Sahlins e il passato come paese straniero
Secondo Tucidide – e molti altri dopo di lui – Erodoto era un credulone e un bugiardo. Per dirla con lo storico francese François Hartog, Erodoto ha creduto quando non doveva e ha fatto finta di credere quando non avrebbe dovuto. Un padre della menzogna, insomma, il cui peccato sarebbe stato quello di riportare tanti fatti leggendari che gli venivano raccontati, dicerie che uno storico rigoroso dovrebbe scartare come false condannandole all’oblio. Tucidide, invece, non poteva ammettere, nei suoi resoconti, niente che non fosse vissuto in prima persona o quantomeno accertato: la sua doveva essere una storiografia politica e militare in cui figuravano solamente fatti verosimili, con uno stile che non lasciasse spazio a niente che potesse allontanare il lettore dalla realtà dei fatti. Sotto questa moltitudine di avvenimenti, l’ambizione dello storico sarebbe, a suo avviso, quella di individuare le leggi di natura che governano l’agire umano. Da cui anche la pretesa di una storia universale.
Non a caso nel XVII secolo, con l’affermarsi del moderno capitalismo, tra Erodoto e Tucidide è stato proprio il secondo a essere designato come padre fondatore della moderna concezione di storia, con una folta schiera di entusiasti che ne hanno sviluppato gli insegnamenti, tra cui pensatori come Thomas Hobbes – che ne fu anche il traduttore – e David Hume. Secondo quest’ultimo, “l’inizio della vera storia” sarebbe da individuarsi, in Tucidide, nel famoso dialogo tra i Melii e gli Ateniesi, dove questi ultimi affermano di agire con la consapevolezza che “per invincibile impulso naturale, ove essi uomini o dei, sono più forti, dominano”, e che qualora i ruoli si fossero invertiti, i più deboli avrebbero agito nel medesimo modo dei più forti. Insomma, Tucidide sarebbe stato un precursore dell’idea di homo homini lupus e di una natura umana universale che guidi, sotto sotto, il corso della storia. Rimuovendo le impurità del fantastico da quel materiale grezzo che è la storia, rimarrebbe una serie di vicissitudini politiche e militari che trovano la propria giustificazione in una innata predisposizione dell’essere umano al perseguimento dei propri interessi personali.
Eppure, sembra che Erodoto abbia avuto almeno un merito: quello di aver non solo descritto, ma anche creato, con le sue Storie, gli Sciti, quel popolo di nomadi che per i greci era l’altro assoluto, il rovesciamento dei loro valori, ma anche lo specchio guardandosi nel quale poter scoprire sé stessi. Questo forse non basta per donare a Erodoto il titolo di etnologo; ma tale sensibilità antropologica è sicuramente sufficiente a farci riflettere sul valore di tutti questi scarti, di queste voci che per quanto non veritiere circolano, vengono tradotte, dette e ridette, stravolte e distorte. È nel loro continuo proliferare che fatti, notizie, voci, miti creano de facto quella griglia di lettura che, attraverso il linguaggio e i segni, permette a una comunità di pensare sé stessa e il mondo. In breve, si fanno cultura.
Ma se per la storiografia di Tucidide l’elemento culturale costituisce materiale di scarto, cosa si è perso? E cosa si è guadagnato? Sembrerebbe che eliminando la cultura dal corso degli eventi questa riemerga sotto mentite spoglie: ecco sorgere vecchi miti delle origini, tradizioni di cui riannodare i fili, leggi di natura che governano il decorso storico, teleologie e principi unificatori della storia universale. In breve, non assistiamo forse a una naturalizzazione della cultura?
Sarebbe forse d’uopo, allora, prendere le distanze da Tucidide, provando a reintrodurre la negletta cultura nella storia, come suggerisce Marshall Sahlins in un volume appena tradotto in italiano, Nonostante Tucidide. La storia come cultura (Eleuthera, pp.423, €24). Secondo l’autore non v’è dubbio: la natura umana sarebbe una “animalizzazione della retorica della storia”, e l’eliminazione del meraviglioso dalla storiografia un modo per “svalutare il culturale a favore del naturale per il bene dell’universale”.
Il punto di partenza dell’antropologo americano è l’esatto opposto dello storico ellenico: quest’ultimo prescinde dalle differenze di cultura per ambire a una storia che dal particolare, sotto l’insegna di leggi di natura valide per tutti, risalga verso l’universale. Per Sahlins, invece, “se il passato è un paese straniero, allora è un’altra cultura”, ed è dunque un perfetto oggetto d’analisi antropologica. E se, come si sa, il senso emerge sempre dalle differenze, l’antropologia ha finora lavorato per comparazione tra culture diverse. Tuttavia, il punto di vista adottato dall’antropologo non è, qui, quello del nativo. Prendendo spunto dal teorico della letteratura russo Michail Bachtin, secondo cui “una cultura altrui soltanto agli occhi di un’altra cultura si svela in modo più completo e profondo”, Sahlins decide di comparare le pratiche degli antenati ellenici non solo con la cultura occidentale moderna, ma assumendo anche un altro punto di vista, a lui assai familiare: quello dei nativi delle isole Figi. La guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta (narrata da Tucidide) mostrerebbe infatti straordinarie analogie con la guerra della Polinesia del XIX secolo (studiata da Sahlins), così come i rapporti tra i rispettivi protagonisti, le loro politiche interne, le loro ecologie del potere.
