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Metafisica del populismo VI / Teologia del virus
Quando si prova a pensare al cambiamento che il Covid 19 produrrà nel nostro futuro si è inclini ad un certo “apofatismo”. Come per il Dio “al di là dell’essere” della teologia negativa nessuna delle categorie del discorso pubblico alle quali eravamo abituati sembra infatti in grado di rendere ragione della trasformazione che sta operando nelle nostre vite e, soprattutto, di quelle che genererà “dopo”. Del virus, sul piano empirico, sappiamo molto. Con fiducia e riconoscenza ci rivolgiamo infatti agli scienziati e al loro certosino lavoro, ma anche gli scienziati condividono lo stesso nostro spaesamento circa ciò che il virus sta facendo e farà di noi in quanto “comunità umana”. La situazione è strana: da un lato abbiamo la certezza che è in atto un cambiamento radicale, che niente sarà come prima, dall’altro cosa accadrà, quale cambiamento è in corso, resta totalmente indeciso. Il trauma, del resto, ha proprio questa natura. È il sentimento incontrovertibile di un “accadere” che però non ha oggetto.
Il trauma certifica, con la sua dolorosa evidenza, che qualcosa è accaduto, segnando una discontinuità radicale e irreversibile nelle nostre vite, ma non ha un contenuto da offrire al sapere. Restiamo attoniti, istupiditi, senza un discorso che sia capace di trasformare il colpo subito in un sapere comunicabile. Renderlo comunicabile vorrebbe dire padroneggiarlo, tenerlo a distanza e, in qualche modo, disporne, ma per farlo bisognerebbe trovare un “genere” al quale ricondurlo come “specie”. Ed è proprio a questo che Covid 19, come il Dio della teologia apofatica, si rifiuta. Non si lascia ricondurre a niente di già noto, se non per un’approssimazione sempre difettosa. Non si è forse concordi nel riconoscere che non si era mai visto niente di simile? che qualcosa di radicalmente nuovo e di ingovernabile si è stabilmente insediato nella nostra esistenza?
Ci rendiamo conto di questa differenza “di natura” quando, quasi per rassicurarci di fronte all’ignoto, cerchiamo analogie con altri eventi storici del nostro passato recente e meno recente: dalla minaccia terroristica globale alle guerre mondiali.
Ne restiamo alla fine sempre delusi perché la differenza dell’evento Covid 19 non si lascia ricomprendere all’interno del genere comune “storia”. Si smarca dagli altri eventi che abbiamo conosciuto, non fa serie con loro, mostra una eccedenza rispetto al genere prossimo nel quale cerchiamo di collocarlo (non a caso affiora sulla bocca di tutti l’aggettivo “epocale” che segnala una frattura con tutto quello che abbiamo conosciuto “prima”). Questo non significa che la sua intelligenza come fenomeno possa prescindere dalla storia. Non appartiene alla storia perché si situa al di qua di essa, disponendosi, per così dire, sul suo sfondo eterno. La storia dopotutto è faccenda umana, anzi è il prodotto di una determinata umanità (ci sono “popoli” senza storia, almeno nel senso occidentale del termine, ci sono intere epoche ignare del nostro concetto di storia). Essa certo coinvolge e trasforma la natura, fino a farne un risultato dell’azione dell’uomo (l’antropocene), ma resta pur sempre una operazione parziale messa in atto da una umanità determinata che agisce sullo sfondo di un “tutto” che trascorre indifferente. Ora, se si riconsiderano le ragioni che giustificano un parallelo tra l’evento Covid 19 e l’11 Settembre o le due guerre novecentesche, esse stanno, mi sembra, nel carattere “globale” della minaccia terroristica e nel carattere “mondiale” di quei conflitti. Sono giganteschi eventi storici che in qualche modo hanno riguardato il “tutto”, però solo in linea di principio e non realmente. Di fatto non la vita tutta era presa di mira (cosa che accadrà nel secondo dopoguerra, con l’incubo nucleare, ma solo nella forma della minaccia e non in quello della realtà di fatto e cosa che si ripete oggi con il cambiamento climatico ma secondo tempi fuori scala con la sensibilità umana).
La differenza dell’evento Covid 19 sta invece proprio nel suo far sul serio con il tutto. Non è mondiale o globale per metafora come la guerra o il terrorismo. Lo è in senso letterale. Farà strage nella Repubblica Centroafricana, come tanti altri virus influenzali del passato, e abbatterà le più avanzate economie del pianeta. Il tutto è il suo orizzonte e la vita il suo elemento. Non ci sono angolini appartati in cui i ricchi possano rifugiarsi con i loro jet privati né zone neutrali in cui riparare. Al pari del Dio della teologia apofatica non ha niente fuori di sé.
