Speciale

Sant'Arpino / Paesi e città

10 Febbraio 2011

Dalla mia finestra vedo la casa del vicino. Quando non la guardo, la percepisco lo stesso, e a volte penso che è stata costruita abbattendo un grande ciliegio, un ciliegio immenso che faceva volare petali fin dentro la mia stanza, ma è una cosa che penso sempre più raramente, il tempo cancella tutto, tranne la nuvola bianca dei fiori di ciliegio, ma è solo questione di tempo. Certi giorni, forse perché guardare la casa del vicino non soddisfa particolarmente il mio bisogno di mondo, a volte esco. Non è facile uscire e andare in giro a piedi nelle strade del paese in cui abito. Ho spesso l’impressione che anche per spostarsi di pochi metri chiunque adoperi l’automobile, e sono costretto ad acuire i sensi difensivi per sopravvivere a queste automobili-pròtesi, motorini-pròtesi, camioncini-pròtesi, e anche alle incongrue biciclette, sulle quali smarriti residui di altri tempi, vecchi, vecchie, cingalesi, albanesi, ucraine, africani, tracotanti e ingenui o poveri, rischiano la vita non rendendosi conto che qui non è tempo di biciclette. Dove vado? Prima, fino a quelli che mi sembrano pochi o infiniti anni fa, nelle belle giornate andavo a spasso per un sentiero di terra battuta che attraversava i campi sotto i quali era stata scoperta e poi ricoperta di terra e di piantine di fragole una antica città, una città con un grande teatro, una città con ville dai pavimenti a mosaico e con elaborate terme, una città fiorente distrutta dai Romani e che aveva dato il nome alla fabula atellana, ma da tempo l’immondizia e i residui delle ditte che costruiscono case hanno ostruito il sentiero, e ora esco quasi solo per commissioni: il pane, le medicine, la frutta. Il concetto stesso di andare a spasso, di girovagare, è reso impossibile dal sovraffollamento che invade le vie di un paese che comunica strettamente con altri paesi, in una sorta di luogo senza testa e senza centro. Il paese non più tale si trova 15 chilometri a nord di Napoli e 15 chilometri a sud di Caserta, e cresce, cresce, cresce di mese in mese, di giorno in giorno, di ora in ora. Questo luogo non può essere nominato, perché un nome non ce l’ha più, è un luogo dove crescono le case, le auto, i figli, gli ipermercati, le case, le cose, le voci, i clacson. A volte, mentre in un bar stracolmo di macchinette mangiasoldi e con la televisione sempre accesa a volume altissimo bevo il caffé e discuto della caccia nella palude di Vittore Carpaccio o di John Zorn con alcuni amici, uno di noi guarda fuori o sprofonda in se stesso e dice, improvvisamente: Ma quella casa a tre piani vicino alla rotonda, quando l’hanno fatta? Nessuno lo sa, perché non riusciamo a registrare con i sensi ormai slabbrati tutte le costruzioni che sbucano rapidissime, e spesso restano vuote, come le nicchie nelle ali di fresca costruzione dei cimiteri. In certi giorni d’inverno qui c’è il sole, e un cielo azzurro che sembra essere stato visto dai pittori dei secoli passati, un cielo impossibilmente azzurro, o meglio che definiamo azzurro o blu in attesa di una descrizione più precisa, perché in realtà non esiste una parola esatta per definirlo. Quel blu trasparente, fermo, netto, che però sembra muoversi e vibrare morbido, non trasforma le cose: le illumina soltanto. E non è un bene: perché in quella luce chiara, non accecante, vedi tutto, e quello che vedi non è sempre sopportabile, nonostante la buona volontà e la pietà autodifensiva delle terminazioni nervose dell’essere umano, che tendono a smussare la bruttezza percepita dagli occhi e a trasmettere al cervello impulsi di ordine e di senso anche dove qualcosa che non ha nome aggredisce ogni senso. A volte andiamo in due o in tre a guardare i pioppi, ai quali si appoggiano le viti a spalliera, alte fino a sei metri da terra: le guardiamo ormai senza turbamento, sopravvissute in mezzo alle case solo perché il proprietario di quel terreno non ha ancora venduto il terreno a chi le abbatterà per farci case, magazzini, negozi, partite iva, fabbrichette al nero, garage, pizzerie, inquilini, soldi. Non siamo turbati dalla loro sparizione prossima proprio perché sono le ultime, e ne abbiamo viste già troppe svanire: gli esseri umani per sopravvivere devono abituarsi. E lo stesso accade per i noci, i grandi noci che a volte incontriamo e guardiamo come se fossero fantasmi, cose fisse