Ulisse e Penelope: l’amore tra eguali

13 Maggio 2024

È indiscutibile, anche se tutt’altro che privilegiato dalla critica omerica, il fatto che la struttura fondante dell’Odissea consista in una grande storia d’amore, che ha per pilastri la lunga separazione, per entrambi dolorosissima, e l’esaltante esperienza della riunificazione.

Il primo ingresso di Penelope consiste nella sua richiesta all’aedo Femio di interrompere il canto sul ritorno da Troia dei Greci vincitori, il loro travagliato nostos:

smetti il canto luttuoso
che a me strazia sempre il cuore nel petto:
io più di tutti ho subito un dolore tremendo,
tale è l'uomo che piango, ricordandomi sempre
di lui, che ha vasta gloria in Grecia e ad Argo (I 340-344)

Il termine potheo è reso con “piango” da me, nella traduzione per Einaudi che riporto in queste pagine, e credo similmente da tutti i traduttori, ma è reso in modo impreciso, perché cogliendo solo la componente della nostalgia, si trascura quella del desiderio sessuale, che ne fa uno Stichwort della poesia erotica: in particolare in un passo chiave della Lisistrata, dove la protagonista arringa le compagne chiedendo loro se non abbiano nostalgia e desiderio (potheite) dei mariti che sono lontani in guerra (vv.99-100): l’intera situazione è sovrapponibile a quella dell’Odissea, a parte che entrambi i fattori costitutivi del cronotopo hanno per Ulisse dimensioni allargate a dismisura.

Altrove il disagio amoroso di Penelope, cresciuto col progresso della narrazione, approda a un impetuoso desiderio di morte:

mi facciano sparire gli dei che hanno la sede sul monte Olimpo, 
o mi colpisca Artemide dai bei capelli, così che pensando (ossomene)
ancora ad Odisseo io giunga sotto la terra odiosa, 
e non soddisfi mai il desiderio di un uomo inferiore (XX 79-82).

Il participio ossomene inventa un paradossale fisicità dello sguardo mentale, che supera l’assenza dell’amato.

Passando all’altro membro della coppia, Ulisse compie una scelta che lo apparenta ad Achille quando rifiuta l’immortalità e l’eterna giovinezza offertegli da Calipso per amore di Penelope, a detta della ninfa.

                       ma tu sempre agogni
di rivedere tua moglie, che desideri tutti i giorni.
Eppure io mi vanto che non le sono inferiore 
per aspetto e per figura; no, non può essere 
che le donne mortali gareggino con le dee in bellezza” (V 209-213).

Penelope assume dunque il ruolo che nell’altro poema ha il mito collettivo e universale della gloria, ma arriva a vanificare una promessa ben più lusinghiera, perché quella scartata da Achille si limitava a una lunga vita.

Ulisse risponde:

Nobile dea, non t'irritare con me: lo so bene 
anche da me che la saggia Penelope ti è inferiore 
in statura e in bellezza a guardarla; lei è mortale, 
tu sei immortale e immune dalla vecchiaia. 
Eppure anche così io voglio, e desidero tutti i giorni, 
tornare a casa, vedere il momento del mio ritorno (V 15-20).

Conferma la gerarchia ortodossa tra donne mortali e divinità, ma conferma anche la propria scelta difforme da essa: non con i termini prospettati da Calipso, ma con il riferimento generico al ritorno e alla casa. Che questo non sia un autentico distinguo, ma abbia la precisa finalità retorica di smorzare il conflitto con l’interlocutrice, unendo la cortesia alla prudenza nei confronti di un potere comunque divino, mi pare evidente: direi che è il minimo che possiamo aspettarci dalla conclamata abilità di Ulisse.

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Quando parlo di amore fra eguali, so di sfidare la communis opinio che vede i poemi omerici come documentazione di una civiltà che ha la subalternità femminile tra i propri fondamenti, sia pure esprimendola in forma più mite di quanto farà la società ateniese del quinto secolo: ed è un’opinione fondata, sia nei principi generali che nella presentazione basilare della vicenda, che vede Penelope più che mai nel ruolo di un oggetto che si può acquisire senza nessuna considerazione della sua volontà, risolutamente contraria a un nuovo matrimonio, tanto più in quanto fondato sul dato presuntivo che la donna aborre, la morte cioè del marito.

