardrail, allora «la gente del GRA» è in netta maggioranza, destinata ad aumentare.
Fra trent’anni quest’autostrada urbana diventerà un boulevard, l’Agro un parco come quello di Villa Borghese. Vecchissima e imberbe, la terra di Raccordo vive in una rifrazione di epoche, che non permette ad alcuna formula di esprimerla compiutamente. Non certo periferia contemporanea, semmai potente suburbio (la bella parola latina che la lingua italiana relega in basso) capace di restituire la vitalità dell’inespresso, grazie a un intreccio di deperimento e riciclo di materiali.
E anche in virtù di una bizzarra energia che si sprigiona da un’inversione del flusso temporale, rendendo oggetti, merci, rovine un interminabile campionario di ex voto adolescenziali e reliquiari del futuro. Una terra di avvenire e di macerie. Lo strano connubio tra ciò che deperisce e ciò che rinasce è una delle chiavi di questo continuo rimescolamento di tempi e di spazi. Quasi ovunque, non le rovine monumentali, ma la materia in rovina rende la merce una specie di allegoria perenne aperta sull’imprevedibile. In fondo, andare sul GRA vuol dire galleggiare su un eterno trapasso, non sapere mai esattamente dove si è, se non nelle spore del possibile.
Il libro viene presentato oggi, giovedì 5 dicembre, alla Triennale di Milano alle 18.30 con Gillo Dorfles e Aldo Colonetti e domenica 8 dicembre a Roma in occasione di Più libri più liberi alle 16.00 al Palazzo dei Congressi dell'EUR