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Una pedagogia implicita. Insegnare Calvino nelle scuole
Quando si vuole presentare a scuola Italo Calvino, si impongono tre osservazioni preliminari: lo scrittore non ha avuto con la scuola un rapporto sistematico né idillico; la sua produzione offre innegabili potenzialità didattiche; la varietà e l’ampiezza dei suoi interessi e della sua scrittura intimoriscono e sembrano poco compatibili con gli imperativi scolastici della selezione e della circoscrizione dei temi. In altre parole a Calvino è difficile rinunciare ma bisogna gestire una produzione che, oltre ad essere poco legata all’universo scolastico, appare multiforme e inafferrabile.
Di scuola Calvino ricorda e si occupa poco. Le rappresentazioni che ne dà nelle sue opere sono così poco lusinghiere che Paolo Giovannetti, nel volume Calvino & l’editoria (1993), può concludere: «Calvino non amava la scuola. Le istituzioni educative o non sono rappresentate nei suoi volumi o, se lo sono, vengono per lo più umoristicamente straniate». Gli incroci diretti con la scuola (media), del resto, sono solo tre: le edizioni annotate del Barone rampante e di Marcovaldo (Einaudi, 1965 e 1966) e l’antologia in tre volumi La lettura curata con Giambattista Salinari (Zanichelli, 1969-1972). Iniziative vicine nel tempo che sono da legarsi al fermento editoriale successivo alla riforma della scuola media del 1962.
Di contro, la riflessione e la scrittura calviniane hanno potenzialità didattiche di innegabile efficacia. Calvino è autore di racconti brevi; usa una lingua chiara e comprensibile; favorisce un insegnamento interdisciplinare; è attento lettore di classici di cui sa illuminare il significato profondo; è scrittore ‘visivo’ che si presta a differenti tipi di apprendimento e forme di restituzione delle conoscenze; è capace di quell’approccio ‘leggero’ alle cose che lui stesso spiega nelle Lezioni americane e che è prezioso nello studio.
Il problema sorge allora quando si avverta l’esigenza di ‘chiudere’ e ‘sintetizzare’ Calvino: a quel punto, poiché egli sfugge a qualsiasi presa, si procede attraverso strategie (come etichettarlo, ridurlo, piegarlo), se non si cade addirittura nella tentazione di ‘forzarlo’.
La prima strategia fa sì che Calvino sia definito in innumerevoli modi. Scorrendo i titoli degli studi critici, si rileva l’assoluta centralità del tema – precocemente acquisito – del doppio: termini che vi alludono (dimezzato, binario, diviso) o lo ricreano per opposizione (fiabesco/realistico, visibile/invisibile, discreto/continuo); immagini (labirinto, universo, metamorfosi) o espressioni (modello, sistema, dialettica) che tengono insieme i contrari o li traducono in ossimori (La profonda superficie di Calvino, The Utopian Reality of Italo Calvino, Il peso dell’imponderabile) o li annullano in forme neutre (album, alfabeto, enciclopedia), a volte ricavate dai titoli stessi dei libri (Italo Calvino e i sentieri che si interrompono, Calvino dentro il labirinto, Se una notte d’inverno un produttore). Infine, soprattutto nei manuali scolastici, si tenta di ricondurre Calvino a categorie rassicuranti: lo si inserisce in epoche storico-letterarie riconoscibili (neobarocco, neoilluminismo, neorealismo, postmoderno) o confronta con autori canonici (Pasolini, i due classici del secondo Novecento; Vittorini Pavese e Ginzburg, gli intellettuali di formazione einaudiana; Fenoglio, i narratori dell’esperienza partigiana; Primo Levi e Gadda, gli scrittori di formazione scientifica).
La seconda strategia riduce Calvino, trasversale a tutte le età e a svariati generi, procedendo a una rigorosa operazione di selezione: si isolano le fiabe e Marcovaldo per i bambini mentre i racconti cosmicomici sono rivolti agli appassionati di scienza; automatico è il riferimento agli architetti per Le città invisibili! Poco attraversate invece le produzioni realistica, combinatoria e saggistica, con l’eccezione delle fortunatissime Lezioni americane. Tra i contenuti sono senza dubbio ricorrenti la riflessione sulle opposizioni tra natura e città o storia e tra fantasia e realtà; così come viene giustamente declinato nelle più varie forme il tema del punto di vista, sempre mobile e parziale. Infine, soprattutto a scuola, Calvino è modello di una lingua piana ed efficace e non è raro che la lettura di un suo testo ispiri svariati esercizi di scrittura.
L’ultima strategia di approccio è quella potenzialmente più pericolosa: poiché di molto ha riflettuto e scritto, Calvino è piegato a dire di tutto. A tale proposito può essere utile una rapida panoramica delle iniziative legate al centenario della sua nascita. Se si considerano le proposte alle scuole, si passa dallo studio topografico della propria città alla sfida di enigmi, da spettacoli teatrali a passeggiate botaniche, da contest di disegno a concerti ispirati ai suoi libri. Se poi lo sguardo si allarga al pubblico più ampio, Calvino è oggetto di omaggi con una rassegna cinematografica di film di fantascienza, uno spettacolo itinerante di circo e una escape room, trasformato in ecologista e precursore dei game designer, della graphic novel e di chatGPT.
La sfida da affrontare sembra allora quella di lasciar parlare Calvino per cogliere – nella sua visione del mondo, dell’uomo e della scrittura – alcune implicite istanze pedagogiche di straordinaria attualità.
