Una dichiarazione di rottura con la sinistra / Žižek e l'antifascismo necessario

31 Maggio 2016

Il pamphlet di Slavoj Žižek, La nuova lotta di classe. Rifugiati, terrorismo e altri problemi coi vicini, ha sicuramente un merito. Alla domanda cruciale – “di che cosa abbiamo bisogno, dunque, in una situazione così disperata? Che dovrebbe fare l'Europa?” ­– dà una risposta che, se è confusa nel versante propositivo, è assolutamente precisa nella sua pars destruens. Ciò di cui l'Europa non ha più bisogno è la sinistra. La sinistra è bête, la sinistra è stupida perché con la sua retorica umanitaria è divenuta un'inconsapevole alleata dell'ondata xenofoba e fascista che sta sommergendo l'Europa. Žižek non lo cita, ma sembra qui avere in mente un passo del seminario di Jacques Lacan sull'Etica della psicoanalisi in cui lo psicoanalista francese distingueva destra e sinistra assegnando alla prima la palma della canaillerie e alla seconda, appunto, quella della stupidità. L'anno era il 1960 e l'Europa stava vivendo un momento altrettanto difficile, stretta com'era nella morsa della guerra fredda e ossessionata dall'incubo nucleare. Il “cynisme de droite”, spiegava Lacan ai propri ascoltatori, non è altro che una maschera della knavery mentre l' “angélisme de gauche” è solo foolish

 

 

Un'affermazione così radicale può essere ripresa oggi solo da chi abbia le carte in regola per farla, un po' come avviene con le critiche ad Israele, ormai ammissibili sui media solo se formulate da ebrei... E Žižek, essendo un intellettuale, a suo modo, “comunista”, se la può permettere. Un altro filosofo “comunista” Alain Badiou, ragionando sulla vicenda della Comune di Parigi, lo aveva anticipato (il saggio è del 2003): a differenza dei loro massacratori che si professavano buoni repubblicani, i comunardi, scrive Badiou, non erano di “sinistra”. La dichiarazione del Comitato centrale della guardia nazionale del 19 marzo del 1871 può anzi, secondo Badiou, essere così sintetizzata: “è una dichiarazione di rottura con la sinistra". "Evidentemente", continua, "è proprio questo che si è fatto pagare con il sangue ai comunardi”. Il comunismo, del resto, come metodo scientifico, si era generato proprio da una critica radicale del socialismo umanitario e utopistico. Anche il comunismo marxiano, insomma, non è “di sinistra”. Il comunismo per Marx non è nient'altro che la filosofia classica tedesca realizzata. Karl Marx non faceva sconti ai suoi colleghi della sinistra hegeliana: ai suoi occhi speculativi rappresentavano la più compiuta espressione dell'ideologia borghese che andava smantellata. 

 

Un'analoga dichiarazione di rottura con la sinistra è necessaria oggi per una triplice serie di ragioni: per dare una risposta positiva all'emergenza profughi, per combattere il terrorismo islamista e per tacitare il populismo xenofobo. Le tre questioni vanno insieme ed hanno una soluzione comune. La sinistra paternalista, relativista, tollerante fino al giustificazionismo è, secondo Žižek, parte del problema e non la sua soluzione. Di fronte a una simile tesi, si possono quasi sentire gli ululati di approvazione provenienti dal fronte avverso, quello della canaille: Žižek avrebbe finalmente capito che con il “buonismo” non si va da nessuna parte. Ed effettivamente non sono pochi i passi del libro che potrebbero legittimare una lettura cinica del pamphlet, ma le cose non stanno affatto così perché l'urgenza di Žižek è un'urgenza di tutt'altra natura, anche se la sua portata non è ben chiara nemmeno al filosofo sloveno. La definirei piuttosto un'urgenza antifascista. La dichiarazione di rottura con la sinistra è, insomma, necessaria perché il fascismo minaccia l'Europa dentro i suoi fluidi confini come fuori da essi. 

 

Žižek è ancora timido a questo proposito. Fa le pulci alla sinistra “empatica” delle anime belle, per lo più borghesi dei ceti medio-alti che vivono situazioni di privilegio moraleggiando sul mondo (per intenderci, in Italia sarebbe la sinistra PD) e risparmia i compagni di strada della sinistra radicale di cui ammira, dice, il coraggio che nascerebbe dalla disperazione (i vari Podemos, Syriza, la sinistra dei “beni comuni” ecc.). E quando deve indicare l'avversario da combattere chiama in causa il “capitalismo globale” di cui il fascismo sarebbe un'appendice. Fosse stato però fedele fino in fondo alle proprie premesse filosofiche, avrebbe dovuto lasciare perdere anche questa residua distinzione perché a caratterizzare in toto la sinistra in Europa è l'idealismo, non quello lucido e spietato di un Hegel, filosofo assai poco di sinistra (come Marx del resto...), ma un idealismo morale, verboso, massimalista e in ultima analisi impotente. 

