A un anno da Faro, l'Italia è ancora nella nebbia

11 Aprile 2014

A partire dagli anni ‘70, cominciò a farsi strada l'idea che il patrimonio immateriale dovesse giovarsi di uno strumento internazionale di tutela analogo a quello istituito per le ricchezze materiali. La ripartizione del bene culturale in patrimonio materiale e patrimonio immateriale consegue dalla consapevolezza che la diversità culturale è necessaria all'umanità quanto la biodiversità lo è alla natura (Raccomandazione sulla salvaguardia della cultura tradizionale e del folklore, 1989). La prospettiva della “tangibilità” nella tutela dei beni culturali è stata quindi superata nel 2001 con l’approvazione della convezione UNESCO sul patrimonio culturale subacqueo, ma la sua piena affermazione avviene durante la Conferenza Generale dell’Unesco del 17 ottobre 2003 a Parigi, quando fu adottata senza voti contrari la Convenzione Universale per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale.

 

Il 27 agosto 2005 a Faro, in Portogallo, il Consiglio d'Europa sigla una convenzione sul valore dell'eredità culturale per la società, entrata in vigore nel giugno 2011. Definendo all’art. 2 la community heritage come “insiemi di persone che attribuiscono valore a degli aspetti specifici dell’eredità culturale, che desiderano, nell’ambito di un’azione pubblica, sostenere e trasmettere alle generazioni future, la Convenzione integra, gli strumenti internazionali esistenti, senza sovrapporsi ad essi, bensì incoraggiando le popolazioni ad assumere un ruolo attivo nel riconoscimento dei valori culturali ereditati, per i quali gli Stati devono promuovere dinamiche di valorizzazione partecipative.

 

Vale la pena sostenere uno sforzo in tal senso, perché il patrimonio immateriale garantisce diversità culturale e creatività umana, fattori che concorrono a determinare senso di appartenenza alla propria terra nel cittadino e sostenibilità nello sviluppo economico. Cornelius Castoriadis insegna che la storia umana è creazione: attraverso ciò che le comunità sanno creare e produrre, esse istituiscono sé medesime quali istituenti di società e di civiltà. Il rispetto del patrimonio immateriale è, dunque, alla base di una relazione di reciproco riconoscimento e legittimazione tra cittadino e istituzioni.

 

L'Italia ha firmato la propria sottoscrizione alla Convenzione di Faro soltanto nel febbraio 2013. È trascorso un anno. Cosa è cambiato nel nostro paese in merito alle filosofie di tutela?

 

Sebbene la Convenzione di Faro abbia posto le premesse per la gestione del patrimonio intangibile, il mantenimento di un distinguo tra patrimonio materiale e immateriale, purtroppo, non ha frenato il ricorso a scelte "spicciole", ricalco di modelli già ritenuti idonei al patrimonio tangibile. Per quanto i calendari degli eventi, provinciali o comunali, si arricchiscano con manifestazioni ed appuntamenti folkloristici, i saperi, le conoscenze, gli artefatti della tradizione non incontrano politiche consapevoli del fatto che la ricchezza intangibile è assicurata dalla trasmissione "di generazione in generazione". Tale processo ereditario è naturale, ma avviene fintanto che è ritenuto ancora valido per rispondere all'ambiente e alla storia.

 

Dal momento che pratiche di tutela risolte in fatti di mera documentazione e musealizzazione conclamano l'arresto delle identità locali, delle quali pure si vorrebbe lo sviluppo, più lungimirante e pertinente agli obiettivi prefissati dalla Convenzione sarebbe orientarsi alla continuità delle forme culturali intangibili ereditate, mediante misure finanziarie e programmatiche che assicurino ai saperi tradizionali spazi e soprattutto economie di riferimento: nessuno ricamerà più e il tombolo sarà messo in teca sotto vuoto, nessuno intreccerà più cesti o batterà tamburi, se il senso della continuità e della trasmissione viene congelato in un mero catalogo di esperienze trascorse.