solo in apparenza, presenze che consideriamo già assenti, divelte tra poco da scavatrici che scavano buche per cemento e pilastri. In verità io e i miei amici non riusciamo ad abituarci, e una mia amica a tratti è afferrata da pianto e rabbia per i noci svaniti, ma ora almeno, a questo punto, esercitati a guardare la sparizione, quando torniamo dall’aver contemplato le ultime scarne viti arrampicate sui pioppi o qualche noce impolverato, ora almeno riusciamo a mangiare senza troppa tristezza, a nutrirci e a dimenticare, almeno nello strato cosciente e razionale della mente. Il disastro ci sembra accaduto già, e questo è quasi consolante, non fosse che il disastro continua a crescere: anch’esso sembra seguire la legge del contemporaneo, la legge dell’Innomable che dice che qualcosa sta finendo, è finito, non finisce, finisce, sta finendo, non finisce eccetera. Qui quasi ogni giorno, al mattino, di pomeriggio, verso sera, qualcuno lancia botti, fa esplodere fuochi d’artificio. Festeggiano compleanni, battesimi, santi patroni, uscite dal carcere, santi, fidanzamenti, madonne, promesse di matrimonio, onomastici, anniversari, matrimoni, vittorie di una squadra, o per nessun motivo che non sia il terrore del silenzio. A volte devo confessare che i cumuli di rifiuti e rottami che svettano leggeri o si espandono paludosi mi appaiono quasi belli, malvagiamente belli, superbamente belli, e penso che l’etica e l’estetica non sono per forza in comunicazione, e che l’ebbrezza dello sguardo artistico è sempre in combutta con la distruzione: ma non so con certezza se queste considerazioni sono il frutto della mia cultura, di una personale ossessione o sono figlie del luogo in cui vivo. Quando esco la domenica mattina per prendere un caffè, in auto anch’io, percorro una strada che è intasata di automobili, e sto in fila. Guida un mio amico, e parliamo, per dire, del fatto che a cominciare dalla Pop Art comincia la decadenza irreversibile dell’arte contemporanea, o parliamo del fatto che la strada di asfalto rotto su cui siamo incolonnati passa sui resti di ville con pavimenti a mosaico e terme elaborate. Ma più spesso parliamo di quel che vediamo. Non vorremmo parlarne, e spesso tronchiamo con gesti il discorso, ma dopo aver pensato di andarcene via, e ricordato il tempo in cui il paese era ancora un paese con la lentezza del gelataio che nei pomeriggi deserti e assolati fischiava chiamando a raccolta i bambini intorno a un sorbetto al limone, non riusciamo a non parlare di quel che vediamo. Non vediamo molto, perché incolonnati nel traffico vediamo solo il parabrezza, lo schermo attraverso il quale entra quello che sembra il mondo. Vedo soprattutto cose, qui: negozi per cani, banche con gente che preleva dal bancomat, negozi di alimentari, case fatiscenti, bancarelle di scarpe, case abusive, gente che arrostisce carciofi per strada, auto sfasciate, suv lucenti, strade spaccate da buche enormi, negozi di elettronica stracolmi di offerte e saldi, paraboliche su tuguri, apparecchi per l’aria condizionata ovunque, zanzare enormi a febbraio, e uno strano sentore di acqua decomposta che all’alba arriva con la rugiada e entra dalle finestre che in genere all’alba, almeno nell’immaginazione, si aprono per far entrare il profumo del mattino. Anche gli esseri viventi comincio a vederli come cose. Resisto, resisto molto a questa sensazione, perché mi provoca un senso di vuoto, di vertigine. Ma gesti, urla, toni, voci, auto, corpi, sguardi, bambini, discussioni, donne, case, cibi, ogni cosa che emana dagli abitanti di questo luogo mi riporta alle cose, alle deiezioni che ingombrano le strade, alle viti abbattute dalle ruspe, alle gru che pendono come patiboli su qualsiasi strada o stradina. Poi, di notte, sento lo stridere dei gabbiani. O così mi sembra. So che non sto sognando. Sono gli animali smarriti che vivono da qualche anno a pochi chilometri da qui, in zone fatte di pozzanghere e rifiuti, che nidificano sotto i cavalcavia di strade che dovrebbero portare via di qui ma portano in luoghi che sono la ripetizione sbiadita di questo luogo o lo diventeranno tra poco. Insomma, questo è quello che vedo nel paese dove abito, detto nel modo più semplice o forse più sbrigativo che conosco. Avrei voluto dirlo come in un tema di Robert Walser, ma non sempre si fa quel che si vuole.

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