Alberto Giacometti: "Non può esserci riuscita"
Sono trascorsi cinquant’anni dalla morte di Alberto Giacometti. Pubblichiamo, per ricordarlo, una conversazione con Jean-Marie Drot, trascrizione dal film Giacometti un homme parmi les autres trasmesso il 12 novembre 1963, realizzato da Jean-Marie Drot, pubblicata sul numero 11 della collana «Riga» a lui dedicato (a cura di Marco Belpoliti e Elio Grazioli, 1997). Traduzione di Elio Grazioli.
Giacometti nel suo studio, ph. Ernst Schei
Giacometti, entrando nel suo atelier si è al tempo stesso infastiditi e rassicurati. Si teme di disturbarla. Si sente chiaramente che è lo studio di qualcuno che si nasconde un po’. E poi, rassicurati, perché dato che lei continua a lavorare anche in nostra presenza, allora questo un po’ rassicura.
Io non mi nascondo; non mi nascondo in particolare, no, ma per quel che riguarda il lavorare in vostra presenza, ne approfitto, e mi serve tanto più perché comincio, riprendo un lavoro che non avevo ripreso in mano da tempo. Non so perché, il fatto di essere filmato mi riporta a questo lavoro, dunque ne approfitto. In ogni caso sono io che ne approfitto di più, della seduta.
È un po’ un gioco di pazienza.
Che cosa?
Il suo lavoro.
No, niente affatto, è piuttosto una mania.
Una mania?
Sono piuttosto maniaco, credo. Niente pazienza, non è volontariato, è mio malgrado, e mi chiedo se col pretesto di lavorare non sia semplicemente una certa mania che si ha, come altre manie, di pasticciare con della terra, senza che questo dia del resto molti risultati. Il risultato… non è così, comunque.
Cosa significa: non è così, comunque?
Sì, è una mania, ma allo stesso tempo c’è comunque la volontà di arrivare a qualcosa, piuttosto per disfarsene. Se faccio della scultura è per finirla, per farla finita con la scultura al più presto.
E tuttavia ricomincia sempre.
Perché non riesco, ricomincio. Fino ad ora non ho ancora cominciato, di fatto. Non sono mai riuscito, in fondo; allora, una volta che fosse cominciata, sarebbe praticamente finita. Credo. Non vorrei passare tutta la vita a fare questo, facendo scultura perché, insomma, ho cominciato a fare della scultura perché era esattamente il campo in cui capivo meno. Allora, di fatto, bisognava passare oltre, e fare altro che mi convenisse di più; ma non potevo sopportare che questo terreno mi scalzasse del tutto; dunque bisognava fare della scultura, in fondo per sbarazzarsene: speravo tanto di capire in fretta abbastanza da poter passare ad altro. Di fatto non ho ancora capito niente, quindi sono obbligato a insistere; ma insomma non ho scelta.
Dunque, per lei, non c’è mai stata la sensazione di una riuscita?
Non può esserci riuscita, perché realmente cosa possa significare oggi la scultura e a cosa corrisponde non ne so ancora niente; fino ad oggi sono stati tentativi falliti, ricerche, non è stato fare della scultura, è un tastare il terreno per trovare cosa si può farne.
E tuttavia, Giacometti, quando la si guarda lavorare, si ha un po’ l’impressione che vi sia una sorta di gioco tra le sue mani e i suoi occhi, un gioco continuo; si sorvegliano gli uni e gli altri.
Sì, poiché è l’occhio che sorveglia la mano.
O la mano che sorveglia l’occhio?
O la mano che segue l’occhio; entrambe le cose.
E si ha l’impressione che precisamente lei sa dove va.
No, non lo so affatto, so – è del tutto contraddittorio – so vagamente quello che vorrei riuscire a fare.
Mira a qualcosa?
Sì, e in fondo ci vado, al tempo stesso, senza riflettere.
Sì, dà l’impressione di un gesto istintivo.
