Sandro Bajini e il cabaret politico
Vittorio Franceschi è attore, regista e uno dei nostri maggiori drammaturghi, capace come pochi di leggere con acutezza mai pedante i nostri tempi e la condizione umana. Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo ricordo del suo compagno di scritture drammatiche degli inizi, quando Franceschi con Bajini, in parallelo con altri, rifondò il cabaret, facendone un teatro non solo superficialmente satirico ma pienamente, in modo intelligente, politico. (Ma. Ma.)
Nella notte tra il 19 e il 20 luglio scorso è mancato a Milano il drammaturgo, poeta e traduttore Sandro Bajini. Questa notizia mi ha rattristato molto. Nel 1960 avevamo scritto insieme un testo di cabaret (Come siam bravi quaggiù) che nel novembre di quell'anno debuttò in prima assoluta alla Casa della Cultura di Milano (allora diretta da Rossana Rossanda) per essere poi ospitato, grazie al successo ottenuto, al Teatro Gerolamo. Il Gerolamo, diretto da Carlo Colombo, era il "tempio" del teatro giovane milanese, lì hanno mosso i primi passi Paolo Poli e Ornella Vanoni, Giancarlo Cobelli e Laura Betti, Carmelo Bene, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci e tantissimi altri. Io avevo 24 anni, Sandro qualcuno di più.
Lì ebbe inizio la mia avventura di attore-autore che continuò, l'anno successivo, con un altro testo, anch'esso scritto a quattro mani con Sandro Bajini. S'intitolava Resta così, o sistema solare e al centro della scena (creata da Gustavo Bonora) campeggiava un albero della cuccagna che aveva in cima, al posto del tradizionale prosciutto, un gigantesco dollaro. Il testo fu talmente massacrato dalla censura (che allora c'era, bisognerebbe ricordarselo) da costringere il nostro piccolo Gruppo teatrale (ci chiamavamo "I BRAVI") a chiudere i battenti.
Eravamo dei giovani sconosciuti, il potere non poteva aver paura di noi: ma c'era la guerra fredda, era iniziato il boom economico con le implicazioni che sappiamo, sociali e politiche, e non bisognava disturbare il manovratore. Erano gli anni in cui venivano oscurate alcune scene di Rocco e i suoi fratelli di Visconti e in cui veniva censurata L'Arialda di Testori per "turpitudine e trivialità". Ed era appena caduto, dopo i moti di Genova del luglio 1960, il governo neofascista di Fernando Tambroni. Anni difficili.
Voglio ricordare i nomi degli altri – attrici, attori e collaboratori vari – che parteciparono, nell'arco di due anni, alla nostra avventura iniziata sotto i migliori auspici (alla prima, ad applaudire con calore c'era, fra gli altri, un giovanissimo Franco Quadri) e terminata poi in modo così brusco, anzi traumatico: Massimo De Vita (che curava le regie), Ernesto Esposito (che compose le musiche del secondo spettacolo), Cornelia Frigerio, Sonia Gessner, Guglielmina Marcucci, Marta Wengi, Alfreda Zanenga, Clara Zovianoff. Al pianoforte, ad accompagnare le filastrocche che cantavo, c'era Leo Nardi (ma il vero nome era Leonardo Leonardi, allora studente e in seguito valente concertista – anche in duo con Salvatore Accardo – e docente al Conservatorio di Milano).
Travolto insieme a noi in quel nero finale censorio, fu ovviamente anche Sandro Bajini che non appariva in scena ma era sempre presente: fu lui a dover segnare in rosso tutti i tagli apportati al copione e comunicati telefonicamente, il giorno prima del debutto, dalla Questura di Roma a quella di Milano, con Bajini "in presenza": un autentico massacro. Con minaccia di sospendere lo spettacolo se non li avessimo rispettati. Ad avvertire il pubblico che quello spettacolo "non si sarebbe fatto", almeno nel modo in cui noi l'avevamo concepito, fu il critico Roberto Rebora, che solidarizzò con noi. In realtà, quella sera il pubblico assistette a un "unicum" irripetibile. A ogni taglio (ma erano decine e decine, dalla singola parola alla pagina intera) Bajini, che ci seguiva in quinta col copione censurato in mano, eseguiva un sonoro colpo di tosse e noi in scena ci immobilizzavamo come statue.
Due secondi di immobilità, poi Sandro ci suggeriva la battuta dalla quale la censura aveva stabilito che si poteva riprendere e noi ricominciavamo, fino al successivo colpo di tosse e così via fino alla fine, col pubblico che si sbellicava dalle risa e noi che piangevamo dentro perché ci rendevamo conto che quella specie di surreale Hellzapoppin era il nostro testamento. Cercammo poi di salvare il salvabile, mettendo insieme alcuni pezzi superstiti del testo con altri ripescati da Come siam bravi quaggiù, al fine di rispettare gli impegni con i teatri che l'avevano già messo in cartellone (il Gobetti di Torino e La Ribalta di Bologna) ma la mancanza di mezzi ci costrinse di lì a poco a chiudere bottega.