Nel momento in cui lei stessa si pone in palio come premio alla gara dell’arco (incoraggiata dallo stesso Ulisse nelle vesti di un falso mendico), Penelope arriva a considerare la proposta di nozze dei pretendenti come un mero pretesto per l’assalto al patrimonio e al potere sovrano:

Ascoltatemi, pretendenti superbi, che avete invaso 
questa casa per mangiare e per bere senza riposo, 
la casa di un uomo assente da tanto tempo, 
e non siete stati capaci di trovare altra scusa 
che il desiderio di sposarmi, di prendermi in moglie (XXI 68-72)

Ma il quadro istituzionale delle relazioni fra i sessi è nel poema un codice sul quale si misura per contrasto l’evento che è oggetto della narrazione, vale a dire la strenua difesa della propria dignità e autonomia che Penelope conduce durante la sua lunga sofferenza. Inoltre il titolo di regina (basileia) che i pretendenti le riconoscono nella forma, nella sostanza le viene riconosciuto invece dal marito, travestito da mendicante, con una solennità che produce la più vasta e comprensiva definizione della regalità come funzione sociale:

Donna, nessun uomo sulla terra infinita
potrebbe biasimarti: la tua fama sale al vasto cielo,
come quella di un grande re che, pio verso gli dei,
comanda su molti e forti uomini,
venerando la giustizia: la nera terra produce grano e orzo, 
gli alberi si piegano sotto il peso dei frutti,
le bestie figliano, il mare è ricco di pesci,
e sotto il suo governo il popolo prospera (XIX 107-114).

Certo questo quadro è dettato anche da amarezza nostalgica: così Ulisse, partendo per Troia, si aspettava che si svolgesse in sua assenza la reggenza di Penelope; avidità e intrighi hanno prodotto le condizioni che ora il falso mendico si prepara a riscattare e anche a vendicare.

Ma l’eguale dignità dei due coniugi paradossalmente manifestata con l’omaggio del finto sottoposto, contiene dentro di sé una formidabile affinità dei mezzi con cui Ulisse e Penelope affrontano l’agra complessità del reale, e si possono compendiare con la parola “razionalità”: fondamento della fama universale di Ulisse, al quale Atena, dea patrona di lui e della razionalità medesima, riconosce di “saperla lunga” quanto lei (XIII 296); ma a Penelope Antinoo attribuisce

opere bellissime e savi pensieri,
e astuzie quali non conosciamo neppure dalle donne antiche
le Greche dai bei capelli che c'erano un tempo
Tiro, Alcmena e Micene dalla bella corona...
Nessuna di queste aveva l'astuzia
di Penelope (II 117-122).

Si sta parlando del famoso inganno della tela, che in qualche modo corrisponde a quello del cavallo di legno, l’invenzione con la quale Ulisse risolse la guerra decennale. La regina pone e si pone come termine a decidere le nozze il compimento di un lenzuolo funebre per il suocero Laerte: ma disfa di notte il lavoro fatto di giorno, così che il termine si sposta all’infinito, o più modestamente alla scoperta dell’inganno.

Ancora più significativo è l’uso dell’epiteto periphron, associato a Penelope in un nesso formulare che torna più di cinquanta volte.

Il parallelismo genera peraltro un curioso effetto paradosso: quando il falso mendico incontra Penelope lei gli chiede in modo rituale:

Straniero, per prima cosa desidero chiederti
chi sei, qual è la tua città, chi sono i tuoi genitori (XIX 104-105).

Ma Penelope è l’unica persona che Ulisse non vuole ingannare; a differenza degli altri interlocutori, non vuole ammannirle le “bugie, che profondamente ti sono care” (parole di Atena). Ulisse non risponde ma porta il discorso sulla lode che prima abbiamo visto; poi adduce il dolore eccessivo che accedere alla richiesta di lei gli procurerebbe. Penelope però non rinuncia, e dopo una comunicazione confidenziale sulla propria esistenza torna a chiedergli notizie della sua famiglia; non potendo più sottrarsi, quello che torna sulla scena è lo stereotipo dell’Ulisse ingannatore, che subito, qualificandosi come cretese, lascia intendere il segnale canonico della finzione.