In una poesia Brecht racconta dello sdegno che le esitazioni dello scalatore sulla montagna suscitano negli spettatori a fondo valle. Per loro, che si limitano ad osservare e a giudicare, la linea retta resta ovviamente la via più breve tra due punti, ogni arretramento è un tradimento e non un indiretto avvicinamento alla meta richiesto dalla situazione...

 

Mi verrebbe da dire che la sinistra, dopo la fine del comunismo, è andata a occupare stabilmente quella posizione privilegiata. Ridotta a grande movimento di opinione, per lei valgono i principi mentre ogni azione è già di per sé, in quanto azione, una corruzione... La sinistra osserva, giudica, critica e, soprattutto, si oppone indignandosi. “Nessuno deve essere escluso”, si dice, ad esempio, e ci si compiace della propria grandezza d'animo. Si consideri, però, la conclusione che si deve infallibilmente trarre da quella premessa universale: ogni inclusione, comunque essa avvenga, essendo per sua stessa natura parziale (una inclusione di tutto non sarebbe, infatti, inclusione di niente), risulta ancora più che mai soltanto una esclusione mascherata, peggiore, se possibile, a causa della sua “ipocrisia”, del filo spinato messo a difesa di un confine. Eppure proprio di inclusione parziale c'è bisogno. C'è bisogno, cioè, di “governo” se, brechtianamente, si assume il punto di vista del profugo – e non quello universale della morale – come principio regolativo dell'azione politica europea. Niente è però più inviso alla sinistra della “impossibile” arte di governare (così la definiva Freud, associandola all' educazione e cura).

 

Se Angela Merkel tenta la più grande operazione di inclusione e integrazione del dopoguerra europeo, facendo entrare in Germania centinaia di migliaia di profughi siriani e assicurando loro livelli minimi di sussistenza (e di salario), si dirà che lo fa per dare forza-lavoro all'industria tedesca e pensioni pagate per i propri anziani. Se le burocrazie europee (per definizione “cattive” e al soldo del capitale, ma sarà vero?) fanno appello all'acquis di Schengen che garantisce la libera circolazione, vi si scorge solo la riduzione dell'essere umano a merce... Quando si tratta di denunciare le cause ultime di un fenomeno che la destra chiama invasione e che la sinistra considera un banco di prova per l'umanità dell'Europa, le diagnosi tendono a sovrapporsi fino a diventare indiscernibili. C'è un pensiero unico del capitale mondiale, ma c'è un pensiero altrettanto unico della critica del pensiero unico (e Žižek quando si avventura nella disamina delle cause non si discosta, ahimé, dal coro).

 

In Italia, poi, l'ostilità ad ogni azione che provi a governare il cambiamento raggiunge livelli parossistici. Ciò si deve probabilmente alla storia di un paese che è entrato nella modernità dalla porta della Controriforma cattolica e non ne è mai più uscito. Si formano così fronti compatti che mettono assieme le più svariate ed eterogenee forze tutte accomunate dalla purezza di un imperativo categorico che non tollera mediazioni. Essenziale è infatti che non si faccia, perché l'impotenza, segno indiscutibile di purezza, regni sovrana. Naturalmente nel grembo di questa rivendicata purezza morale covano tutti i peggiori inciuci – le acque eternamente stagnanti sono le più putride – ma la critica morale della politica (la celebrata “indignazione”), nella quale sembra ormai esaurirsi il senso della sinistra, permette ad una società civile intimamente corrotta di scaricare su di un “altro” immaginario (i famigerati “politici”) la responsabilità del proprio stato di abiezione.