Sì, quasi meccanico. Sì, so, so press’a poco cosa occorrerebbe che facessi per poter cogliere la mia figura. E allora devo sempre andare dall’alto in basso e dal basso in alto, no?, guardare l’insieme; bisognerebbe finire col fissarsi su un dettaglio, su un piccolo dettaglio, e riuscire a trovare una soluzione, ma insomma fino ad ora non ci sono riuscito. E insomma, forse non sono affatto uno scultore, ho l’impressione di non avere il senso dei volumi; no, quando guardo questa figura di fronte mi è difficile immaginarla di profilo, quando la guardo di profilo dimentico il davanti; dunque mi è molto difficile vedere l’oggetto nello spazio. Guardo un profilo e dimentico il davanti… cioè: la scultura, in fondo, la scultura occidentale greco-romana, diciamo, sempre, quella che vuol fare la testa così com’è, vorrebbe farla com’è, è la scultura più astratta e più costruita; la scultura negra, dove si fanno grandi teste piatte, - o quella dell’Oceania – è molto più vicina alla visione che si ha realmente del mondo, più vicina di quella greco-romana, ma la si è fatta diventare… si è rovesciata la cosa: ci si immagina che una testa assomigli soprattutto a una scultura greco-romana, e che la scultura africana o dell’Oceania sia inventata di sana pianta, vero? … Qui mi perdo… Del resto non so più perché dico queste cose, da dove sono partito…
Quando fa un disegno si ha ancora l’impressione che cerchi di sapere ciò che si nasconde nella testa che disegna.
Il problema è lo stesso, ma c’è una differenza: se lavoro a memoria come ora o se lavoro dal vero.
Si ha l’impressione che il suo modello non sia soltanto un guscio.
È sola apparenza, ma per cogliere l’apparenza c’è comunque tutta una costruzione, una scultura; non posso disegnare i suoi occhi come la bocca o il viso: quello che colpisce nel vivente… non posso realizzare, e disegnare, senza aiutarla a raggiungere un po’ la struttura di tutto il cranio; bisognerebbe quasi indovinare attraverso la superficie, indovinare la struttura del cranio, vedere il cranio, ciò che del resto vediamo.
E al tempo stesso sapere con chi si ha a che fare.
Certo. Lei, la conosco… Insomma, non conosco più nessuno ma conosco tutti, e faccio delle confusioni abominevoli… ma, detto questo, quando la vedo la riconosco, ma non so chi sia di fatto… io sarei del tutto incapace di disegnarla a memoria, malgrado l’abbia vista diverse volte.
Esiste chi, Picasso per esempio, ha il genio di vedere le caratteristiche di ogni testa, di qualsiasi animale; io, assolutamente no, ovvero: la riconosco, non so come, ma se posa per me, dopo cinque minuti che posa per me, diventa per me una totale sconosciuta, cioè non è più per niente la persona che credevo di conoscere e insieme è perfettamente ignota, diventa perfettamente ignota, non so più con chi ho a che fare. Dunque, non ha più nessuna caratteristica particolare, perché tende a diventare, in quanto particolare, la testa generale, la testa di tutti, e al tempo stesso necessariamente uno sconosciuto… il che fa un effetto strano, perché succede con le persone più familiari, succede con mia moglie: ho finito col non riconoscerla più; ma il male è che questo si ripercuote sulla vita. I bianchi, la razza cui appartengo, li vedo, ho l’impressione che finisco col vederli come si vedono i cinesi o i negri, no? Lei fa sfilare dieci cinesi, poi uno, e non sa qual è; a me a forza di lavorare in questo senso, questo capita con tutti, il che è molto fastidioso.
Ognuno diventa tutti.
Ognuno diventa tutti, sì, tutto assomiglia a un particolare, ma il particolare diventa uno sconosciuto; infine, diventa una specie di… ho l’impressione che tutto si ingarbugli, una specie di spirale…
Del resto, quando si passa da un disegno a un altro, si ha la curiosa impressione di non aver abbandonato il primo, si ha l’impressione che tutto comunichi.