L’autenticità viene rimandata alla grande scena del riconoscimento nel XXIII libro, incontro e conflitto di due limpide intelligenze, da cui scaturisce un esito sorprendente.

Alla notizia che Ulisse è tornato e ha sterminato i pretendenti, portatale dalla nutrice Euriclea, Penelope reagisce dandole della pazza, e all’insistenza di lei sulla natura fattuale e indubitabile della strage, oppone la spiegazione soprannaturale secondo cui è stato “qualcuno degli immortali” a uccidere i malfattori. Neanche la menzione della cicatrice che ha permesso a Euriclea di riconoscere il padrone sposta Penelope da un linguaggio che dal suo coinvolgimento nella vicenda esclude precisamente la persona del marito, attraverso una perifrasi e uno spostamento su Telemaco:

Ma andiamo da mio figlio: voglio vedere
i pretendenti morti e colui che li ha uccisi (XXIII 83-84)

Di fronte a Ulisse, incertezza e ambivalenza sembrano impadronirsi di lei:

Sedette a lungo muta, con l’animo pieno di meraviglia.
Guardandolo, a volte lo riconosceva con ogni certezza
altre volte non lo ravvisava, così vestito di stracci (XXIII 93-95)

L’ultima notazione è solo un alibi interiore, al quale si associa lo stesso Ulisse (“perché sono sporco e vestito di stracci, / mi disprezza, e non crede che sia proprio io”, XXIII 115-116): lo prova il fatto che dopo il lungo intervallo in cui l’eroe è stato lavato, rivestito, e come altre volte imbellito da Atena, l’atteggiamento di lei non cambia.

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Penelope e i proci, olio di John Wlliam Waterhouse 1912, Aberdeen art gallery.

Pesa su Penelope una devastante e umanissima paura della felicità, nonché la memoria delle infinite illusioni frustrate, delle quali il porcaro Eumeo ci ha detto:

Chiunque vagabondando arriva a Itaca,
va dalla mia padrona e racconta bugie,
e lei gli fa buona accoglienza, lo ospita, 
s’informa di tutto e le cadono dagli occhi lacrime,
come fa una donna a cui lo sposo è morto (XIV 126-130).

Lei stessa tornerà su questo punto a riconoscimento appena compiuto (XXIII 215-217).

Ma il silenzio è usato da lei come un’arma tattica attraverso la quale cede la parola all’interlocutore dandogli la possibilità di darle la certezza che le manca; si capisce bene che questo atteggiamento possa scandalizzare Telemaco, che ha avuto la rivelazione del padre, e ha attraversato con lui l’esperienza sanguinosa della vendetta:

Madre che non sei madre, tanto hai il cuore duro,
perché resti lontana da mio padre, e non siedi
accanto a lui, non chiedi, non vuoi saper nulla?
Nessuna donna avrebbe cuore tanto ostinato
da stare così lontana dal marito che, dopo tante 
sofferenze, ritorna in patria al ventesimo anno.
Ma tu hai un cuore duro più della pietra (XXIII 97-103).

Delle obiezioni di Telemaco la madre si libera facilmente rivendicando l’esclusività del rapporto coniugale “abbiamo tra noi / segni segreti, che siamo i soli a conoscere” (XXIII 109-110), ma dopo il lavacro Ulisse non fa altro che riecheggiare le parole del figlio, nella sostanza e in parte anche nella lettera.

È ferito dall’obbligo di convincere la moglie, di fornire ulteriore prova di sé, portando all’estremo il rovesciamento di quello che Atena definiva il suo bisogno prioritario, quello di mettere lui alla prova Penelope (XIII 336). Ripetere le parole di Telemaco formalizza la posizione di stallo, perché quelle parole in bocca sua manifestano un rifiuto di parlare (e fornire la prova desiderata) del tutto parallela ed equivalente al rifiuto di parlare (e fornire l’accoglienza desiderata) manifestato da Penelope.

