E ne è valsa, dopotutto, la pena
E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto.
Ne sarebbe valsa la pena. Dopo i tramonti e i cortili e le strade spruzzate di pioggia. Dopo i romanzi, dopo le tazze da tè, dopo le gonne strascicate sul pavimento.
E questo, e tante altre cose? - È impossibile dire ciò che intendo!
Ma come se una lanterna magica proiettasse il disegno dei nervi su uno schermo:
ne sarebbe valsa la pena
T.S. Eliot
Un velo lunghissimo blocca la porta girevole dell’Excelsior, e tutti gli attori, i produttori, i registi, i trolley e i pass, le macchine fotografiche e i canapé all’aperitivo, le giovani e i giovani elegantissimi in cerca di fortuna vestiti da sera per incrociare la sorte tra il parquet e i lampadari rimangono bloccati nella hall, con i concierge che tentano in tutti i modi di capire come sia finito quel velo enorme ad impedire l’accesso al cuore pulsante del festival di Venezia.
Non è accaduto, ma stava per accadere. Fortunatamente la porta d’ingresso girevole ha accanto una piccola porticina, che ha permesso al corteo di 80 spose di passare entrare, attraversare il lungo salone ed uscire lì, tra i leoni, sul mare lattiginoso del lido, tra il grigio perla del cielo e l’azzurro inquieto del mare.
Io sto con la sposa a Venezia è questa immagine, ma è anche un turbinio di ricordi e di emozioni, di situazioni straordinarie per noi, ma soprattutto per i cinque viaggiatori senza documenti, che dal pontile di un peschereccio naufragato di Lampedusa sono giunti in taxi boat all’attracco delle star (ritardando la partenza per andare in bagno, perché a parte gli attori navigati, gli umani provano spesso emozioni forti, e le tradiscono così).
Mai avrei immaginato di vedere ciò che ho visto, di sentire quello che ho udito, e di provare quell’emozione che ti avvolge, e rende le luci più nitide. Ho avuto il capogiro per quattro giorni, dando la colpa al vaporetto, al mio essere una ragazzona di pianura poco abituata alle onde, alle lagune, e agli orizzonti in movimento. In realtà, forse, tutto quello che è accaduto ha contribuito al senso di felice vertigine che ho provato, che abbiamo provato tutti noi.
Il 19 novembre 2013, pensavo che fosse davvero valsa la pena di rischiare, di disobbedire le leggi per la giusta causa della libertà di movimento. Avevamo attraversato l’Europa, e Mona, Abdallah, Abu Nawar, Abu Manar e il piccolo Mc Manar erano finalmente arrivati a destinazione, a tentare la loro nuova vita svedese.
Il 15 Luglio 2014, quando abbiamo chiuso la campagna di crowdfounding raggiungendo la cifra di 98100 euro anziché i 75000 richiesti, ho pensato nuovamente che era stata la cosa migliore decidere di partire per la Svezia, nonostante le paure e i rischi, perché 2717 persone avevano sostenuto la nostra scelta, e ci avevano fatto capire che eravamo stati dalla parte giusta.
Quando a fine luglio ci hanno comunicato di essere stati selezionati fuori concorso nella sezione “Orizzonti” del Festival del Cinema di Venezia, ho cominciato a vedere i tratti della eccezionalità di tutto quello che stava accadendo. Un documentario dal basso, tre registi alla prima esperienza di lungometraggio invitati al festival al contempo più glamour e decadente del cinema. Che cosa avremmo combinato? Come si sarebbero raccordati il viaggio e il mondo patinato del red carpet? Quello che è accaduto è stato aldilà di qualsiasi previsione, e somiglia molto di più ad una fiaba, popolata da personaggi fantastici e momenti onirici, che alla favola che è stata: un racconto realistico con una morale ed un insegnamento etico.