È sempre lo stesso.
Sempre lo stesso?
È sempre lo stesso. Posso passare tutti i giorni della vita con lo stesso modello, e a vederlo nello stesso modo – il che faccio del resto ogni volta. Mio fratello ha posato tutti i giorni dal 1935 al 1940, tutti i giorni, tutti i giorni. Un modello… c’è stato un amico che ha posato per tre anni, tutte le estati, tutta la giornata… cioè vedevo solo lui… e ho un modello che posa la sera – l’ha visto, là, che posa ora – da due anni e mezzo, regolarmente: è qui alle nove, fino a mezzanotte – l’una; credo che in due anni ci siano state quattro o cinque sere in cui non abbiamo lavorato. Ma non faccio altro che cominciare. È come se la realtà fosse nascosta sotto i veli che leviamo a poco a poco; ma ce n’è sempre un altro.
Come una cipolla che sbucciamo.
Esattamente, e non arriviamo mai al cuore della cipolla. Mai.
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(Eravamo rimasti a questo punto della nostra conversazione con Giacometti, quando ci si offrì la possibilità di partire per Zurigo a vedere una delle sue più belle mostre nel museo di quella città. Là, all’improvviso, bisognava tacere, e guardare, avvicinarsi, e confrontare i ricordi della sua scultura ai ricordi vivissimi che conserviamo delle sue confidenze.)
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Giacometti l’ultima volta che ci siamo visti a Parigi stava facendo della scultura. Oggi, a Zurigo, è un po’ come un pastore che vede tutto il suo gregge, ce n’è ovunque: che impressione le fa?
Ebbene, ieri, vedendo l’esposizione, trovato tutto molto molto grazioso, momentaneamente in ogni caso troppo bello. Allora, questo mi inquieta un po’.
E perché mai?
Perché se veramente restassi così contento come ero ieri, sarebbe in contraddizione con quello che penso in generale, no? O non posseggo più giudizio critico, o sono caduto in uno stato tale che non mi resta più niente da fare.
In questa sala è comunque un po’ tutta la sua vita quella che vede.
Sì, ma insomma, in un certo senso, non è neppure cominciata.
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In un certo senso, non è ancora cominciata… Frase enigmatica, per quel che riguarda una così grande profusione di opere: modestia, pessimismo, humor, forse i tre insieme. Storicamente, cronologicamente, sfogliando il catalogo, sapevamo che quelle sculture, per esempio, ci riportavano al periodo surrealista di Giacometti, poco dopo il suo arrivo nelle ore calde di Montparnasse degli anni 1920-25.
Quando sono arrivato, in fondo era alla fine. E inoltre, per uno straniero, non c’è niente di più difficile che entrare in contatto con dei francese, vero? È un muro. Sono arrivato a Parigi, ho conosciuto quelli che stavano alla Grande-Chaumière, che erano tutti stranieri salvo uno, del resto, che vedevo molto poco, e ci sono stato fin verso il 1930 senza conoscere un francese, sì, 1928, e ancora… come un muro! Allora ci si sente un po’ come se si venisse da fuori, no? Allora ho cominciato a vedere yugoslavi, perché lavoravamo insieme alla Chaumière, dopo gli svedesi; infine, sono vissuto senza avere molti contatti, insomma, mi sentivo molto solo, e non mi lamentavo. Poi, quando ho conosciuto – perché lavoravo e mi tenevo informato –, quando ho conosciuto Masson a un’esposizione, lo stesso giorno ho conosciuto gran parte degli amici che ho ancora oggi, ovvero Bataille, Leiris, Desnos, Queneau e molti altri, vero?, e d’un tratto era come se fossi sempre stato qui. In fondo, anche la vita con le persone qui cominciava intorno al 1928-30, no?
Era l’epoca surrealista?
