Salvare se stessi

8 Settembre 2015

Tra il 9 e il 13 settembre del 1943 circa mille profughi ebrei provenienti da tutta Europa, che erano stati concentrati dalle autorità di occupazione italiana nella residence forcée di Saint-Martin-Vésubie, attraversarono il Colle delle Finestre e il Colle Ciriegia per sfuggire allo sterminio nazifascista. Profughi da tutta Europa, tra cui bambini di pochi mesi e persone anziane, scesero in Valle Gesso alla ricerca di un rifugio in Italia. La marcia “Attraverso la Memoria”, oggi alla XVII edizione, ricorda la loro epopea.

 

English Version

Version française

 

 

 

Vite in trappola

 

Una famiglia seduta a tavola consuma un pasto frugale. Si respira preoccupazione, paura, tensione. La madre esplicita per l'ennesima volta un pensiero che oramai è un'ossessione, o è la prima occasione in cui se ne parla. I figli non capiscono, intuiscono, sanno. Andiamocene da qui, scappiamo. Mamma e papà litigano, piangono e si abbracciano, si rassicurano.

 

Andrà tutto bene.

 

Dobbiamo provare a immaginare questa scena, sapendo che è avvenuta milioni di volte nelle sue infinite varianti, prima in Germania e via via nei territori che la politica espansionistica del nazismo inglobava al nascente impero. Io la immagino con il volto del profugo interpretato da Gad Elmaleh – lo “zingaro” di Train de vie – nel film del 2010 che in Italia è uscito con il titolo Vento di primavera, dal nome dell'operazione su vasta scala che la Germania nazista imbastì nell'estate del 1942 contro gli ebrei di diversi paesi europei. Tra loro, i 13.152 che settemila gendarmi collaborazionisti catturarono tra il 16 e il 17 luglio, a Parigi, in un'imponente retata – La rafle, il titolo del film in francese. La maggior parte finì al Vélodrome d'Hiver, altri al campo di transito di Drancy. Sopravvissero allo sterminio in meno di cento, tra i quali Joseph Weismann, il bambino la cui storia ha ispirato il film, che prima della catastrofe aveva una famiglia, ebrei polacchi rifugiatisi in Francia, con la quale viveva nel quartiere di Montmartre1. Non aveva paura, Joseph. Pur avendo sentito infinite volte le discussioni dei suoi genitori non capiva quello che stava per succedere2, e avrebbe vissuto il resto della sua vita nel senso di colpa: come vediamo nel film, è una sua ingenuità a far scoprire il padre.

 

Dobbiamo sforzarci di immaginare centinaia di migliaia di famiglie che, fin dalle prime ore del febbraio del 1933 – con il nazismo appena insediato al potere – e per più di dieci anni, a turno considerarono e misero in atto la scelta della fuga dalla persecuzione razziale. Spesso finendo, come i Weismann, in una trappola, dal momento che buona parte dell'Europa si rivelò presto una scatola chiusa. Ed è quello che accadde ad almeno 331 profughi che, dopo essere stati concentrati dagli occupanti italiani nella residence forcée di Saint-Martin-Vésubie, lasciarono il territorio francese nel settembre del 1943 insieme alla 4ᵃ armata allo sbando. Insieme a centinaia di altri perseguitati passarono di qui – dove siamo oggi – per cercare protezione in Italia. E, il 21 novembre dello stesso anno, trovarono la deportazione ad Auschwitz3.

 

 

Un terribile segreto?

 

L'antisemitismo nazista era già scritto nel Mein Kampf, il manifesto programmatico che Adolf Hitler scrisse a metà degli anni Venti. Due anni dopo la sua presa del potere, nel 1935, le leggi di Norimberga lo resero norma, poi, la notte tra il 9 e il 10 novembre 1938 ci fu il cambio di passo della Notte dei “vetri rotti” – la Kristallnacht –, un violentissimo pogrom solo apparentemente spontaneo che in Germania scatenò la furia antisemita, distruggendo case, negozi, uffici e sinagoghe, e lasciando sul terreno migliaia di ebrei, tra morti e feriti. Da quel momento in poi, quelli che non scelsero o non poterono permettersi l'esilio iniziarono a essere internati in quanto tali nei campi di concentramento del Terzo Reich. Allo scoppio della guerra, erano già quasi quattrocentomila gli ebrei fuggiti dalla grande Germania4, in un esodo che nei primi anni non fu ostacolato dalla dirigenza nazista, ma fortemente voluto: l'ultimo tentativo di pianificare l'emigrazione venne fatto nell'estate del 1940 con il “piano Madagascar”, un progetto inverosimile di trasferimento massiccio degli ebrei d'Europa, che oggi ci appare drammaticamente surreale, e che è stato sintetizzato così ne La banalità del male di Hannah Arendt:

La verità è che il piano del Madagascar doveva servire a mascherare i preparativi per lo sterminio fisico di tutti gli ebrei dell'Europa occidentale […] e il suo gran pregio […] era che inculcava in tutti l'idea basilare che soltanto l'evacuazione completa dell'Europa poteva risolvere il problema: in altre parole, che nessuna legge speciale, nessuna “dissimilazione”, nessun ghetto poteva bastare. Quando, un anno più tardi, il progetto del Madagascar fu dichiarato “superato”, tutti erano psicologicamente o meglio razionalmente preparati al passo successivo: dato che non esisteva un territorio in cui “evacuare” gli ebrei, l'unica “soluzione” era lo sterminio5.

 

Eichmann, che si sarebbe vantato del “piano Madagascar” come di una sua idea, sarebbe arrivato a sostenere che fu proprio il rifiuto dei paesi terzi di accogliere i perseguitati a costringere i quadri della Germania nazista a pianificare lo sterminio. La distruzione fisica degli ebrei d'Europa iniziò a concretizzarsi nel profondo oriente nell'estate del 1941, quando, con l'invasione dell'Unione Sovietica, tra i 2800 e i 3000 uomini degli Einsatzgruppen – gli squadroni della morte che affiancarono la Wehrmacht nell'operazione militare, con questo preciso incarico – «uccisero più di 550 000 persone, 50 000 dal 22 giugno alla fine di agosto, e 500 000 tra settembre e dicembre 1941 […] combinando la violenza di guerra al “lavoro sporco” [del] genocidio»6. Come Eichmann, anche alcuni membri degli Einsatzgruppen sarebbero stati processati – innanzitutto, tra il 1947 e il 1948, ventiquattro ufficiali nei cosiddetti “processi secondari di Norimberga” – e avrebbero fatto sistematicamente ricorso alla presunta obbedienza incondizionata agli ordini – la Befehlsnotstand – indotta da una situazione di emergenza che faceva risalire le responsabilità per la scala gerarchica fino a individuare un solo colpevole, e non più nel mondo dei vivi: il Führer. «Lo stato di costrizione conseguente a un ordine» – secondo la definizione adottata da Primo Levi7 – sarebbe passato alla storia come la “difesa di Norimberga”. I giudici – scrive Christian Ingrao – «misero molto presto gli avvocati degli imputati che avevano avuto responsabilità all'interno delle unità mobili di sterminio di fronte alla sfida di trovare anche un solo esempio di individuo sanzionato per essersi rifiutato di sparare. Mai un solo caso poté essere prodotto, il che squalificò tale tesi sin dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, almeno nel caso degli ufficiali e dei capi di sezione.

 

