Indietro non torno, voglio andare avanti

30 Maggio 2014

Giovedì notte, Venerdì mattina.

 

Marsiglia significa la casa del vento, ma forse deriva anche da Marsa, la parola araba per dire porto. I due nomi sono particolarmente azzeccati e me ne rendo conto subito, in quella mattina di novembre, quando decido di aspettare le 9.30 guardando l’alba al Vieu Port. Sono partita da Milano in autobus alle 21, per raggiungere il corteo, che aveva lasciato Milano la mattina precedente. C’è un’Europa che viaggia su Eurolines, anche molti siriani che tentano così di arrivare autonomamente in Svezia. Il pullman giunge a Marsiglia alle 6, e la festa di Manar con esibizione canora è finita poche ore prima. Ci voleva, dopo l’ansia del pre-partenza e il passaggio a piedi del passo della morte. Questo significa che nessuno arriverà né presto, né sobrio. Io li immagino con gli abiti a festa ad arrampicarsi per le colline liguri, quel passo raccontato con parole secche e poesia da Biamonti, “Da noi il mare sale per rocce e per dirupi col suo respiro”.

 

 

Ho atteso la telefonata e i messaggi dalla Francia per capire se tutto era andato per il meglio, se il primo passaggio, il più complesso, era andato a buon fine. Ed è stato così, carico di emozione e di tifo da stadio. E poi sono partita anch’io, con un tè caldo regalatomi dall’autista polacco, cercando di dormire illuminata a tratti dalle luci dell’autostrada, domandandomi ogni minuto non più se fosse stata la scelta giusta, ma se io sarei stata in grado. Perché lì, sull’Eurolines, tra il giovane Erasmus, la ragazza rumena che voleva scoprire l’Europa ma aveva paura di viaggiare in autobus da sola e la coppia di mamma e figlia che mangiavano Twix, era chiaro che la libertà in gioco non era più la mia. Potevamo fallire, e noi saremo tornati a casa, dopo una zingarata. Ma a Manar, Abu Manar, Abdallah, Mona e Abu Nawar, che sarebbe successo? Se avessimo sbagliato qualcosa, se le esigenze del film avessero prevaricato quelle personali, cosa avrei fatto? Intanto avevamo lasciato Torino, passando sotto la pioggia il confine francese.

 

Improvvisamente mi sentivo carica di responsabilità. La loro fragilità giuridica e l’averci affidato la direzione della loro vita mi riempiva di paure, ma anche di energie. Solo due giorni prima la diffidenza e il mio rischio erano le uniche sensazioni sul piatto. Nella notte di novembre, trasportata verso la Francia, avevo improvvisamente capito quanto poco stessi rischiando io, e come fosse incommensurabile il valore che il viaggio aveva per questi cinque nuovi amici fortuiti.

 

L’appuntamento è a Place Jean Jaurès. Vedo le auto con i fiocchi nuziali, mentre si svegliano i banchi del mercato nella piazza. Il venditore di ostriche le apre ad una ad una: perfette per un matrimonio. E di nuovo, i libri arrivano, quasi briciole di pane di pollicino a dirci che siamo sul sentiero giusto. La piazza è stata scelta casualmente: è un parcheggio. Ma nell’angolo, all’inizio di Rue Curiol, c’è il Bar des Maraîchers. Chi ha letto la trilogia di Marsiglia sa perfettamente che quello è il bar di Fabio Montale. Il barista ci accoglie affettuosamente e ci racconta la storia, il tavolino preferito di Izzo, come da quell’angolo della città lo scrittore francese abbia raccontato la migrazione. Io e Elena lo prendiamo come un segno di buon auspicio: “Quando non si ha niente, avere il mare – il Mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”.