Era già la fine. Io comunque avevo voglia di conoscerla, erano le persone che mi interessavano di più a quel tempo, e poi avevo fatto delle sculture mobili, delle costruzioni in legno, e avevo già esposto con Max Ernst e Arp alla galleria Pierre e Breton e Dalì le videro e pensarono che era proprio scultura surrealista. Poi al tempo stesso c’erano molte cose che me ne allontanavano: se vuole, non sono stato mai completamente…
Integrato?
Integrato. Così la situazione è esplosa
Alberto e Annette Giacometti nel 1950
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Quello che mi colpisce, Giacometti, in una tale esposizione ai giorni nostri, è la sua ossessione per il volto, la sua ossessione per la figura umana; è piuttosto rara, oggi.
Forse. ma si può parlare di ossessioni? Insomma sempre, da sempre, la figura umana mi ha interessato più di qualsiasi altra cosa, al punto che ricordo quando da giovane, o forse già a Parigi, mi capitò di fissare talmente le persone presenti che non conoscevo, fino a metterle a disagio, come se non vedessi quello che volevo vedere, come se tutto fosse talmente sfocato che non si riesce a decifrarlo, quello che si vuole vedere, quello che si vede.
Lei dice “decifrare”: è ben qui che credo che l’ossessione si manifesti, molto ben concentrata nel suo modo di rappresentare il volto che lei cerca sempre di decifrare.
E fin da quel primo momento è questo che mi interessava di più, ma, nel 1925, ero convinto dell’impossibilità totale di dare anche approssimativamente la visione che avevo; e così abbandonai, pensavo per sempre, e poi mio malgrafdo venni di fatto riportato a cominciare lo stesso lavoro, verso il 1935, e da allora non è più altro che un lungo esercizio per cercare di sapere cosa vedo.
Dunque, per me, la figura umana non è un pretesto per fare una bella pittura o una bella scultura, ma la tela, o la materia, non sono che mezzi per cercare di rendermi meglio conto di ciò che vedo; solo il soggetto conta.
Non ci mette nessuna intenzione psicologica o…?
Assolutamente nessuna. Per me si tratta di vedere come la testa sta nello spazio, quindi non penso né all’interiorità della persona né alla sua personalità. È chiaro che questo conta, ma non può contare per me durante il lavoro. Si tratta solo di mettere le cose più o meno a posto. Per me l’apparenza e l’essenza sono la stessa cosa. Si potrebbe anche dire che l’apparenza è l’essenza stessa.
Si potrebbe dire che l’interno e l’esterno per lei sono la stessa cosa.
Rigorosamente la stessa cosa.
Si potrebbe dire anche che la sua ricerca o la sua avventura è molto particolare, nel momento in cui la pittura diventa sempre più una ricerca di forme, una ricerca di macchie.
Sì, ma oggi non potrebbe essere altro che ricerca di forme, di macchie, credo, nell’insieme. A partire dall’Impressionismo si va dritti fino al Tachismo, non c’è discontinuità. Tutto questo per molti motivi. E io mi trovo a essere assolutamente in opposizione con tutta questa visione, perché, per me, non si tratta di fare delle belle sculture o delle belle pitture, o di esprimere i miei sentimenti, la mia personalità, attraverso la pittura, attraverso l’arte; per me l’arte non è che un mezzo per cercare di sapere come vedo il mondo esterno; dunque per me è proprio il soggetto a contare, no?
E tuttavia lei capisce molto bene che la pittura intorno a lei ha subito l’evoluzione che ha subito?
Non poteva non subire quell’evoluzione, doveva arrivare fino a qui, necessariamente, a causa di ogni sorta di cose che sono accadute circa allo stesso tempo, si pensava che sarebbe stato catastrofico per l’avvenire soprattutto, credo, la scoperta della fotografia e del cinema e della televisione, e a causa della scoperta delle arti arcaiche e…
Primitive?
