Usi e abusi linguistici / “Vel” o “aut”: la verità, vi prego, sul “piuttosto che”

22 Aprile 2016

All'Anagrafe, per una nascita: “Femmina o maschio?”. Un corno dell'alternativa esclude l'altro. Oggi, il quadretto familiare si completa poi a piacere: “Mamma e papà o due mamme o due papà”. “O” è una ben strana parolina. Disgiunge, certo, ma in due modi differenti: in modo esclusivo o no. Una forma, due valori diversi. Non va così dappertutto. Non è sempre andata così. Si cambia lingua e va diversamente. Non è necessario viaggiare nello spazio, basta farlo nel tempo. In latino non andava come oggi in italiano. Per farla semplice, ciascun tipo di disgiunzione aveva una forma appropriata. “Aut” per l'esclusiva. “Vel” per l'altra. Quindi, per intendersi, “F aut M” ma “mamma e papà vel due mamme vel due papà”. 

 

Per il latino, a un certo punto, le cose si misero al peggio. Ci si avviò, tra l'altro, verso l'italiano. La disgiunzione italiana “o” viene da “aut”. E “vel”? Perduta nella catastrofe. Si disse “aut” anche quando si sarebbe dovuto dire “vel”. A farlo, fu gente rozza ma di mondo, di tendenza. Forse qualcuno se ne scandalizzò. “Aut” ovunque, che orrore! Poi, si lasciò perdere. Contro un andazzo non si può andare. 

 

Per secoli, avanti così, grossolanamente. Ci si abitua alle ambiguità. Non ci si fa caso. Parli una lingua e pensi che corretto, preciso e sufficiente sia ciò che la tua lingua ti obbliga o ti permette di dire. Ma le due disgiunzioni differenti restano differenti. “Mare o montagna, amore, va bene; stavolta, però, senza tua madre: me o lei, decidi!”. “Me o lei”: “o” è “aut”. “Mare o montagna”: “o” è “vel”. Il primo, nessuno lo tocca. Il secondo è differente. Perché non trovargli un sostituto? Da un po', s'è fatto avanti “piuttosto che”. È forma di altra funzione, parente lontana della disgiunzione. Alla disgiunzione, si adatta solo il giusto. Altrove, crea un marginale cortocircuito. L'ambiguità di “o” non è tuttavia meno scandalosa e perversa: se lo pare è solo perché è perversione praticata da sempre. L'antico guasto si ripara così con una forma riciclata. Non si dice del resto che riciclare è bene? Insomma, la differenza tra “aut” e “vel” torna alla luce. È rivestita alla buona, con un abito di fortuna. Più d'uno arriccia il naso. Tranquilli. Se la cosa avrà successo, domani la si dirà elegante. Anzi, l'unica possibile.

 

C'è infine la faccenda della consapevolezza. Chi usa “piuttosto che” per “o” sa ciò che fa? No. A orecchio, percepisce però che disgiunzioni ce ne son due. Non usa “piuttosto che” per l'esclusiva, lo usa per l'altra. Agisce selettivamente e con rigoroso criterio grammaticale. Chi parla non sbaglia. Al linguista, se ci riesce, spetta capire cosa succede. Dalla bocca di parlanti siffatti, la lingua sta eruttando un “piuttosto che” che vale “vel”, la disgiunzione che non esclude. La differenza tra “aut” e “vel” è rimasta nascosta per secoli, acquattata sul fondo. Le correnti interne della lingua la rimettono adesso in circolazione. Per farlo, si servono di parlanti sensibili alle mode, solerti nel cambiamento. E vindici, inconsapevoli e paradossali, del valore di una parola di Cicerone: “Ho deciso. Entro l'anno mi sposo. F piuttosto che M, che importa?”. 

 

Gente odiosa? Forse, ma poco da farci. Odiosa fu anche la gente che prese a dire “aut” per “vel”. Chi cavalca un andazzo è sempre intollerabile. “Piuttosto che” è l'emblema di un andazzo. La lingua ha bisogno di gente così per mutare d'abito di tanto in tanto, nel suo perenne movimento. E ha tempi lunghi, diversi dagli umani, brevissimi. Le sue vendette sono sempre gelide. Le sue ironie feroci. Il suo corso implacabile.

 

 

Comparso sul “Corriere del Ticino”, il 30 marzo 2016.

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