Quanto agli uomini di truppa, la tesi del Befehlsnotstand rimase, in molti interrogatori, una parola magica […]»8. In quelle terre di sangue dove avvenne buona parte dell'assassinio generalizzato, dove negli anni della guerra i nazisti uccisero deliberatamente oltre dieci milioni di persone, e non una sola «era un soldato in servizio effettivo»9, gli uomini non persero solo il diritto di vivere, ma «il diritto di non uccidere»10. Non furono pochi quelli a cui fu richiesto o che vollero farlo: si stima che la macchina dello sterminio coinvolse direttamente circa quattrocentomila persone (la metà non tedesche)11, alcune delle quali attraversarono una soglia senza ritorno, e si trovarono a premere il grilletto contro esseri umani inermi almeno una volta al giorno per diversi mesi12. Anche per questo, la distruzione degli ebrei d'Europa, già in corso da oltre sei mesi, venne certificata burocraticamente e organizzata con cura sul tavolo della conferenza di Wannsee, il 20 gennaio del 1942: il progetto di annientamento stava per essere ampliato anche a tutta l'Europa occidentale che via via veniva occupata, e la sua fase “selvaggia” era troppo dispendiosa a livello economico-organizzativo e psicologico. Inoltre circolavano troppe notizie, che arrivavano direttamente alle orecchie delle famiglie e dei concittadini di ogni nazionalità di chi, per lavoro, sterminava. Quante persone erano a conoscenza di quanto stava accadendo? Walter Laqueur, uno dei massimi studiosi del «terribile segreto», argina ogni possibile discussione: «Un segreto condiviso, anche se non nei dettagli, da decine di migliaia di individui non è più un segreto»13. Da lì in poi chi doveva sapere sapeva: gli Alleati, la Chiesa, moltissimi uomini e donne comuni all'interno dei confini sempre più vasti del Terzo Reich14. Che divenne ben presto un vero e proprio “universo concentrazionario”, con luoghi adibiti allo sterminio degli ebrei d'Europa. Quello in cui affluirono la maggior parte di coloro che provenivano dalla parte occidentale del continente è rimasto scolpito nella nostra storia e nella nostra memoria collettiva: Auschwitz.

 

È doloroso rendersi conto di quante persone si fecero coinvolgere – in diverse misure – dalla messa in atto della “soluzione finale” della “questione ebraica”, ma non possiamo evitare di farlo, perché guardare attraverso questa storia può aiutarci a capire perché, giorno per giorno, l'Europa si trasformò in una gigantesca trappola per gli uomini e donne che cercavano in tutti i modi di salvarsi, come le centinaia di persone che passarono da questi colli tra il 9 e il 13 settembre del 1943.

 

 

 

Porte che si chiudono, porte che si aprono

 

Non dimentichiamolo: quando si intravedevano solo gli oscuri presagi e ancora era concesso, lasciare il continente europeo non fu per niente facile. Anche per questo, nel cuore degli anni Trenta, come racconta con lucido antideterminismo il Museo ebraico di Berlino di Daniel Libeskind, in tanti scelsero di riparare in altre aree del continente, come la Francia. Persino l'Italia fascista era stata, per oltre diecimila ebrei dell'Europa centro-orientale, una terra di rifugio15. Precario, oggi lo sappiamo16, perché per molti di loro non sarebbe esistita una storia alternativa, un'altra porta che si apre. Precedute da una violenta campagna di propaganda e in totale autonomia decisionale, anche nella penisola, alla fine dell'estate 1938, erano arrivate le leggi razziali, sotto certi aspetti più spietate di quelle tedesche di Norimberga, e ispirate alla legislazione razzista già attuata nelle colonie e dal fascismo di confine17. L'Italia inaugurava un «regime di segregazione», così – evocando al lettore odierno l'apartheid – lo ha definito Primo Levi, il quale avrebbe scritto che «la premonizione della catastrofe imminente si condensava come una rugiada viscida per le case e nelle strade, nei discorsi cauti e nelle coscienze assopite»18. Dopo le leggi razziali migliaia di ebrei incominciarono a fuoriuscire anche dall'Italia fascista, a partire dagli “stranieri”, circa novemila dei quali furono colpiti dal decreto di espulsione del 7 settembre del 1938, che inaugurò una vicenda grottesca di rettifiche, retate, proroghe e pressioni psicologiche che nel giro di sei mesi riuscì comunque a cacciarne o a indurne alla fuga oltre la metà, sebbene molti paesi non li volessero più. L'Europa centro-orientale era sempre più pericolosa, e nonostante le continue partenze non si arrestò il flusso in ingresso. Dall'estate del 1939 fu consentito agli ebrei stranieri solo il transito per l'imbarco, per la fuga via mare19. Poco prima, nel luglio del 1938, per il problema dei rifugiati era stata indetta addirittura una conferenza, ad Evian, che si era conclusa con un nulla di fatto. Una delle storie note che seguì la conferenza di Evian fu quella di un migliaio di ebrei che cercarono di raggiungere L'Avana, e poi gli Stati Uniti, sulla nave “St. Louis” della Compagnia Amburgo-America, il cui viaggio – nel giugno 1939 – si trasformò presto, in seguito al divieto di sbarco imposto dalle autorità cubane, in un incubo seguito con grande interesse dalla stampa internazionale e da un vasto pubblico, come mai nessuna vicenda simile prima di allora20. Dopo settimane in alto mare, la nave fu costretta a riparare in Europa, e i rifugiati vennero accolti in extremis da Inghilterra, Francia, Belgio e Olanda21. Non pochi di loro avrebbero trovato la morte nei campi di sterminio dell'Europa orientale, e anche per questo la storia della “St. Louis” sarebbe diventata uno dei simboli dell'indifferenza dei paesi terzi22 di fronte allo sterminio, e non solo in luoghi adibiti alla memoria ebraica – come il Museo Yad Vashem, a Gerusalemme – ma persino nella capitale federale degli Stati Uniti, allo United States Holocaust Memorial Museum di Washington23.