Primitive no, esotiche. Tutto questo ha comportato una sorta di svalorizzazione del mondo esterno, per cui si crede talmente alla verità della rappresentazione fotografica che si pensa che non sia più necessario fare della pittura. È talmente chiaro che a partire da quel momento già gli impressionisti non facevano quasi più paesaggi, e sempre più si è lasciato da parte ogni rappresentazione del mondo esterno. Tutti sono press’a poco d’accordo che la fotografia dà un’immagine sufficiente del mondo esterno. Io ho ricominciato a lavorare dal vero il giorno in cui c’è stata una specie di nuova visione del mondo esterno per cui non ho più creduto alla visione fotografica.
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Giacometti si ha l’impressione anche che i suoi personaggi siano molto fragili, molto vulnerabili.
Non particolarmente.
Minacciati forse?
Sì, forse, forse è per questo che sarebbero un po’ somiglianti. Ho sempre l’impressione o la sensazione della fragilità degli esseri viventi, come se avessero da fare in ogni momento, come se occorresse un’energia formidabile per restare in piedi, momento per momento, sempre con la minaccia di crollare. Questo lo sento ogni volta che lavoro dal vero.
Il che è anche un modo di dire che li sente minacciati dalla morte.
Certo, evidentemente, è l’unica minaccia, quella della sparizione.
E del resto stamattina mi raccontava che un giorno l’ha vista direttamente ed è stato qualcosa di brutale.
Penso che questa avventura che le raccontavo stamane abbia un ruolo.
Determinante?
Un grandissimo ruolo, probabilmente.
Ciò che mi ha colpito è che diceva, mi diceva che per lei la morte si è mostrata con una certa solennità.
Non l’avevo mai vista prima.
E ha visto che era qualcosa di terribile.
Non avevo mai avuto questa sensazione di fragilità, perché i pochi momenti che avevo visto avevano l’aria di capitare… insomma non avevo mai visto la morte da vicino, dunque, come se la vita non avesse più forza o persistenza, o permanenza, no, non trovo la parola giusta, ma insomma come se la morte fosse qualcosa della vita, ancora valorizzante la vita, qualcosa che le dà questo piccolo lato solenne, dunque come se si avesse il tempo di prepararvisi. E quando ho constatato come poteva accadere, nello stesso momento, nel momento in cui ho visto il modo in cui questa persona è morta, no, nell’istante stesso, tutto era anche minacciato, no? Lo sentivo a tal punto che quella notte non osavo più addormentarmi; dormivo, mi ritrovavo con la bocca aperta, come il morto; allora, per una sorta di terrore di scrollare la testa, mi svegliavo e facevo di tutto per non dormire più, e non osavo più stare al buio, come le dicevo stamattina. Poi, sono passati quarant’anni da allora, non ho mai più dormito una sola notte al buio, cioè ho sempre la luce accesa fino al mattino, come se il buio…. È infantile, è chiaro, vero? So bene che non si è più minacciati al buio di quanto lo si sia alla luce del sole.
Ma posso chiederle anche se infine il suo ruolo, e il suo ruolo di scultore, di pittore, di artista, non sia appunto quello di cercare di salvare il modello da questa morte che lo minaccia?
In un certo senso, credo che si faccia scultura o pittura o che si scriva, qualsiasi attività del genere, sempre per dare una certa permanenza a ciò che fugge, no?
Il che fa sì che insomma non cerca soltanto di vedere ciò che vede, ma cerca anche di dare a ciò che vede una sorta di permanenza, una sorta di eternità quasi.
Alla base c’è sicuramente questo, ma, sì, il motore per cui si lavora è certamente per dare permanenza a ciò che passa.
Alberto Giacometti
(Dare permanenza a ciò che passa… Questa frase d’un tratto ci offre la chiave per avvicinarci a questa natura morta di mele, dove a poco a poco diventa evidente come Giacometti ha dipinto questi frutti esattamente come dipinge il viso umano, con la stessa volontà di sospendere l’usura del tempo, con lo stesso desiderio volontario di darci una rappresentazione di un mondo esterno che il suo sguardo salva in qualche modo dalla putrefazione, dalla morte. Un po’ come se il tocco del suo pennello trasformasse l’oggetto fragile in un bronzo inalterabile.)