Covid 19 è una pandemia. Pan in greco significa “tutto”, demos “popolo”. Pandémia era detta in Grecia quella Afrodite meretrice che, incurante delle convenzioni sociali, si concede lascivamente a tutti. Ora, cosa succede quando un trauma concerne tutto il popolo senza eccezioni? Accade quello che di fatto sperimentiamo quotidianamente, con un misto di orrore e fascinazione e per il quale ci mancano le parole: il popolo cessa di essere un popolo per diventare astratta “popolazione”, nel senso in cui nelle scienze naturali si parla, ad esempio, di “popolazione delle api” esposta alla minaccia della sparizione a causa di un qualche fattore patogeno esterno o di una mutazione genetica. Il “popolo” è nozione eminentemente storica. Implica tutta una serie di categorie che solo l’animale parlante ha potuto generare: ha una identità, si differenzia dagli altri popoli, ha dei limiti geografici dettati dalla sua storia e ha una relativa stabilità nel tempo, determinata dalla tradizione. Il popolo, storicamente inteso, è una totalità delimitata e omogenea.
La “popolazione” , invece, è una totalità in divenire dai confini sfumati e sempre rivedibili. Essa ha senz’altro l’unità di un “genere” (api, umani, cellule ecc.) ma la sua unità è inscindibile dal processo del suo costituirsi e del suo disfarsi come tutto. La “popolazione” è un tutto in atto come tutto in ogni momento del suo divenire. Non ha parti componenti se non per esigenza di analisi. Non cessa di ritotalizzarsi ad ogni istante come quella famosa “melodia” che i filosofi, da Bergson a Husserl, hanno preso spesso ad esempio di una unità che si fa attraverso la molteplicità, riconfigurandosi come tutto ad ogni battuta proprio come fa il mare con le sue infinite onde che si infrangono sulla spiaggia. Scoprirsi popolazione e non popolo è l’esperienza traumatica prodotta da Covid 19. Si comprende allora perché alcuni filosofi che non sanno rinunciare all’antica tesi dell’eccezione umana (vale a dire alla presunta differenza dell’uomo dalla natura) hanno reagito in modo scomposto alle “politiche” messe in atto dal governo per rallentare la propagazione del virus. Queste, infatti, se volevano essere efficaci, non potevano che essere delle biopolitiche. Dovevano cioè, conformemente alla definizione di biopolitica fornita da Michel Foucault, mirare a produrre, kata dynamin, per quanto è possibile, la salute di una “popolazione” mettendo anche momentaneamente tra parentesi i diritti “umani”.
Ma, si dirà, le api non fanno una comunità. A connetterle è una danza inconscia che suscita l’ammirazione del naturalista, ma che è priva di ogni senso morale. In realtà il distanziamento personale, invece di spegnerlo, ha rafforzato il senso di prossimità, ce ne ha fatto sentire l’urgenza proprio sospendendolo per ragioni di forza maggiore. Giustamente qualcuno, a proposito di Covid 19, ha parlato di una ritrovata fraternità nella comunanza di un destino. Il fatto che per la prima volta, grazie all’opera totalizzante del virus, ci si senta, traumaticamente, “popolazione”, quale comunità può mai produrre? Quale fratellanza? Forse lo può fare perché costringe a rivedere la nozione di responsabilità estendendola al di là dei limiti della sola morale nei quali l’abbiamo finora elaborata. Siamo infatti soliti declinare la responsabilità nei termini di una relazione con qualcuno. Il qualcuno può essere anche immateriale come lo è la Legge, Dio o lo Stato, tuttavia è sempre un altro determinato, rispetto al quale ci sentiamo obbligati a rispondere delle nostre azioni. Nel nostro sentirci popolazione matura invece un altro senso della responsabilità: non più responsabilità di qualcosa nei confronti di qualcuno ma responsabilità di tutto per tutti, una responsabilità illimitata senza confini geografici e storici. Proprio come succede nelle popolazione degli imenotteri, dove ogni “individuo” è perfettamente fungibile con un altro, anche il nostro prossimo, nella comunità mondiale inaugurata dal virus, perde il suo volto, si disindividua fino a diventare un astratto “chiunque”. È per lui che ci laviamo disciplinatamente le mani.
E la mascherina che indossiamo ha lo stesso scopo, quello di trasformarci nel solo “soggetto” possibile quando si fuoriesce dalla storia per “abitare” (o “disabitare”, come scriveva Giorgio Caproni) il tutto. Nessuno meglio di Gilles Deleuze ha saputo descrivere il “chiunque”. Lo ha fatto nel suo ultimo scritto, poco prima di suicidarsi. “La vita dell’individuo – scriveva – ha lasciato posto a una vita impersonale, e tuttavia singolare, che esprime un puro evento affrancato dagli accidenti della vita esteriore e interiore, ossia dalla soggettività e dall’oggettività di ciò che accade. «Homo tantum» di cui tutti hanno compassione e che conquista una sorta di beatitudine. È una ecceità, che non deriva più da una individuazione, ma da una singolarizzazione: vita di pura immanenza, neutra al di là del bene e del male, poiché solo il soggetto che la incarnava in mezzo alle cose la rendeva buona o cattiva. La vita di questa individualità scompare a vantaggio della vita singolare immanente a un uomo che non ha più nome, sebbene non si confonda con nessun altro.”
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