 

Eppure nessuno, nel 1939 e poi negli anni successivi, poteva prevedere il futuro, quando – con l'occupazione nazista e il sorgere ovunque di regimi collaborazionisti – la persecuzione dei “diritti” sarebbe diventata una caccia all'uomo24.

 

Noi oggi lo sappiamo: nel cuore dell'Europa continentale non ci sarebbe stato un rifugio certo – se non la Svizzera, che però avrebbe respinto un profugo su due25 –, perché i confini dell'impero nazista avrebbero avuto un'espansione inimmaginabile, e con essi la politica di repressione e stermino dei “nemici del Reich”. Chi cercava di rendersi invisibile o di far perdere le proprie tracce, e chi cercava tranquillità o rifugio nella residence forcée della zona di occupazione italiana in territorio francese o in Italia, ancora non poteva sapere come sarebbe andata a finire.

 

Ed è anche per questa ragione che, specularmente alla terribile realtà degli uomini più o meno “comuni” che parteciparono alle persecuzioni e allo sterminio, e a chi cercò in tutti i modi di rimanere indifferente, i comportamenti delle migliaia di persone che si opposero e che seppero dire “no” sono da raccontare. Come la storia nota e discussa della Danimarca, dove uomini e donne di ogni età ed estrazione sociale improvvisarono una gigantesca operazione di salvataggio via mare, facendo scappare in Svezia, su pescherecci e imbarcazioni di ogni tipo, oltre seimila persone considerate “di razza ebraica”26. Come la vicenda dei villaggi francesi di Le Chambon e Dieulefit che accolsero centinaia e centinaia di perseguitati27, e come in generale i 25.685 casi di “Giusti tra le Nazioni” – i non ebrei che salvarono gli ebrei – riconosciuti dallo Yad Vashem di Gerusalemme28 e tutti quelli che ancora non sono stati censiti o che rimarranno nell'anonimato. Pensiamo ai molti abitanti delle località di Tetti Baut, Festiona, Bergemolo, Bergemoletto, Demonte, Rialpo, Moiola, Gorrè, Beguda, St. Antonio di Aradolo, Aradolo, san Michele di Cervasca, Andonno, che offrirono rifugio a chi, tra gli ebrei in fuga attraverso le Alpi, non era riuscito a proseguire il cammino verso la Svizzera o verso le zone già liberate dagli Alleati29. Per le centinaia di uomini, donne, vecchi e bambini che, venti mesi dopo aver marciato attraverso il Colle delle Finestre e il Colle Ciriegia, si salvarono, ci furono migliaia di altre persone che ebbero il coraggio di ospitarli per una notte, per settimane o per mesi, rischiando tutto, anche la vita.

 

Senza cadere mai in retoriche autoassolutorie o inutili generalizzazioni, credo che sia fondamentale ricordare, in un'occasione come questa, la “brava gente” che seppe opporsi e che, salvando “l'altro” – lo straniero – salvò se stessa.