 

Arrivano tutti, e ci abbracciamo come se non ci vedessimo da mesi. C’è l’energia che si scioglie, è tutto amplificato, proprio perché sono le emozioni a tenere le fila di questo viaggio, fondato più sull’incoscienza che sulla pianificazione. Come le gite in famiglia, la partenza diventa subito complicata: c’è chi ha fame; c’è chi deve andare in bagno; alcuni sono andati a girare il videoclip di Manar al mercato. Di nuovo, fame, bagno, caffè. Finché, dopo attese e giri di piazza, caffè Maraîchers e patatine, si parte. Nella macchina ci siamo io, Marta, Gianni, Mona e Abu Nawar. Abu Nawar tiene il cappello in testa per tutto il viaggio, e mi allunga torroncini, arance, mandarini, dolcetti. Mangia in continuazione, con la fame nervosa. Mona dorme, appoggiata alla sua spalla. Ed è tutto in quella macchina. Mentre risaliamo verso Lione, con l’autunno francese e il sole del pomeriggio, potremmo essere ovunque. È in quel momento che mi rendo conto che la bellezza dei paesaggi che attraversiamo non interessa ai nostri viaggiatori. Il pensiero è uno solo: arrivare, in un posto che non ha immagini, ma ha documenti e significa essere liberi di poter scegliere dove andare.

 

 

Venerdì pomeriggio

 

La strada scorre: Dijon. Scende la notte, e intanto Abu Nawar ci racconta di come ha incontrato Mona, grazie ad un’amica comune, e di come dal primo momento avesse capito che lei sarebbe stata la donna della sua vita. Ci propone pezzi di musica siriana dal suo cellulare, e canta ondeggiando con il cappello a tesa larga. Mona dorme. Ancora torroncini. Siamo a Nancy. Il confine con il Lussemburgo è vicino. Ci fermiamo a decidere come andare. È un momento delicato, perché si tratta di due confini ravvicinati, quelli del Lussemburgo. Ci sarà un’auto sonda con solo italiani a bordo, e poi le altre a scalare, fino al furgone delle attrezzature. Lo stomaco si stringe di nuovo, nel freddo buio della piazzola di sosta di Nancy. Cerchiamo tutti il sangue freddo improvvisato, perché nessuno di noi è sicuro di quello che sta facendo. La passione è tanta, ma siamo anche consapevoli del nostro essere improvvisati, in abiti improbabili, guidatori distratti e passeggeri stralunati che stanno cercando di cambiare un pezzettino di storia. Non quella con la S maiuscola, ma le storie private di queste cinque persone, che stanno inseguendo la possibilità di vivere dove vogliono. Quando ho chiesto a Abu Nawar: “Perché vuoi andare in Svezia?”, lui mi ha guardato sorridente: “Per poter avere i documenti e portare mia moglie Mona a visitare Parigi, Roma, e le Piramidi. Perché i miei figli possano raggiungerci, e possano avere finalmente dei documenti, ed essere davvero liberi. In Siria, in Palestina, liberi non lo siamo stati mai. Non sappiamo cosa voglia dire”. È questa la storia che stiamo cercando di cambiare, accompagnando un farmacista e attivista politico e l’amatissima moglie nel paese di Santa Lucia. La loro biografia, e quella dei loro figli.

 

Risaliamo nelle macchine. Nella corsia opposta ci sono auto della polizia. Mettiamo la musica, perché nell’abitacolo è sceso un profondo silenzio. E poi, all’improvviso, la scritta “LUSSEMBURGO” campeggia. E poi, di nuovo, 20 km dopo, “GERMANIA”.

 

Passiamo Trier. Lo dico ad Abu Nawar, vecchio comunista e per questo perseguitato politico. “Abu Nawar, questa è la città natale di Karl Marx!”. Lui sveglia Mona, ancora dormiente, e le dice con tono solenne: “Mona, siamo a Trier, la città natale di Marx!”. Lei sonnecchiante annuisce, con quell’accondiscendenza consolidata in 30 anni di matrimonio, e si riaddormenta. In tutto questo, siamo in riserva, nella campagna della Ruhr tedesca. Non si vedono benzinai, perché sono spesso fuori dall’autostrada, nei centri cittadini. Abbiamo perso gli altri, è notte, e Bochum è ancora lontana.

 

Io sto con la sposa e tu? La campagna di crowdfunding

Qui il sito del film

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