Punto di partenza non può che essere la realtà, che Calvino concepisce (e rappresenta) come qualcosa di complesso, stratificato, opaco. «Stiamo vivendo al tempo delle invasioni barbariche», scrive nel saggio del 1962 I beatniks e il «sistema». «I barbari questa volta non sono persone, sono cose. Sono gli oggetti che abbiamo creduto di possedere e che ci possiedono; sono lo sviluppo produttivo che doveva essere al nostro servizio e di cui stiamo diventando schiavi; sono i mezzi di diffusione del nostro pensiero che cercano di impedirci di continuare a pensare; sono l’abbondanza dei beni che non ci dà l’agio del benessere ma l’ansia del consumo forzato; sono la febbre edilizia che sta imponendo un volto mostruoso a tutti i luoghi che ci erano cari; sono la finta pienezza delle nostre giornate in cui amicizie affetti amori appassiscono come piante senz’aria e in cui si spegne sul nascere ogni colloquio, con gli altri e con noi stessi.»
Toni così polarizzati non sono frequenti nello scrittore; si inseriscono nel contesto degli anni Sessanta, quando egli prende coscienza del rischio per l’uomo di essere sommerso dalle cose di cui non riesce a comprendere né orientare il flusso. È facile riconoscere la premessa di quella che alcuni considerano la fine dell’antropocentrismo che, nel cosiddetto secondo Calvino, si tradurrebbe nella scelta di personaggi sempre più lontani dall’‘umano’ e di questioni più cosmologiche che antropologiche. Eppure, continua lo scrittore, «l’impero che va difeso dalla barbarie [...] è il dominio dell’intelligenza umana sullo sviluppo caotico e potenzialmente catastrofico di questa civiltà della tecnica e dell’organizzazione e della produzione di massa in cui ci troviamo a vivere e che riconosciamo come nostra». Calvino, cioè, esclude gli atteggiamenti opposti della resa e della illusione di tornare indietro o costruire un’alternativa radicale, e propone una forma di resistenza che serve a situarsi nel «mare dell’oggettività» (così un saggio del 1959) e si nutre almeno in due modi: attraverso l’osservazione attenta del reale (da cui la presenza di effetti di straniamento nella sua narrativa) e attraverso lo sforzo costante di interpretazione ricomposizione e orientamento (da cui la frequenza di personaggi bambini, o ingenui come bambini, in perenne atteggiamento di scoperta e la passione per cavalieri, boschi misteriosi, prove). Se ne ricava indirettamente una immagine dell’uomo che è tutt’altro che in dissoluzione e si può inserire, nella nostra tradizione, in una linea ideale che parte da Leopardi e passa per Montale e Gadda: rifiuto di illusioni semplificatrici, lucidità dello sguardo, atteggiamento di attrito.
Tutto ciò poi in Calvino prende forma nella ricerca di un’espressione concreta e precisa che investe la comunicazione verbale e non, ovvero le parole ma anche «un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato» e «l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili» (Esattezza): qualsiasi segno infatti serve a dire il reale e a comunicare con gli altri. Il rischio che si corre non è trascurabile; consiste in quella «perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, [...] che tende a [...] diluire i significati, [...] a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze». Non è un caso allora che nei libri di Calvino si moltiplichino le rappresentazioni dell’atto stesso del narrare (dal filo di inchiostro del Barone rampante alla scacchiera delle Città invisibili); né è un caso che nella medesima lezione per Harvard lo scrittore esterni la sua ammirazione per Leonardo da Vinci e la «battaglia con la lingua per catturare qualcosa che ancora sfugge all’espressione». Una battaglia, quest’ultima, di cui – nel vortice dell’attuale progresso tecnologico – si avverte l’urgenza.
La lezione di Calvino non semplifica né conforta e può apparire controcorrente nell’epoca in cui ci si illude di poter volgere lo sguardo al futuro rinnegando il passato, trovare soluzioni facili, privilegiare comunicazioni rapide e confuse. Spesso, purtroppo, anche a scuola. Calvino però individua un’arma di contrasto efficace che, fortunatamente, occupa ancora uno spazio nella formazione dei giovani: la letteratura. «[...] educazione, di grado e di qualità insostituibile», capace di rivolgersi agli uomini «attivi della storia [...] aiutandoli a esser sempre più intelligenti, sensibili, moralmente forti» (Il midollo del leone, 1955); strumento per «definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita [dal labirinto della vita], anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro» (La sfida al labirinto, 1962); «campo d’energie che sostiene e motiva questo incontro e confronto di ricerche e operazioni in discipline diverse, anche se apparentemente distanti ed estranee» (Lo sguardo dell’archeologo, 1972); mezzo per «creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio [che è anche delle immagini e del mondo]» (Esattezza, 1985).
Pur passando dai toni ambiziosi della militanza intellettuale a quelli pacati di una posizione più cauta ma mai scoraggiata, Calvino è fedele nel tempo alla insostituibile funzione della letteratura. Invita all’impegno, all’umiltà, all’apertura alla globalità dell’esperienza e del sapere: questi, sì, imperativi categorici (anche) nella scuola del secondo millennio.
martedì 3 ottobre ore 17.30
Biblioteca Guglielmo Marconi
Una pedagogia implicita. Spunti di riflessione per l’insegnamento di Italo Calvino
con Daniela Santacroce
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