 

 

Intervento in occasione della marcia “Attraverso la Memoria” Incontro internazionale “Ogni ricordo è il presente”, Colle delle Finestre, 6 settembre 2015

 

 

English Version

Version française

 

 

1 Weissmann ha raccontato la sua storia nel libro Après la rafle, Michel Lafon, Paris 2011. Cfr. anche Joseph Weismann, une vie après le Vél d'Hiv, in “L'Express”, 15 settembre 2011 (http://www.lexpress.fr/culture/livre/joseph-weismann-une-vie-apres-le-vel-d-hiv_1030283.html). Per una sintesi cfr. Michel Laffitte, La rafle du Vélodrome d’hiver, 16-17 juillet 1942, Encyclopédie en ligne des violences de masse, pubblicato il 9 novembre 2009 (http://www.massviolence.org/La-rafle-du-Velodrome-d-hiver-16-17-juillet-1942, ISSN 1961-9898) e la bibliografia relativa.

2 «Les gendarmes français sont arrivés sur le coup de midi, se souvient Joseph Weismann, aujourd’hui âgé de 79 ans, à propos de ce 16 juillet 1942. Je n’avais pas vraiment peur. En fait, je ne me rendais pas vraiment compte… Par contre, je n’oublierai jamais le très fort sentiment d’angoisse qui se dégageait de mes parents et des adultes entassés dans le bus qui nous a emmenés au Vel’ d’hiv’». Cfr. Témoigner: la «mission sacrée» de Joseph Weismann, 21 luglio 2010 (http://www.hamodia.fr/article.php?id=1279).

3 Cfr. i risultati della ricerca – di prossima pubblicazione – Oltre il nome, condotta da Adriana Muncinelli e Elena Fallo per conto dell'Istituto storico della Resistenza di Cuneo, che ha ridato identità e volto agli ebrei catturati e deportati.

4 Cfr. la voce “Rifugiati” in Walter Laqueur (a cura di), Dizionario dell’Olocausto, Einaudi, Torino 2004, edizione italiana a cura di Alberto Cavaglion (ed. or. The Holocaust Encyclopedia, Yale University Press, New Haven 2001).

5 Cfr. Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2001 (ed. or. Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, Viking Press, New York 1963), pp. 84-5 (cfr. anche p. 55). A proposito del discusso lavoro della Arendt, concordo naturalmente con le considerazioni di Browning, quando sostiene: «anche se Eichamnn era tutt'altro che un “banale burocrate”, il concetto è comunque valido per comprendere i comportamenti di molti esecutori dell'Olocausto» (Cristopher R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia, Einaudi, Torino 1995, p. 168 n. [ed. or. Ordinary Men. Reserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland, Harper Collins, New York 1992]).

6 Christian Ingrao, Credere, distruggere. Gli intellettuali nelle SS, Einaudi, Torino 2012 (ed. or. Croire et détruire. Les intellectuels dans la machine de guerre SS, Arthème Fayard, Paris 2010), pp. 225-6.

7 Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2007 (I ed. 1986), p. 44.

8 Christian Ingrao, Credere, distruggere, cit., p. 336 (le stesse considerazioni a proposito della mancata punizione delle SS che si rifiutarono di sparare, riferite a Norimberga, si trovano in Hannah Arendt, La banalità del male, cit., p. 99).

9 Cfr. Timothy Snyder, Terre di sangue. L'Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Rizzoli, Milano 2011 (ed. or. Bloodlands. Europe between Hitler and Stalin, Basic Books, New York 2010), pp 10-18 e 461-7, dove l'autore precisa il metodo con cui ha calcolato le cifre dello “sterminio intenzionale” dei civili (un terzo dei circa quattordici milioni di morti lo si deve ai sovietici, specifica, e oltre la metà del numero totale morì di fame). Alle pp. 227 e sgg. è affrontata l'azione degli Einsatzgruppen.

10 Jonathan Littell, Le benevole, Einaudi, Torino 2008 (ed. or. Les bienveillantes, Gallimard, Paris 2006), p. 19.

11 Si tratta della nota stima di Dieter Pohl, che scrive: «There is an estimate that between 150.000 and 200.000 Germans from the Reich participated in the Holocaust, especially in the murder of European Jews. It is my guess that the number of local forces hadprobably the same dimension, though on a much lower level of responsibility» (http://www.academia.edu/5273106/Collaboration_in_the_Holocaust_in_Hitlers_Europe_2012). Questa stima mi è stata segnalata dal prof. Ingo Loose in seguito al suo intervento dal titolo Il concetto e la rappresentazione dei carnefici da Norimberga agli anni Novanta, nel corso del seminario Ripensare e insegnare il nazismo (Berlino, 3-8 dicembre 2013), organizzato dal Mémorial de la Shoah di Parigi.

