Un possibile grande paese
Un grande paese: si presenta così il nuovo libro di Luca Sofri (Rizzoli, pp. 250, € 10), con un titolo netto e positivo. Persino risibile, come egli stesso sottolinea spesso nel libro, perché è un auspicio, più che un dato di fatto. Un augurio.
Dentro, fra le tante cose, fra Obama, Michael Jackson, Baricco, fra la moglie (le cui frequenti citazioni, è bello dirlo, sottendono una amorosa gratitudine), fra amici, esperienze e digressioni sul presente, ci sono due idee di fondo: la collettività e il cambiamento.
Ma queste due parole sono troppo piccole per dire tutto.
La prima è il tentativo di dare un nuovo nome, una nuova forma, a quello che troppo spesso chiamiamo semplicemente patria. E che invece contiene qualcosa in più che è l’io. Il passaggio, non detto ma evidente, sta nel fatto che la nuova identità collettiva contemporanea non passa per l’idea di nazione (vacua e incomprensibile) ma per una più lucida forma di empatia fra se stessi e i propri compagni di viaggio. Non passa per l’idea astratta di un’identità totemica (la patria) ma attraverso la coscienza di un io la cui consapevolezza è, però, l’ineluttabile relazione con il circostante.
Ne vengono fuori alcune digressioni che sono tutte figlie dell’ ipotetico nuovo rapporto che ogni cittadino potrebbe avere con la collettività del proprio paese. Il rapporto fra il proprio giudizio e il giudizio collettivo; il meccanismo maggioritario (ottuso e semplicistico, eppure ovvio) della democrazia, a cui spesso pragmaticamente sacrifichiamo i nostri valori; il populismo (di molti) e l’elitismo (di pochi), a cui abbiamo affidato una stupida contrapposizione; il referendum come implacabile delega di un’oligarchia al più mite giudizio popolare e infine, persino, la contemporanea vanità (moltiplicata dai media, dal web, e dai social network) come possibile forma di responsabilità individuale rispetto al bene collettivo.
In sostanza tutto dentro il libro sottende una nuova possibile forma di coesione sociale che nega (o più profondamente annulla) qualsiasi responsabilità dei poteri, della politica, dei partiti e delle oligarchie, provando a disegnare un orizzonte contemporaneo in cui l’idea di “stare insieme” sia il lascito e l’onere di ognuno di noi, senza mezzi termini.
Si negano persino le ragioni storiche e culturali, davanti alla necessità di una responsabilità civile personale.
E questo è già bello: credere che il movimento del singolo disegni le direzioni del mondo tutto.
Disegnare questa traiettoria necessita il desiderio di uno sguardo collettivo lungo e saggio sul futuro. Sul cambiamento.
Che rischierebbe di essere una parola vuota, se non si potesse partire dallo sguardo che Luca Sofri, naturalmente, assume: quello della mitezza progettuale, contrapposta all’antagonismo dogmatico. Quello dell’incontro dei desideri, anziché dello scontro delle idee.
Questo libro non parla contro nessuno, non ricorda errori altrui e non cerca colpevoli (il che è un miracolo, come certo saprete se avete letto gli altri libri sul centocinquantenario).
Per le nuove generazioni - culturalmente cresciute dai sessantottini e i post-sessantottini e abituate alla critica eterna, alla contrapposizione, alla protesta, alla lamentela, al litigio, all’opposizione come ragione del proprio esistere - leggere un’idea di cambiamento così spudoratamente vitale e propositiva, così innocente, permette di respirare, ne attenua la chiusura dentro un’asfittica anemia progettuale.
Il cambiamento che si respira nel libro (e, va detto, in tutte le cose che Sofri fa) è un’idea che ha qui a che fare con il costruire, anziché con il distruggere; con la parola progetto, anziché critica; con la parola idea, anziché confutazione.
È lo sguardo di chi non ha voglia di distruggere il prato del vicino, ma di costruirne uno più bello. Di chi non desidera tessere la sua tela (e ornare il proprio campanile), ma la trama di un panorama.
È il libro di chi crede che questo sia l’unico sguardo con cui l’Italia può pensare a un futuro, a una patria e, quindi, a un grande paese.