Arte Povera oggi
Come tutti sanno, di recente Germano Celant ha disseminato tutta la penisola di mostre sull’Arte Povera: Milano, Roma, Torino, Bari, Napoli.
Ho visitato quella di Milano e, senza avere la presunzione di tirare le somme sul movimento, o solo di abbozzarne un ritratto complessivo, un bilancio seppur parziale alla fine si può trarre. L’impressione che ne ho riportato, passeggiando per le sale della Triennale in compagnia di Alberto Garutti, è che a quarant’anni di distanza quelle opere sono più vive che mai.
La sensazione, netta, era di stare in mezzo a opere di oggi, più che di ieri. Non capita lo stesso, per dire, guardando la Pop Art (per rimanere sul coevo). Guardi Warhol ed è, inevitabilmente, invecchiato: è come se le sue opere portassero addosso un cartello con la data; e subito ti immagini la sua Polaroid, James Dean, l’AMERICA (maiuscolo, come il sogno che si guardava da qui, in quegli anni); e poi i Kennedy, i Beatles e i Rolling Stones, l’emporio dei miti degli anni ’60 al completo, per finire con tuo padre che fuma Nazionali alle manifestazioni fuori dall’università. La Pop Art è stata quella cosa lì, quel pezzo di storia: una parentesi aperta e chiusa, ora.
Lo stesso vale per la Minimal Art (sempre per rimanere su un movimento contemporaneo), una certa arte performativa politica (Acconci e Gina Pane), la Body Art, Fluxus. Cose d’altri tempi, per capirci.
Va così, prescindendo dal valore: alcuni linguaggi sprigionano senso gravitando intorno a un tempo, e alla storia, mentre altri volano via, come se viaggiassero di traverso, spalle agli anni.
E allora in fondo vedi le opere di Zorio, quei suoi macchinari rumorosi, e ti sembra di vedere, in fiore, un Arcangelo Sassolino o un Diego Perrone.
Vedi Kounellis e ci ritrovi Vascellari, la sapienza dei materiali di Caracciolo e persino un Olaf Brzeski.
Vedi la cerebrale puerilità di Boetti, e c’è dentro una buona metà degli artisti italiani di oggi.
Non voglio certo ridurre la contemporaneità di un’opera alla sua capacità di filiazione; il fatto è che, quando vedo quelle opere, a dettare l’intonazione dello sguardo non è certo la prospettiva storica.
Così, senza moltiplicare gli esempi in questo senso, a restare in testa è un sospetto, un azzardo di tesi: l’arte povera è stata una delle tre o quattro cose, del Novecento, a non essere finita.
Sono tutt’altro che esauriti sia l’approccio pre-ambientalista, spirituale (perdonate la parola), che anzi proprio in questi giorni troviamo così attuale e nostro; sia il germe antropologico che ha decretato la fine del quadro (le fini sono, sempre, un ottimo alibi per gli inizi) e ancora il linguaggio fatto di materiali, segni e parole. Non è finito il presupposto spaziale e teatrale dell’opera, la messa in scena come presupposto a un’arte totale. E soprattutto continua a essere centrale l’idea dell’arte come esperienza, prima che conoscenza, essendo oggi ogni cosa lì com’è, viva, prima ancora di saperla.
Forse si potrebbe azzardare che l’Arte Povera non è stata un movimento ma, come l’impressionismo, il romanticismo e il dadaismo, qualcosa di compiuto in se stesso, e al contempo un inizio. Più che un olio su tela, una “Tecnica mista” di questo primo secolo 00. Per tutti. E “Senza Titolo”, come piace a Kounellis. Come senza titulo è il nostro presente.
Jannis Kounellis e Anouk Kruithof
Jannis Kounellis e Gianni Caravaggio
Giovanni Anselmo e Vanessa Billy
Lara Favaretto e Jannis Kounellis