Nei tre lunghi capitoli che compongono il libro, Sahlins affronta alcune questioni di fondamentale importanza storiografica sollevate dal testo di Tucidide, utilizzando la comparazione con la guerra polinesiana come volano per mostrare il valore euristico che l’antropologia può avere nell’analisi storica. Secondo Tucidide le principali differenze tra Sparta e Atene erano pur sempre differenze di carattere: la democratica Atene, potenza marittima in continua espansione, e la conservatrice e xenofoba Sparta, potenza terrestre chiusa nei propri confini. Del resto, gli stessi spartani riconducevano i propri caratteri a tradizioni radicate in tempi immemorabili, ovvero alla costituzione donatagli dal loro eroe culturale, Licurgo. Invenzione della tradizione? Come diceva lo storico Marc Bloch, non bisognerebbe confondere la filiazione con la spiegazione.
Sahlins ci mostra come le differenze di temperamento siano culturalmente motivate, e le trasformazioni culturali interdipendenti: molte delle caratteristiche di Sparta sorgono come negazione di quelle ateniesi, come se queste due città si fossero sviluppate parallelamente in quanto “antitipi strutturali”, antitesi cioè l’una dell’altra. La questione non è nuova per gli antropologi: lo studioso britannico Gregory Bateson coniò a tal proposito il concetto di schismogenesi, inteso come “processo di differenziazione delle norme del comportamento individuale, che risulta da un’interazione cumulativa tra individui”. Analizzando le trasformazioni parallele di Atene e Sparta prima, e delle polinesiane Bau e Rewa poi, Sahlins ci mostra che le differenze, ancora una volta, nascono non dall’isolamento, ma dalla relazione: “la determinazione è negazione”.
Tucidide però, continua Sahlins, non si limita a ridurre le strutture sociali e culturali a differenze di natura. C’è come una sorta di confusione nei suoi resoconti, come se talvolta non si capisca chi sia il vero attore della storia. L’origine della guerra del Peloponneso sarebbe da ricercarsi nella “potenza affermatasi degli Ateniesi e la paura derivatane ai Lacedemoni”. Bisognerebbe perciò chiedersi se la guerra sarebbe stata diversa senza un Temistocle o un Alcibiade, o se i sovrani figiani avrebbero fatto o meno la differenza nella guerra polinesiana. La questione, si sa, è di quelle che hanno da sempre attraversato il dibattito storiografico: chi agisce nella storia? Stati, eserciti, popolazioni, singoli individui? Sono le condizioni sistemiche o le scelte individuali a determinare il corso degli eventi?
Ecco che in questo libro, prendendo sul serio la cultura e le formazioni sociali che hanno attraversato la storia greca e polinesiana, le cose appaiono più chiare. Possono darsi casi in cui l’individuo è messo nelle condizioni di poter fare la storia (Napoleone ricopriva una carica istituzionale in cui risiedevano i suoi poteri) oppure possono verificarsi congiunture in cui l’individuo diventa determinante, con sua gloria personale, e divenire motore della storia (si pensi a quei campioni sportivi che rimangono scolpiti nella storia per un goal all’ultimo minuto). Ma, in ogni caso, si tratta sempre di un campo di possibilità predisposto dalla stessa cultura in un determinato momento storico. Restituendo a culture, individui, contingenze la loro dignità di fattori storici, il testo di Sahlins è sicuramente uno strumento utile per ispessire una linea del tempo che, altrimenti, sarebbe mera successione evenemenziale.
Questo volume ci giunge a mo’ di monito dei rischi di qualsiasi concezione essenzialista della storia. Secondo Aristofane la storiografia tucididea non faceva gli interessi di nessuno se non dei primi cittadini ateniesi. La natura umana descritta da Tucidide, in quanto universalizzazione di una parzialità, non era quella degli esclusi dalla società ellenica. Come dice Sahlins “in una storiografia priva di antropologia, i nostri resoconti si riducono alle indeterminatezze di una generica natura umana o al senso comune implicito della propria tribù: l’etnocentrismo di quest’ultima, sotto forma di interesse razionale, è spesso preso per l’universalità della prima”. Sarebbe bene, soprattutto nel nostro presente, essere quantomeno sospettosi di tutta quella pletora di discorsi che, rovistando nel passato in cerca di origini, tradizioni, grandi uomini, teleologie e leggi di natura, costruiscono una storia tutt’altro che neutrale e naturale. Riportare un po’ di cultura nella storia significa quindi restituire al passato quella complessità che spesso si vuole dimenticare.