 

Žižek è prudente anche nell'identificare il nemico con cui l'Europa deve confrontarsi. Meglio infatti dargli il volto abbastanza generico del “capitalismo globale”, le cui malefatte sono accertate e universalmente stigmatizzate (basta puntare il dito sulle “banche”), piuttosto che chiamarlo con un nome proprio, cosa che obbligherebbe ad un'azione mirata, mentre di fronte al “capitalismo globale” non resta altro che la rassegnazione impotente o quel volontarismo rivoluzionario votato al fallimento che ancora seduce il romantico Žižek. Se il nemico infatti diventasse riconoscibile bisognerebbe scendere in campo e lottare, stabilendo alleanze con tutti i suoi nemici, per quanto poco gradevoli d'aspetto essi siano (anche il “capitalismo globale” potrebbe stare allora dalla parte giusta, perché non è detto che anch'esso non abbia tremato di fronte a qualcosa che, da lui generato, sfugge al suo controllo). 

 

Per il nemico azzardo il nome, invero un po' retrò, di “fascismo”. Il fascismo è una categoria politica che sembra irrimediabilmente legata a un periodo storico determinato. Appiccicarla all'Isis pare un anacronismo, ritrovarlo agente nei populismi xenofobi sembra poi una scorciatoia per ridurre al noto l'ignoto. Fare poi dell'antifascismo, come auspico, la famosa “radice spirituale” della stessa Europa, a dispetto di religioni secolari e di illustri movimenti filosofici di razionalizzazione e laicizzazione (l'illuminismo ecc.), suona quasi come una bestemmia. Eppure una dichiarazione di rottura con la sinistra ha senso se e solo se assume come stella polare e principio regolativo di ogni azione l'antifascismo. Altrimenti è una riproposizione di quel “né di destra né di sinistra” che, come tutti sanno, vuol dire solo “di destra”, e, spesso della peggior specie. 

 

È il fascismo che tiene insieme islamisti e razzisti nostrani, omofobi e sessuofobi di varia e opposta natura. Il discorso che Hilary Benn ha tenuto alla House of Commons il 2 Dicembre 2015 in occasione del voto per l'intervento in Siria è da questo punto di vista esemplare. Per essere un buon europeo e un vero antifascista Benn si è reso conto che doveva prendere congedo dalla sinistra idealista del suo amico Corbyn. Proprio come il filosofo Žižek, Benn si è chiesto di che cosa abbiamo bisogno e che cosa dobbiamo fare e ha risposto che per essere all'altezza di una situazione disperata bisognava tracciare una linea che andasse dalle Brigate Internazionali che negli anni Trenta combatterono Franco alla resistenza europea al nazi-fascismo e di lì, senza soluzione di continuità, arrivasse all'oggi della guerra all'Isis e della resistenza al neofascismo populista: “ci troviamo ad affrontare dei fascisti (…) Quello che sappiamo dei fascisti è che devono essere sconfitti”. L'antifascismo sarà forse retrò ma ci fornisce quello che più di manca. Ci offre un criterio per distinguere, per valutare e per agire in modo efficace in situazioni determinate, un criterio, per giunta, che permette di serrare le fila raccogliendo dalla stessa parte della barricata anche quanti praticamente hanno interessi materiali differenti.  

 

 

Il relativismo culturale, che è la sola posizione filosofica della sinistra europea, non è invece altro che un'attiva paralisi sublimata in morale. Ci permette di opporci, è vero, ma impedisce di agire. La sua magia negativa consiste nel dissolvere uno dopo l'altro, come neve al sole, tutti i criteri che renderebbero possibile l'azione, prima fra tutte l'azione più difficile e più necessaria alla comunità politica, quella del “governare”. L'antifascismo, al contrario, accende una luce e ci mostra una direzione. L'antifascismo è, infatti, un metodo per orientarsiÈ una specie di forma a priori dell'azione politica dalla quale discendono i contenuti dell'azione stessaNon presuppone una morale ma la realizza nella prassi (e a livello di prassi tutta una serie di problemi apparentemente insolubili, ad esempio i problemi relativi al conflitto tra sistemi valoriali, si dissolvono come pseudo-problemi). 

 

Non a caso l'antifascismo è stato il vero fondamento dell'edificio europeo come della costituzione dell'Italia repubblicana, quando si trattava di mettere d'accordo forze politiche ideologicamente inconciliabili. In quanto metodo, l'antifascismo non ha perciò bisogno della stampella dell'utopia, che è invece l'ultima parola evocata da Žižek nel suo pamphlet, a riprova del carattere sfrenatamente romantico del suo pensiero politico. Non ne ha bisogno perché è pragmatico, democratico e riformista, perché crede nella virtù dell'azione, soprattutto in quella difficilissima del governare, proprio come avrebbe dovuto fare, secondo Nietzsche, una “grande politica” capace di restituire ad una Europa malata di nichilismo una “grande salute”.

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