Speciale

Tavoli | Giulia Niccolai

17 Febbraio 2014

Conosco Giulia Niccolai da quando ero ragazzo e mentivo sulla mia età perché volevo essere un poeta beat. Vidi (o meglio ascoltai) nascere a Venezia la sua Harry’s Bar Ballad, e sarà per questo che pensando a Giulia visualizzo solo tavoli luminosi e “da gioco”, spesso en plein air, volatili come il suo giocare a palla con le parole, l’anarchia della conversazione che avrebbe deliziato Denis Diderot. Come potevano nascere d’altronde i “frisbees” di Giulia se non all’aperto? Oppure la visualizzo seduta a un grande tavolo da cucina dove si fa tutto, dove tutto cioè si fa cucina – visioni, parole, associazioni di idee e tutte le possibili uscite ed entrate dal e nel material world (direbbe Georges Harrison), eroiche comiche illusioni e sogni di risveglio, cioè poesie – come nella cucina/atelier della casa di Corrado Costa a Mulino di Bazzano dove Giulia Niccolai abitò con Adriano Spatola.

 

Sono tutte visioni viziate dal ricordo, negatrici della solitudine intesa come assenza di testimoni. Sono cioè tavoli extratestuali, come se le poesie nascessero sempre altrove, fuori-testo. Ma non c’è nulla, diceva un famoso Tale, fuori dal testo. E quindi? Quindi mi stupisce che il “vero” tavolo da “lavoro” di Giulia, il suo tavolo testuale, sia in una nicchia riparata e modesta. Devo richiamare il Sutra del Cuore per conciliare il vuoto col pieno, riconoscere cioè il vuoto nel pieno e viceversa, tra oggetti tecnologici sopra e scarpe sotto il tavolo.

 

È un tavolo d’angolo senza testimoni né sguardi, senza luce diretta. A malapena c’è posto per i gomiti, forse per un gomito soltanto. La superficie è ingombra di oggetti operativi, omogenei a un fare – scrivere, stampare e trasmettere testi – l’intero campo semantico del lanciare frisbees (antenati degli e-mails). Il computer, come un tempo la macchina da scrivere col foglio nel rullo, è aperto su parole deliziosamente illeggibili (un “Satellite” Toshiba, la cui tastiera credo sia in assoluta la più comoda), collegato via cavo al modem della Telecom (non wifi, quindi). Una risma di carta da stampante, una stampante a getto d’inchiostro collegata al pc con un cavetto arancione, così come sono collegati anche un telefono portatile e il mouse esterno, che evidentemente Giulia preferisce a quello incorporato nel pc. Resta lo spazio per una ciotolina di oggetti, multiple e adattatori elettrici soprattutto, una piletta di carte varie, un nastro adesivo, due boccette d’inchiostro, una cartolina (unico fuori campo) del cielo azzurro tra le guglie della Pedrera di Gaudì a Barcellona.

 

Gli altri utensili, come il dizionario Zingarelli della lingua italiana e un altro strausato di inglese – sono su una sedia rossa laterale (gemella di quella su cui si siede Giulia) sul cui schienale è posata la bandiera tibetana, che ha gli stessi colori dei quadri di Mirò. C’è tutto, credo. Anche un corposo, meritato silenzio.

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