"I BRAVI" si sciolsero e ognuno andò per la sua strada. Sandro continuò la sua attività con diversi successi ma in modo sempre più appartato, dedicandosi anche alla poesia e – con grande impegno e qualità rara – al suo lavoro di traduttore dal francese. Memorabile la sua versione del Teatro di Feydeau per Adelphi. Tradusse per me Tartufo nel 1978, e poi di seguito il Teatro di Molière per Garzanti, i capolavori del vaudeville per Mondadori e poi Marivaux, Ionesco e altri; lavori sempre fiancheggiati, come detto, dal suo lavoro di poeta (Epigrammi fuggitivi, Irina avrà le sedie, Chiacchieratine con Ernestino e altro) e di saggista.
A poco a poco ci siamo persi di vista, come accade nel mondo del teatro che spesso disperde in mille rivoli le sue risorse. E anche perché dopo vent'anni, di cui dodici passati a Milano, io ero tornato a vivere nella città da dove ero partito, Bologna. Ma il rivederci per una rimpatriata quando passavo di lì, grazie anche agli inviti a pranzo della gentilissima moglie Maria Carla, nell'appartamento di Corso XXII marzo, è stata per anni una bellissima consuetudine, ridotta negli ultimi tempi a qualche rara ma sempre affettuosa telefonata.
Ciao Sandro, i ricordi belli della nostra generosa e dimenticata battaglia mi accompagneranno per sempre. Il nostro "cabaret politico" e i suoi subbugli precedettero di parecchi anni quello che poi successe con ben più clamore nel 1968 in tutta la società italiana; e che per quanto mi riguarda ebbe il suo sbocco naturale nel "teatro politico" di Nuova Scena, che per molti anni fu poi la mia nuova, scomodissima casa.
Mi permetto di riportare anche (penso che a Sandro farebbe piacere) il testo di quello che in un certo senso fu il nostro "manifesto", cioè le ragioni della nostra scelta, frutto di tante riunioni e discussioni; e che Sandro mise "in bella copia" con la sua delicatissima ironia, poi pubblicato nel programma di sala del Teatro Gerolamo. Lascio agli amici che avranno la pazienza di leggerlo il piacere di commentare i suoi contenuti, tenendo conto che sono passati 62 anni... ma forse non sembra.
Le nostre ragioni
Quando si parla di "cabaret" si pensa subito alle sciantose napoletane, alle pagliette dei fini dicitori, a quello spettacolo ingenuo con musichette e doppi sensi che ha fatto il suo tempo. Ma il "Café Chantant" è finito e le sciantose hanno cambiato mestiere e preferiscono spogliarsi apertamente nei "nights"; quanto alle canzoni insensate e alle facezie da raccontare agli amici, la radio e il teatro di rivista provvedono al fabbisogno nazionale.
Che significa riprendere il "cabaret"? Significa semplicemente riscoprire una parola e darle un nuovo significato; significa rifiutare sesso, freddure e canzoncine sostituendole con qualcos'altro di cui si sente la necessità. Questa necessità riguarda la satira, la critica del costume, l'impegno politico nel senso più autentico, cioè come atteggiamento morale.
Un indirizzo di questo genere potrebbe e dovrebbe essere alla base del teatro di prosa; ma il teatro ufficiale non ama questo indirizzo. Ed è un peccato davvero, poiché il costume, il malcostume, i pregiudizi, i luoghi comuni della nostra società sono maturi per la satira. Ogni società del resto, in ogni tempo ed in ogni luogo, presenta aspetti ridicoli e qualche magagna. Uno dei compiti del teatro è quello di metterli in luce.
Noi siamo convinti che non esiste teatro vero se questo non è in qualche modo sociale e politico, se non si rivolge alla società che lo circonda in modo chiaro e senza ipocrisie.
Consapevoli che una eccessiva carità verso noi stessi è moralmente deprecabile e socialmente dannosa, serenamente certi della funzione moralizzatrice del teatro quando dice una qualsiasi verità, abbiamo voluto realizzare uno spettacolo che sia soprattutto una proposta e un dialogo con lo spettatore.
Abbiamo scelto la formula composita del "cabaret" perché ci sembra la più idonea per la satira, perché sentiamo il bisogno di condensare contenuti e motivi più disparati e di dar loro una particolare immediatezza.
Certo nella nostra società teatrale un impegno come questo ha molti motivi per fallire se non viene attuato in piena indipendenza; per tale ragione abbiamo voluto – e ne siamo contenti – fare da soli, svincolati dalle istituzioni ufficiali del teatro italiano. Siamo naturalmente fin troppo liberi, almeno economicamente, ed è l'unica libertà di cui faremmo volentieri a meno.
Il nostro lavoro non si realizza quindi con grandi mezzi, che del resto non riteniamo indispensabili, la nostra scena è semplice e disadorna; ma noi ci rivolgiamo soprattutto allo spettatore che sia disposto ad ascoltarci, anche se per avventura non fosse d'accordo con noi. "È condizione essenziale della democrazia – dice Bertrand Russel – che i gruppi di maggioranza estendano la tolleranza ai gruppi dissenzienti, anche col rischio che i propri sentimenti vengano offesi."
Con questo animo e in perfetta buona fede abbiamo lavorato, e lo stesso atteggiamento contiamo di trovare negli spettatori.
GLI AUTORI