L’equilibrio di questa magnifica partita a scacchi si altera sono con le parole di Ulisse che scoprono un punto debole nel suo sistema difensivo:

Ma su, nutrice, preparami il letto, ch'io possa dormire 
anche solo: lei ha un cuore di ferro (XXIII 171-172)

Solo in apparenza diversiva, la richiesta nasconde delusione e irritazione: “dormire anche solo”, con il declassamento del letto da immagine dei valori affettivi e familiari a banale strumento di riposo, comporta il fallimento simbolico del progetto per il quale Ulisse ha rinunciato all’immortalità. La risposta di Penelope, solo in apparenza condiscendente, è questa:

Ma su, Euriclea, porta fuori il solido letto 
dalla stanza nuziale che si fabbricò lui medesimo; 
portate fuori il solido letto e preparatelo, 
mettendoci sopra mantelli e coperte e tessuti lucenti (XXIII 177-180).

Penelope sa al pari di Ulisse quello che lui dirà nella sua immediata risposta, che l’operazione ordinata con tanta nonchalance è pressoché impossibile: il letto di cui si parla è stato ricavato da un ulivo che è il cuore della casa, che attorno ad esso è stata costruita. È dunque inamovibile, tranne pensare a una violenza che sarebbe più ancora simbolica e morale che non fisica, perché distruggerebbe il principio valoriale su cui la casa è stata costruita.

Costringere Ulisse a manifestare questo pensiero significa forzarlo a dare l’informazione richiesta; ma se Penelope ottiene questo risultato è solo a patto di provocare in lui una tempesta emotiva di fronte all’oltraggio che Penelope gli prospetta, raccogliendo la sua provocazione sulla desacralizzazione del letto coniugale e facendola passare da un livello astratto a quello esperienziale che concerne il loro letto.

Il conseguente turbamento dell’eroe è tale da superare il suo abituale controllo delle emozioni: solo confrontando l’atteggiamento dell’eroe con quello tenuto nell’antro di Polifemo, o di fronte ai plurimi insulti dei pretendenti si ha la misura della vittoria di Penelope sul piano retorico e dialettico, dell’inganno (perché di questo si tratta) perpetrato sul signore degli inganni.

Anche in presenza di questa dimensione agonale, o forse tanto più grazie ad essa, credo si possa riconoscere un rapporto egalitario, perché da un lato la risposta di Ulisse provoca in Penelope uno sconvolgimento non meno devastante (“a lei si sciolsero le ginocchia e il cuore”, XXIII 205, un’espressione formulare usata in situazione positiva solo qui e per il riconoscimento di Ulisse da parte di Laerte, a XXIV 345,); dall’altro la trappola in cui Ulisse è caduto, la via che non voleva percorrere porta a quello che proprio la reazione incontrollata dimostra o conferma essere il suo fine primario

Degna conclusione della scena è la fondazione di un grande topos amoroso: nel beneficio della loro patrona Atena che allunga la notte, dando corpo all’eterna insufficienza del tempo amoroso, cioè alla sua aspirazione all’infinito, c’è un futuro che accoglie il mito della nascita di Eracle, l’aubade medievale, l’addio di Romeo e Giulietta, l’orrore del giorno di Tristano.

Ma l’Odissea presenta la preziosa specificità di comprendere nell’esperienza amorosa, accanto al rapporto sessuale, il reciproco racconto delle traversie passate.

La sequenza per cui “quando Odisseo e Penelope ebbero goduto il dolcissimo amore / si allietarono l'uno con l'altra con le parole” (XXIII 300-301), acquista valore metalinguistico in un formidabile corto circuito per cui se l’amore è parola, la parola è poesia: così Ulisse che presso i Feaci narrava queste stesse vicende era considerato un aedo. 

In copertina, 'Ritorno di Odisseo', di Pinturicchio. 1508-1509. National Gallery, Londra.

Sul tema del linguaggio del mito interverrà la psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista e psicosocioanalista Carla Weber nella sua lectio "Perché il mito? A che cosa serve?", a partire dall’opera teatrale di e con Paola Fresa P come Penelope. L'incontro, che si terrà lunedì 13 maggio alle ore 17.30 alla Casa Teatro Ragazzi in collaborazione con il Salone Off, si inserisce all'interno del ciclo di incontri Convivio, organizzato dalla FONDAZIONE TRG di Torino: www.casateatroragazzi.it

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