Il viaggio è iniziato con il primo rocambolesco evento: sul treno Roma-Venezia Manar e il padre Abu Manar viaggiano con due biglietti in sovrannumero. Per questo, il controllore decide di spostarli nella carrozza 1, la prima classe. Quando Rachele li raggiunge per salutarli, con il trolley contenente le scarpe eleganti per Abdallah, la scena che le si para davanti ha dell’incredibile: Manar e il padre dividono il tavolino con Abel Ferrara, Willem Dafoe e Riccardo Scamarcio, i protagonisti del film Pasolini, in concorso il pomeriggio del 4 settembre. Una volta capito di avere davanti delle celebrità, Manar si presenta: “I’m Manar, I’m an actor. Tomorrow there’s my movie: IO STO CON LA SPOSA. Do you come to see me?” Willem gentilmente declina, poiché impegnato nella conferenza stampa, ma non si nega la foto con il rapper viaggiatore.
Giunti a Venezia, ricongiunti con Abdallah, Mona e Abu Nawar, i nostri si dirigono all’hotel Flora, che ha offerto gratuitamente loro la suite con vista su san Marco, il taxi per il lido e una gita veneziana tra le calli. È tutto pronto per il gran giorno, la presentazione del film e il tappeto rosso.
Dopo la corsa dal bagno verso il taxi, lo sbarco avviene sotto gli occhi di fotografi curiosi: un secondo sbarco simbolico all’attracco, poco prima dell’arrivo di Belen, con Manar che non vuole più scendere dalla lancia, Mona e Abu Nawar elegantissimi con cappelli e occhiali a specchio, Abu Manar serafico e dallo sguardo obliquo come un Omar Sharif d’annata, e Abdallah sorridente, come mai nel viaggio, spiritoso e solare nella Venezia uggiosa.
Entriamo nell’Excelsior ad attenderli, e scivolo rovinosamente a terra, tra gli sguardi divertiti dei passanti. Dopo le foto di rito, si scappa al casinò: brindisi, conferenza stampa, photocall. Quella di Antonio, Gabriele e Khaled è già una rottura degli schemi: c’è Adam, figlio di Khaled, di 3 mesi, cittadino italiano a tutti gli effetti, che sorride stupito ai fotografi. Nell’attesa delle interviste ai registi, infiliamo Mona nella sala trucco e parrucchieri: dopo essere scappata dalla persecuzione politica, dal mare ribelle e dalle imposizioni del centro accoglienza, ora è lì, seduta, di fronte allo specchio illuminato che ha riflesso le dive, a guardarsi a distanza di mesi.
L’abito a pois bianco e blu, la cintura rossa, gli occhiali a specchio, il cappello a tesa larga cobalto che le avevo regalato durante il viaggio. E’ imbarazzata come una bambina, asseconda i gesti della truccatrice e del parrucchiere, anche se la sua bellezza non viene dalle correzioni estetiche: è serena, realizzata, in vacanza, con i documenti. I 5 hanno scelto di venire a Venezia e sono giunti da cittadini liberi e identificati, rifugiati in Svezia e protetti nei loro spostamenti da quello stesso trattato di Schengen che aveva impedito loro giusto dieci mesi fa di realizzare il medesimo sogno, lo stesso obiettivo.
Dalla conferenza stampa ci catapultiamo all’aperitivo offerto dalla regione Veneto, e lì avviene la seconda cosa miracolosa: la sala eburnea si riempie di spose: la chiamata fatta su Facebook ha ottenuto i propri effetti, e pian piano il bianco pervade non solo i divani, ma anche gli astanti. Ci sono vestiti arrangiati ed abiti rubati alle mamme, spose moderne e spose retrò, spose giovani e spose attempate. Sono tutte spose felici. Sono tutte spose disobbedienti. Abu Nawar scherza bevendo prosecco, e ci prepariamo per il red carpet, per l’occasione, white carpet.
