Trifoglio

27 Agosto 2023

Il signor Palomar aveva seminato «dicondra, loglietto e trifoglio». Desiderava un prato all’inglese e – soggiungo, per fortuna – cicorie e gramigne gli rovinavano quell’idea di prato ordinato e uniforme.

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 Il personaggio dei racconti di Italo Calvino (Palomar, 1983) non è il solo a coltivare l’utopia del prato perfetto secondo i crismi anglosassoni, oggi più che mai dispendioso: frequenti tagli, caccia continua – come Palomar – alle “erbacce” che s’infiltrano per dispetto, poi, molta acqua. La scorsa estate ho detestato con tutta me stessa un vicino, proprietario di una lussuosa villona con un parco senza fine, che irrigava imperterrito il suo prato brillante di smeraldo, mentre mi intristivo per il mio bruciato dall’arsura.

Disdicevole è questo bisogno di omologazione erbacea, anche sotto il profilo estetico. Le erbe sono così interessanti nella loro ricca varietà di forme fogliari che ridurle a una o, al massimo, tre o quattro specie, come richiede il disciplinare d’oltre Manica, è sconfortante. Il prato rustico ha, ai miei occhi, un fascino ben maggiore: mai noioso, pieno di colori, profumi, relazioni vitali. E resiliente. Non cambierei mai con un prato all’inglese il mio, dove fioriscono spontanei il timo e il dianthus, l’iperico e la linaria, il ranuncolo e la salvia, la knautia e l’achillea, l’ajuga, la centaurea, e poi anemoni violette primule margherite myosotis. E non sono men belle le carex che s’intrufolano curiose? Non meritano forse attenzione le rosette basali della piantaggine maggiore, e le sue verdognole spighette florali? Hanno conquistato Dürer che le ha ritratte nell’acquarello La grande zolla (1503) insieme al tarassaco tanto inviso a Palomar! Palomar che strappava pure la borragine, dai meravigliosi fiori blu e, come le foglie, così buoni.

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Beh, sì, il mio in effetti è più campo che prato: però, così spettinato, tanto più gioioso. Certo, va anch’esso tagliato, ma senza il centimetro in mano per misurare i cinque d’ordinanza, e lasciando che le macchie fiorite facciano il loro corso.

Dopo questo elenco (assai parziale) delle essenze selvatiche del mio giardino – più giardino proprio per queste presenze – puntiamo la lente sul trifoglio perché, pur compreso nella miscela dei semi di Palomar, non è ammesso nel prato all’inglese. Anche la dicondra, in vero, non dovrebbe essere reclutata, ma questa graziosa erbacea perenne, non avendo bisogno di taglio, è essenza di prati ornamentali a bassa manutenzione. Comunque, ecco il prato di Palomar:

 

Il prato è costituito di dicondra, loglietto e trifoglio. Questa la mescolanza in parti uguali che fu sparsa sul terreno al momento della semina. La dicondra, nana e strisciante, ha presto avuto il sopravvento: il suo tappeto di foglioline tonde e morbide dilaga, gradevole al piede e allo sguardo. Ma lo spessore del prato lo dànno le lance affilate del loglietto se non sono troppo rade e se non si lascia crescere troppo senza dargli una tagliata. Il trifoglio spunta irregolarmente, qua due ciuffi, là niente, laggiù un mare; cresce rigoglioso finché non s’affloscia, perché l’elica della foglia pesa in cima al tenero gambo e lo inarca.

Orbene, il trifoglio. Fabacea perenne o perennante a seconda delle specie, che sono numerose ma accomunate dalla triplice lamina fogliare (benché ognuna con propri caratteri distintivi), dalle tipiche corolle della famiglia con vessillo, ali e carena, per lo più raccolte in infiorescenze globose fruttificanti in piccoli legumi. Tra le più diffuse vi è il Trifolium campestre dai gialli capolini florali, bianchi e solitari li porta il Trifolium repens mentre il Trifolium incarnatum li ha colorati di un rosso intenso. Rosa, più o meno vivace, e peduncolati all’ascella delle foglie sono quelli del Trifolium pratense (o Trifoglio rosso) che si distingue, oltre che per l’altezza (10-50 cm), per il bianco segno a forma di “V” al mezzo di ciascuna foglia. Era questo il trifoglio più diffuso tra le erbe foraggere, soppiantato da altre più redditizie per la fienagione, ma fissatore d’azoto e sempre utile per la rotazione agraria. Dev’essere questo il trifoglio che ispirò a Pascoli la visionaria poesia Le rane, pubblicata in rivista nel 1897 e riciclata per la coda dei Canti di Castelvecchio (1903), quel Ritorno a San Mauro proposto in chiave memoriale straniante e spettrale insieme.

