Zakhor. La memoria ebraica
Il libro di Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, è uscito in prima edizione in America nel 1982, e prontamente tradotto dalle edizioni Pratiche l’anno seguente. Ora viene finalmente ristampato da Giuntina (pp. 175, € 14), e sarà in libreria tra qualche giorno; la nuova edizione comprende una notevole prefazione di Harold Bloom, e un saggio di Yerushalmi dedicato all’oblio. Si tratta di un libro straordinario che risponde a una domanda: che cosa gli ebrei hanno scelto di ricordare del proprio passato e in che modo hanno preservato, trasmesso e rivissuto questo passato.
Il popolo ebreo è il popolo della memoria per eccellenza. Nell’Antico Testamento, in particolare nel Deuteronomio, si richiama il popolo al dovere del ricordo e della memoria. Essa significa prima di tutto essere riconoscenti a Yahweh, non dimenticando ciò che egli ha fatto per il suo popolo. L’ebraismo è dunque una “religione del ricordo” in quanto gli atti divini di salvezza, come ha scritto Jacques Le Goff, sono situati nel passato e formano il contenuto della fede e l’oggetto di culto, ma anche perché il libro santo da un lato, la tradizione storica dall’altro, insistono, in alcuni punti essenziali, sulla necessità del ricordo come momento fondamentale. Yerushalmi, professore di storia ebraica alla Columbia University, scomparso nel 2009, cerca di spiegare come mai, pur essendo così impregnato di senso del passato, il giudaismo abbia escluso al proprio interno una storiografia degna di questo nome, e come mai agli storici non sia stato demandato il compito di custodire e di tramandare questa memoria. Zakhor in ebraico significa “ricorda” e al ricordo storico sono dedicate le pagine del libro. La questione è solo apparentemente una questione interna ad un popolo, dato che la tesi di Yerushalmi ha direttamente a che fare con il fascino che oggi sembra emanare dall’ebraismo.
L’autore sottolinea come l’ingiunzione biblica di ricordare abbia ben poco a che fare con la curiosità relativa alle vicende del passato. Il flusso della memoria per gli ebrei scorre prevalentemente lungo due canali: quello del rito e quello della recitazione. In secondo luogo, la temporalità si presenta come una retta ai cui estremi stanno il passato biblico, conosciuto attraverso i testi sacri, e il futuro messianico. La zona intermedia, scrive lo storico, rimane oscura e indeterminata. Così nel passato gli affari dinastici degli imperatori romani sono completamente ignorati, mentre nel Medioevo ciò accade alle diverse persecuzioni subite dagli ebrei. Le esperienze storiche del popolo ebraico vengono lette alla luce di un conflitto strutturale ricorrente: Egitto/Gerusalemme,Esodo/Esilio. Naturalmente ciascuna di queste polarità reca con sé ulteriori drammatiche vicende, sempre ricondotte allo schema iniziale. Yerushalmi esamina la storiografia ebraica tra il Medioevo e il Rinascimento arrivando alla conclusione che esiste un vero e proprio pregiudizio ebraico nei confronti della storia e della sua narrazione. Non a caso il capitolo finale del libro, nato da una serie di conferenze, s’intitola Il disagio della storiografia. La possibilità di una storiografia ebraica resta legata per Yerushalmi alla secolarizzazione della storia ebraica. A differenza di quanto è accaduto per le “altre storie”, essa è refrattaria a ogni secolarizzazione perché è sempre stata ritenuta sacra. Naturalmente Yerushalmi parteggia per la secolarizzazione dell’ebraismo, e questo è in palese contraddizione con le sue sorgenti più antiche, ed è destinato a incontrare evidenti resistenze all’interno del tradizionalismo ebraico.
L’autore muove alcune critiche ai critici ebraici dello storicismo, Franz Rosenzweig in testa. Yerushalmi interpreta La stella della redenzione (1921) il libro di Rosenzweig, filosofo ebraico, come il rifiuto della dimensione storica quale categoria fondamentale per la comprensione del giudaismo. Rosenzweig sostiene che “il mondo ebraico ha da tempo raggiunto una condizione statica, grazie all’osservanza di leggi atemporali che l’avrebbero sottratto al flusso della storia: a differenza della cristianità, ‘eternamente in cammino’, il popolo ebraico sarebbe il solo a sperimentare l’eternità nel bel mezzo della storia”. Qui stia il fascino attuale dell’ebraismo. Viviamo in tempi di radicale crisi della filosofia della storia, tempi definiti da alcuni “post-storici”, di messa in discussione delle Grandi narrazioni, per usare un’espressione di Jean-François Lyotard in La condizione postmoderna (1979). L’ebraismo, al contrario, dimostrerebbe come sia possibile vivere dentro la storia, fino a patirne direttamente le conseguenze, pur non identificandosi completamente con la storia; porta fin dentro il Moderno quel sapere narrativo che si riteneva scomparso, o affidato a ignote tribù ai margini delle terre civilizzate. L’ebraismo non si è secolarizzato completamente, neppure con l’edificazione dello Stato d’Israele. La sua identità più profonda appoggia su questa capacità narrativa.
Come scrive nel suo celebre libro Lyotard, “con uno sforzo di immaginazione semplificatrice, possiamo supporre che una collettività che fa della narrazione l’archetipo della competenza, non ha bisogno, contrariamente a ogni aspettativa, di doversi ricordare del passato. Essa non trova la sostanza del suo rapporto sociale esclusivamente nella significazione dei racconti che narra, ma anche nell’atto stesso della loro recitazione”. La questione che si pone all’ebraismo, ma in una certa misura anche al cristianesimo – inteso come fede di una comunità trasmessa attraverso la narrazione del fatto salvifico di Gesù Cristo – è quella del declino della memoria collettiva nei tempi moderni. Non a caso è proprio uno storico ebraico a sollevare questa questione, diviso drammaticamente tra un sapere professionale, che nasce dalla secolarizzazione della propria fede, e l’antica credenza dei padri. Una lettura indispensabile per ragionare sul nostro presente.
Alleghiamo qui in PDF l’introduzione di Harold Bloom al volume di Yosef Hayim Yerushalmi.