Settantacinque chilometri di mare

4 Ottobre 2013

Quando non si ha niente, avere il mare – il Mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame."

J.C. Izzo

 

 

El-Houaria è l’ultimo paesino del Cap Bon, la punta più settentrionale dell’Africa. Dalle grotte di ardesia, si vede Pantelleria. Settantacinque chilometri di mare hanno ricoperto nei secoli l’istmo che collegava Sicilia e Tunisia. Se si passeggia per Tunisi, quei chilometri di mare sembrano assenti: stesse bouganville, fichi d’india e dolci alle mandorle. Volti scottati dal sole, uliveti, mare cristallino.
Quel mare, quel posto di violenta bellezza, racchiude nello spazio dell’orizzonte la storia degli ultimi venticinque anni.

 

Solo oggi sono morte 90 persone e 250 risultano disperse al largo dell’isola dei conigli. Ieri altri 13 corpi sono stati recuperati a Scicli, qualche chilometro più lontano. Dal 1988 si stimano che siano morti nel Mediterraneo almeno 19.142 persone, di cui 2.352 soltanto nel corso del 2011 (da Fortress Europe). La stima è chiaramente al ribasso. Per dare una proporzione, sono l’equivalente numerico degli abitanti di Trezzano sul Naviglio, di Vimodrone, inghiottiti dal mare e risputati sulle rive, sulle coste italiane, greche, spagnole. Sempre in termini di cifre, i morti accertati sono il triplo delle persone uccise nell’eccidio di Srebrenica, stavolta però non ci sono tribunali internazionali e indignazione collettiva, ma silenzio consapevole di istituzioni e cittadini (salvo poche costanti e tenaci voci di denuncia) che contribuiscono ad alimentare questo genocidio colposo.

 

Da dove si parte? Dai paesi della costa, soprattutto Tunisia, Libia, Turchia, Marocco, ma i viaggi iniziano molto più lontano. Guerre recenti e guerre antiche, privazioni permanenti e pericoli attuali. Oggi eritrei, somali. Ma è solo un caso, un colpo di vento, un mare ingrossato. Potevano essere afghani, siriani, iracheni, provenienti dal Darfur, dal Mali, dal Niger, dalla Costa d’Avorio, dalla Repubblica Democratica del Congo. Un elenco che ci racconta e mappa dove non c’è pace, o, più banalmente, dove manca il pane, l’acqua. Dove la vita vale meno del rischio di perderla in viaggio. O dove semplicemente si decide di partire, per cambiare vita, per ottenere maggior libertà, dignità, diritti.

 

Migrante è colui o colei che ha bisogno di attuare uno spostamento nel corso della propria traiettoria di vita. Oggi sulle banchine di Lampedusa, stesi sulla spiaggia, ci sono donne, uomini, ragazzi, soprattutto under 30, bambini, giovani che non sono arrivati in porto. Migranti sono le migliaia di famiglie rimaste nei paesi di origine che hanno perso le tracce dei propri cari, figli, fratelli, e li stanno cercando, incessantemente, da anni. (Storie migranti raccoglie da anni le vicende, le narrazioni e le denunce di moltissime famiglie).

 

Potremmo discutere per ore su cosa rappresenta quell’azzurro diviso in due, cielo e mare, sul partire, sull’andare, sui rischi, sull’arrivare. Le cose sono molto più semplici. Ci sono persone per le quali il movimento, il poter circolare e scegliere dove e come muoversi nel mondo è possibile, ma soprattutto è possibile stabilire dove si vuole vivere, lavorare, amare, insediare i propri affetti, invecchiare. Altre per cui questo è proibito. È una questione di valore. Non valore simbolico, non il coraggio, ma l’essere monetizzabili, il possedere un capitale sufficiente per poter scegliere dove andare, dove vivere e soprattutto la facoltà di poter consumare. Condizione necessaria minima per non essere, almeno formalmente, stigmatizzato.

 

Quasi cinquecento anni di sfruttamento coloniale hanno determinato il prezzo delle vite e messo sui piatti della bilancia gli agi, la tanto decantata “sicurezza”, la protezione simbolica di sovranità sempre più piccole e di frontiere e confini sempre più estesi. Lentamente, gli ultimi cinquecento anni hanno inclinato l’orizzonte del mare. Non più piatto, non sono più solo quei miseri settantacinque chilometri, ma un dislivello crescente, un mare in salita.

 

Una violenza epistemica, come l’ha definita Edward Said, cementata in anni di controlli alle frontiere, di polizie internazionali, di gestione sommaria dei confini marittimi, di omertà e silenzi, incisa sui corpi e nelle biografie. Una violenza politica, che continua a riprodursi attraverso politiche neoliberiste e controllo dei mercati formali e informali del lavoro. Una violenza strutturale, che ha cristallizzato uno status quo come irreversibile, e che lascia tutti indifferenti, che ha reso “destino” una pianificazione cosciente e il perpetrarsi di interessi (economici) e di disinteressi (politici). Un mare nostrum non in termini di condivisione, ma di possessività, cimitero a cielo aperto, che, per queste nuove pendenze ed inclinazioni, protegge le sue coste e annega i suoi naviganti.

 

E' chiaro
Che il pensiero dà fastidio
Anche se chi pensa
E' muto come un pesce
Anzi è un pesce
E come pesce è difficile da bloccare
Perché lo protegge il mare
Com'è profondo il mare

 

Doppiozero firma e condivide l'appello lanciato da Melting Pot Europa per l'apertura di un canale umanitario per il diritto d'asilo Europeo

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