Quelle stesse donne arrivate da tutt’Italia a celebrare il film affollano ora la moquette del lido, sorridono tra bouquet di ortensie e veli, tra merletti e tacchi, fanno da sfondo ai nostri sorridentissimi e coloratissimi registi ed attori, riempiono le poltrone vellutate della sala grande, attendono silenziose l’inizio della proiezione.
I novantotto minuti di film, visti insieme, sono difficili da raccontare. Passano velocissimi, e noi, i 23 viaggiatori dell’armata Brancaleone, ridiamo in sala perché è come se stessimo guardando il filmato della nostra vacanza, e sappiamo anche tutto quello che non è stato scelto dalle riprese, le gag, le battute, le goliardate. Mona scherza sulle facce di Abu Nawar, ride a crepapelle tra imbarazzo ed emozione. Manar è un ragazzino che si esibisce sulla pellicola davanti ai 1000 spettatori paganti che battono le mani a tempo del suo rap.
E piangiamo tutti, e ci abbracciamo e ci diamo gomitate, perché è un documento di quelle emozioni, che ora non sono più solo le nostre, ma quelle di tutta la sala, che ha viaggiato con noi, che ha temuto le frontiere del Lussemburgo, le strade veloci tedesche il mare di Copenaghen solcato dal treno diretto a Malmo. E le parole diventano banali e superflue, perché le cose provate sono strette al vissuto: del nostro viaggio e della sala, che acclama con 17 minuti di applausi i nostri protagonisti e alle due bandiere palestinesi spiegate nel cinema (mai viste prima al festival). E mai parola fu più adatta per descriverli quanto “protagonisti”: i primi a muoversi, i primi a combattere. Mona e Abu Nawar, che erano arrivati a casa mia con solo la busta dei presidi essenziali e gli abiti Caritas, hanno ricevuto più applausi di Ethan Hawke, accolto tiepidamente per il suo “Good Kill”.
Lasciamo la sala, e ci dirigiamo, sulle note dei musicisti, verso la spiaggia dell’Excelsior. E qui accade un terzo piccolo miracolo. Uno dei Dissoi Logoi dimentica in sala lo zainetto. La sicurezza della sala Grande manda il cane addestrato dagli artificieri ad annusare la borsa sospetta. Poiché si tratta di percussioni, per non rovinare le pelli nella borsa assieme ad una campana di metallo è presente anche del talco. Che è, in verità, la componente principale di molti esplosivi.
Allarme bomba, palazzo evacuato, red carpet posticipato di un’ora e mezza. I fotografi, non potendo seguire la parata di stelle, si spostano quindi all’Excelsior, offrendo copertura mediatica inaspettata alle spose, che trascinano un velo lunghissimo. Le spose riempiono tutto il bagnasciuga del Lido, e i fotografi devono indietreggiare: alcuni sono travolti dall’onda, e rimangono a bagno, con scarpe e calzini, per immortalare la commemorazione dei morti in mare, tra canti e ricordi chiusi nella bottiglia. Manar rappa, e lo stesso farà il giorno successivo, con una cassa e un microfono solcando le acque del canal Grande. Abdallah è felice, ed insegue l’amore. Mona e Abu Nawar sorridono, simulano viaggi di nozze, fotografano tutto e tutti, Alaa abbraccia le spose e fa selfie con loro. E siamo tutti zuppi, con i piedi nell’acqua, i vestiti eleganti, spose conosciute e persone venute da lontano, tra i fotografi, i vip, le strappone del lido, a continuare a ripetere che questa è una magia, una favola che finisce bene, grazie enorme mai detto abbastanza.
Continuiamo a dirci che ne è valsa dopotutto la pena, per i cinque viaggiatori e per i 20000 che non sono mai arrivati a destinazione, per cambiare l’estetica della frontiera. Ne è valsa, dopotutto, la pena di esserci, di disobbedire, di rendere la politica una pratica, e di portarla nelle sale, e da lì di nuovo fuori, verso nuove battaglie. Il cielo è di tutti, e quello di Venezia, anche se solcato dalle nuvole, sembra per un attimo più vicino.