12 L'esempio in Christian Ingrao, Credere, distruggere, cit., p. 226, riferito a «a ciascuno dei 300 uomini che operavano in Russia» (una persona al giorno per sei mesi).

13 Cfr. la voce “Soluzione finale, chi sapeva e cosa se ne sapeva”, in Walter Laqueur (a cura di), Dizionario dell’Olocausto, cit.

14 «I governi alleati, com'è noto, ne ebbero inequivocabile notizia da svariate fonti nella seconda metà del 1942», scrive Giovanni Miccoli ne I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda guerra mondiale e Shoah, Rizzoli, Milano 2007 (I ed. 2000), p. 6, al quale si rimanda anche per quanto riguarda la consapevolezza della Chiesa (pp. 4-15), a proposito della quale si veda anche Susan Zuccotti, Il Vaticano e l'Olocausto in Italia, Bruno Mondadori, Milano 2001 (ed. or. Under His Very Windows. The Vatican and the Holocaust in Italy, Yale University Press, New Haven and London 2001), pp. 108 e sgg. A titolo di esempio per quanto riguarda i “tedeschi comuni” cfr. Eric A. Johnson, Karl-Heinz Reuband, La Germania sapeva. Terrore, genocidio, vita quotidiana. Una storia orale, Mondadori, Milano 2009, alle pp. 78, 15, 321, 326, 328-9, 334-5, 418-9 (ed. or. What We Knew. Terror, Mass Murder, and Everyday Life in Nazi Germany, An Oral History, John Murry, London 2005).

15 10.380 facendo riferimento all'articolo di Eugenio Sonnino, La conta degli ebrei, dalle anagrafi comunitarie al problematico censimento del 1938, reperibile online: http://www.demographics.it/public/file_23_1_2011.pdf.

16 Cfr. Klaus Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, La Nuova Italia, Firenze 1993 (ed. or. Zuflucht auf Widerruf, Exil in Italien 1933-1945. Erster Band, Klett-Cotta, Stuttgart 1989).

17 Si veda Nicola Labanca, Il razzismo istituzionale coloniale: genesi e relazioni con l'antisemitismo fascista, in Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Marie-Anna Matard-Bonucci, Enzo Traverso (a cura di), Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni (2 voll.), Utet, Torino 2010, p. 209.

18 Primo Levi, Il sistema periodico, Einaudi, Torino 1975, p. 39.

19 Cfr. Klaus Voigt, Il rifugio precario, cit. pp. 291 e sgg. e Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell'Italia fascista in Europa, 1940-1943, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 438 e sgg. Alcune di queste considerazioni sono presenti anche nel mio La nostra Shoah. Italiani, sterminio, memoria (Feltrinelli Zoom, Milano 2015).

20 Oltre al resoconto romanzato di Gilbert Sinoué, Una nave per l'inferno, Neri Pozza, Vicenza 2005 (ed. or. Un bateau pour l'enfer, Calmann-Lévy, Paris 2005) si veda Diane Afoumado, Exil impossible. L'errance des Juis du Paquebot 'St-Louis', Ed. L'Harmattan, Paris 2005.

21 Cfr. in particolare Ibid., pp. 175-86.

22 Cfr. Raul Hilberg, Carnefici, vittime, spettatori. La persecuzione degli ebrei 1933-1945, Mondadori, Milano 1994 (ed. or. Perpetrators, Victims, Bystanders, Aaron Asher Books, New York 1992), pp. 189 e sgg.

23 Ho visitato personalmente entrambi i memoriali, nel 2010 e nel 2011.

24 Cfr., in particolare, Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2007 (I ed. 2000), pp. 113-308 e Id., “Prefazione” in Mario Avagliano e Marco Palmieri, Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia. Diari e lettere 1938- 1945, Einaudi, Torino 2011, pp. V-IX.

25 «Terra d'esilio, di speranza ma anche di disperazione, la Svizzera accolse durante la guerra circa 300.000 profughi, pari al 7 per cento della popolazione nazionale. Di questi, 28 000 erano ebrei, ma almeno altrettanti furono respinti alle frontiere» (Claudio Vercelli, voce “Svizzera, rete confinaria della”, in Walter Laqueur, a cura di, Dizionario dell’Olocausto, cit.). Cfr. anche Silvana Calvo, A un passo dalla salvezza. La politica svizzera di respingimento degli ebrei durante le persecuzione 1933-1945, Zamorani, Torino 2010.