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Ho visto inondata di rosso
la terra dal fior di trifoglio;
ho visto nel soffice fosso
le siepi di pruno in rigoglio;
e i pioppi a mezz’aria man mano
distendere un penero verde
lunghesso la via che si perde
lontano.

Qual è questa via senza fine
che all’alba è sì tremula d’ali?
chi chiamano le canapine
coi lunghi lor gemiti uguali?
Tra i rami giallicci del moro
chi squilla il suo tinnulo invito
chi svolge dal cielo i gomitoli
d’oro?

Io sento gracchiare le rane
dai borri dell’acque piovane
nell’umida serenità.
E fanno nel lume sereno
lo strepere nero d’un treno
che va...

Un sufolo suona, un gorgoglio
soave, solingo, senz’eco.
Tra campi di rosso trifoglio,
tra campi di giallo fiengreco,
mi trovo, mi trovo in un piano
che albeggia, tra il verde, di chiese;
mi trovo nel dolce paese
lontano.

Per l’aria, mi giungono voci
con una sonorità stanca.
Da siepi, lunghe ombre di croci
si stendono su la via bianca.
Notando nel cielo di rosa
mi arriva un ronzio di campane,
che dice: Ritorna! Rimane!
Riposa!

E sento nel lume sereno
lo strepere nero del treno
che non s’allontana, e che va
cercando, cercando mai sempre
ciò che non è mai, ciò che sempre
sarà...

Le sue foglie trilobate sono un elemento decorativo tra i più antichi, la leggenda le vuole simbolo della trinità e per questo sono emblema dell’Irlanda: Patrizio si sarebbe servito del trifoglio per spiegare il mistero trinitario e diffondere la parola di Cristo sull’isola. Dopo la santificazione divenne sua insegna e il 17 marzo, suo giorno onomastico e festa della nazione, gli irlandesi si ornano di mazzetti di trifoglio.

Molte le sue virtù farmaceutiche conosciute anche da greci e romani che lo credevano portentoso antidoto contro il morso dei serpenti, e lo usavano come febbrifugo, tonico, diuretico e antinfiammatorio. Gli erbari medievali lo rubricavano come rimedio per i leucomi; oggi, l’estratto ai fiori di trifoglio rosso, in capsule o tisane, è consigliato per alleviare i dolori mestruali e i fastidi della menopausa.

Ma il trifoglio ha ben altro pregio.

Nel finale del racconto calviniano Palomar, stanco di tener fede al suo prato ideale, passa da disquisizioni teoretiche su come dominare la natura del prato, su come pensarlo nel suo insieme a come pensare l’universo:

Trifoglio con insetto

Palomar s’è distratto, non strappa più le erbacce, non pensa più al prato: pensa all’universo. Sta provando ad applicare all’universo tutto quello che ha pensato del prato. L’universo come cosmo regolare e ordinato o come proliferazione caotica. L’universo, insieme di corpi celesti, nebulose, pulviscolo, campi di forze, intersezioni di campi, insiemi di insiemi...

È uno dei problemi ricorrenti di Calvino: come comprendere more mathematico l’essere del prato, come governare la natura di quel prato (e non solo), il prato infinito, l’universo infinito.

Una risposta a Calvino, che sui giardini giapponesi ha scritto cose memorabili, può venire da questo haiku del poeta giapponese Natsume Sōseki (1867-1916), di puro spirito zen:

Apprendo che è così
     dall’aspetto
dei trifogli a terra

Nella pratica zen non si danno spiegazioni. Cercatele da voi, guardando i trifogli a terra. E se poi tra questi trovate un quadrifoglio...

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