Natura non natura
Negli anni '60 c’era un movimento artistico (quanto è dolcemente vintage l’espressione: movimento artistico) che ragionava sull’esperienza umana, la tecnologia, in relazione alla natura. Si chiamava Land Art, mettevano in piedi piccoli e grandi gesti che letteralmente disfacevano la natura. Il mondo intorno.
Era un movimento che aveva dentro una certa critica al progresso, o quantomeno un certo disappunto di fronte al potere dell’uomo. Erano anni, quelli, in cui nasceva l’embrione di quella critica alla modernità che fu poi, sull’onda della crisi petrolifera, l’albore del postmodernismo. Oggi risulta vagamente reazionaria, ma va detto che fu per quasi vent’anni il pensiero culturale predominante. A torto o a ragione, poco importa.
Robert Smithson, Spiral Jetty, 1970
Tutto questo per dire che l’altro giorno Creative Application (il miglior magazine culturale, serio, su quello che succede intorno alla tecnologia applicata alla creatività) pubblica questo progetto. Un programma scritto in Python che progetta pezzi di terra con agricolture diversificate, disegnando sulla terra lembi di biocosmo come dipinti della natura. Il tutto, con una funzione, sia agiricola che “formale”.
"Land art”, penso fra me e me, ma con il piglio di una fiducia nella tecnologia, nella scienza, che quelli lì, quaranta anni fa, si sognavano. Disegnare il mondo per progettarlo, non per metterlo in discussione. E’ una differenza non da poco. E poi, giorni dopo, mi imbatto in questo pezzo su ilPost di Antonio Pascale. La cultura umanistica, gli intellettuali italiani, il loro rapporto con la scienza, i fatti, i dati. L’umanista, la sua indubbia capacità di tessere sulla società un racconto condiviso, politico, credibile. E la scienza, per natura fredda e progressista, che tira dritto per la sua strada, numeri alla mano. Il tutto, ammollo in una lunga storia di natura, agricoltura, tecnica applicata all’agricoltura. Continuavo a rigirarmi in mente queste tre cose: la Land Art, il software per disegnare panorami, e gli innesti OGM di Pascale.
Di agricoltura e natura capisco poco, ma ho capito che dentro tutto questo c’è il cuore di una faccenda che va avanti da anni, e che tira dentro tutti noi, e il mondo che oggi viviamo. Ovvero lo smottamento, quasi tettonico, fra l’avvicendarsi inevitabile di un certo progresso tecnologico, a fronte di alcune certezze culturali oramai granitiche. E, sottintesa, la velocità di quel progesso rispetto alla lentezza dell’adeguamento culturale.
E quindi, a cascata, le infinite tensioni della società: la straordinaria possibilità tecnica, che sembra sfrizionare verso un futuro del tutto inedito, la visionareità di progettisti utopici, le eredità culturali per natura passatiste, l’inevitabile istinto collettivo e sociale alla cautela, la insindacabile diffidenza, la vertigine modernista e tecnocratica, una certa mitezza generale di comprensibile spaesamento, il mondo anglosassone per sua natura spregiudicato, gli illusionisti pericolosi dell’ultim’ora, la nostalgia per il pomodoro di una volta, e l’amore cieco per le frontiere non viste. C’è di tutto, e tutto legittimo, oggi, fra le spinte che disegneranno un futuro molto vicino. E riuscire a tirare un filo, unire i punti, in questa geografia degli istinti umani così diversi, è in fondo l’unico vero compito, arduo, che spetta a tutti noi nei prossimi anni. Speriamo, e pensiamo, di esserne all’altezza.