26 Cfr. Bo Lidegaard, Il popolo che disse no. La storia mai raccontata di come una nazione sfidò Hitler e salvò i suoi compatrioti ebrei, Milano, Garzanti 2014.

27 Cfr. in particolare François Rochat, Andre Modigliani, The Ordinary Quality of Resistance: From Milgram's Laboratory to the Village of Le Chambon, Journal of Social Issues, 51/3 (1995) e il documentario di Alexandre Fronty e Guillaume Loiret dal titolo Dieulefit, le village des Justes (Francia 2010).

28 http://www.yadvashem.org/yv/en/righteous/statistics.asp (aggiornato al 1° gennaio 2015).

29 Per una sintesi della vicenda, oltre al documentario di André Waksman, 1943. Le temps d'un répit / Il tempo di una tregua (Francia-Italia 2009) e al CD-ROM a cura di Adriana Muncinelli Ebrei in fuga attraverso le Alpi (Regione Piemonte, 2007), cfr. la seguente bibliografia essenziale (si ringrazia Elena Fallo): Harry Burger, Biancastella. Un partigiano ebreo durante la seconda guerra mondiale in Il presente e la storia, Istituto storico della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Cuneo, L’Artistica, Savigliano 2005; Alberto Cavaglion, Nella notte straniera. Gli ebrei di St. Martin Vésubie. 8 settembre- 21 novembre 1943, Aragno, Torino 2012 (I ed. 1981); Rosetta Scotti Douglas, Quarantacinque giorni nel campo di concentramento di Borgo San Dalmazzo in Quaderno n. 1 del CDEC, Milano 1961; Luca Fenoglio, Angelo Donati e la questione ebraica nella Francia occupata dall’esercito italiano, Zamorani, Torino 2013; Guido Fubini, L’ultimo treno per Cuneo. Pagine autobiografiche 1943- 1945, Meynier, Torino 1991; Jean-Marie Le Clézio, Stella Errante, Il Saggiatore, Milano 2000; Michael Robert Marrus, Robert O. Paxton, Vichy France and the Jews, Standford University Press, California 1981; Giuseppe Mayda, Ebrei sotto Salò. La persecuzione antisemita. 1943-1945, Feltrinelli, Milano 1978; Adriana Muncinelli, Even. Pietruzza della Memoria. Ebrei 1938- 1945, EGA, Torino 2006; Adriana Muncinelli, La deportazione ebraica in provincia di Cuneo, in Il libro dei deportati, Ricerca del Dipartimento di Storia dell’Università di Torino, diretta da Brunello Mantelli e Nicola Tranfaglia, vol. II, Mursia, Milano 2010; Jean-Louis Panicacci, L’occupation italienne. Sud- Est de la France, juin 1940- septembre 1943, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2010; Liliana Picciotto Fargion, Il Libro della Memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Mursia, Milano 2002 (I ed. 1991); Léon Poliakov, Jacques Sabille, Gli ebrei sotto l’occupazione italiana, Edizioni di Comunità, Milano 1956; Nuto Revelli, Il prete giusto, Einaudi, Torino 1998; Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo, cit.; Chaya H. Roth, La Shoah. Memoria e dialoghi famigliari, Fusta, Saluzzo 2014; Stella Silberstein (Simha Naor), Hotel Excelsior. Un diario sulle tracce del passato. 1945/46 in Il presente e la storia, Istituto storico della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Cuneo, l’Artistica, Savigliano 2012; Paolo Veziano, Ombre di confine. L’emigrazione clandestina degli ebrei stranieri dalla Riviera dei Fiori alla Costa Azzurra, Fusta, Saluzzo 2014 (I ed. 2001); Klaus Voigt, Il rifugio precario, cit.; Susan Zuccotti, Holocaust Odysseys. The Jews of Saint- Martin- Vesubie and their flight through France and Italy, Yale University Press, New Haven & London 2007.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO

Bollo blu Dona (Mobile)