 

La mancata corrispondenza tra parti sociali e istituzioni, infatti, produce interdizioni che immobilizzano il governo del patrimonio culturale: i bisogni sociali restano inascoltati e bloccati; gli interventi pubblici risultato scollati e figurano ben presto inutili. L'interpretazione dei bisogni culturali della collettività senza il diretto coinvolgimento di quest'ultima, modifica la relazione comunità-enti pubblici da rapporto tra interlocutori a dinamica tra antagonisti. Il conflitto che può nascere da divergenze di intenti, nonché da aspettative disattese, è tuttavia motore di processi innovativi ed è in ogni caso una via di affermazione con cui la comunità esercita le proprie facoltà "istituenti", facoltà che sono all'origine della politica e della democrazia. è un'esperienza di conflitto, ad esempio, ad aver meritato il riconoscimento dell'European Cultural Foundation che per la prima volta ha assegnato il premio internazionale Ecf, Princess Margriet a un'iniziativa italiana, consegnando il premio al Teatro Valle Occupato. Mentre il Prefetto nega agli occupanti l'autorizzazione per dare vita a una fondazione, nel tessuto culturale della città gli attivisti mobilitano la collettività, grazie a un cartellone di alto profilo e a un insieme di attività che fanno del Teatro Valle Occupato un luogo in grado di animare la sfera pubblica attraverso la cultura. Il Teatro Valle Occupato, che in patria è un'esperienza "fuori legge", è stato candidato da esperti internazionali provenienti da discipline e ambiti eterogenei. I criteri di valutazione della giuria hanno riguardato la capacità di innovazione, di visione e democrazia. Questa vicenda indica che il patrimonio culturale va percepito come un campo aperto a iniziative e progetti che si riferiscano a domande collettive.

 

Resta infatti da ribadire che la cooperazione con gli enti pubblici è possibile. Un esempio ci viene dal territorio campano dove, a fronte di culture locali vive e di strumenti vigenti inefficaci, la ricerca di soluzioni ha maturato strategie fondate sulla condivisione: la costa Amalfi-Sorrento è uno dei pochi territori regionali ad essere soggetto a un Piano Paesistico; le capacità di tutela e conservazione di quest'ultimo, tuttavia, sono state inibite dai singoli Piani Urbanistici che non ne hanno assimilato le norme. Per volere e spinta anche della collettività, si è resa necessaria un'operazione di sinergia tra competenze, grazie alla quale il Centro universitario europeo per i beni culturali di Ravello ha offerto supporto scientifico alla Sopraintendenza per elaborare ed attuare un Piano di Gestione del paesaggio culturale della Costiera amalfitana. Il volume intitolato Il futuro dei territori antichi. Problemi, prospettive e questioni di governance dei Paesaggi Culturali Evolutivi Viventi, a cura di Ferruccio Ferrigni non solo documenta le attività intraprese, ma afferma che la metodologia di ricerca e le strategie di conservazione per il piano di gestione del sito si fondano sul superamento della separazione tra materialità e immaterialità del Patrimonio.

 

È giunto il momento di comprendere, quindi, che non esistono due tipi di patrimonio di pari valore, bensì un solo patrimonio culturale. Tale dimensione è complessa, fatta di articolazioni, tangibili e non, interagenti e interdipendenti, uniche e singolari, ma dal valore universale. Senza una visione piena e ampia, gli approcci metodologici non potranno che essere segmentati, causando condizioni di esclusione o rigidità nelle iniziative. Se all'immaginario collettivo si dà possibilità di concretezza attraverso pratiche, istituzioni, organizzazioni sociali, l'attività di governo allora può dirigere il cambiamento e lo sviluppo verso un'economia del patrimonio culturale che sia non solo di profitti, ma di relazioni, servizi, saperi che progrediscono al meglio unitamente ai valori umani che li sostengono.

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