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È per questo che si fanno sculture di esseri umani o di animali, difficilmente si fanno sculture di sassi, anche se un sasso passa esattamente per una persona, naturalmente; ma, poiché qui sta il motore profondo, penso che lo sia proprio per chiunque fa qualcosa, non soltanto per chi fa scultura o fa arte, anche per chiunque parla e racconta una storia. Abbiamo, tutti hanno bisogno – mettiamo che faccia un viaggio, che organizzi una serata, di raccontarlo, no? Il fatto di raccontare è già ricrearlo, cioè fino a un certo punto tutti fanno dell’arte, no?, e inventano storie. Se il bisogno di conservare le cose è più grande, cioè se si è più sensibili alla fragilità, si è obbligati a scriverlo, se lo si scrive, se si fa pittura, o musica, ma insomma, il fatto già di raccontare è già dare veramente la realtà. Si passa la giornata a ricreare i minimi momenti, quando è bello, veramente facendo.
Per questo è un pittore della memoria.
E poi, allora, c’è il caso formidabile, il caso di tutti i grandi capi di esercito: tutti che sia Cesare, Napoleone o altri, a loro non basta combattere battaglie, vincere battaglie, agire nella vita, rovesciare il mondo; quando possono scrivono le loro memorie, come se avessero paura che se non scrivono tutto venga dimenticato.
E non sia successo.
Cesare esiste più attraverso il De bello gallico, no?, che per le sue gesta. Il bisogno è sicuramente quello di dare sempre permanenza all’esistenza. Ma per me la questione non si pone più, perché, dato questo, io cerco… ho questa facoltà… è chiaro, ma allora la difficoltà di fare prende il primo posto, dunque, non si tratta più di fare della scultura per dare una permanenza alla sedia, si tratta semplicemente di vederla.
Allora è evidente che c’è un malinteso tra il lavoro che faccio e chi lo guarda: anche se io abbandono una cosa – del resto la abbandono sempre a metà strada, o a un quarto, o al millesimo del percorso -, quale sia il motivo, dal momento che la lascio esistere, che la lascio fondere, la lascio posare, per chi guarda è proprio una cosa finita, no? Non posso andargli a dire: “Ma no, non è questo, non è finita”. No, dovrei non esporla. Dunque, il modo: non posso vedere le cose nello stesso modo in cui guarda lui, lo spettatore. È qui che è tutto un malinteso.
Ancorché, guardando i suoi uomini eretti infine le grandi figure che sono le ultime cose che ha fato, si ha comunque l’impressione d’un tratto di una specie di trionfo, insomma, sul tempo; è l’uomo eretto che non trema, che non è minacciato.
Come posso rispondere a questo?
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(Come si può rispondere? Forse con queste tele, che in fin dei conti ci dicono ancor più con il loro ostinato silenzio, questo silenzio tranquillo del fratello Diego, che la mano di Alberto Giacometti sospende come per miracolo, fuori dal tempo mortale. Perciò ogni pittura, ogni linea, ogni tratto, ogni tratteggio, diventano gli elementi di un’armatura infallibile. Come nelle incisioni di Rembrandt, come in tutti gli artisti che sembrano ossessionati nelle loro opere dalla fuga del tempo, una volta in più, di fronte alle tele di Giacometti ci si chiede se uno dei compiti più alti dell’arte non sia appunto di rendere immortale e durevole ciò che per natura è effimero, mortale e fragile. )
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(E ritornando ora all’insieme dell’esposizione, capiamo perché occorra del tempo, molto tempo, per seguire un uomo come Giacometti, per non deformare o tradire il suo pensiero o la sua opera, perché ci prevede da così lontano che, attraversando ancora una volta questa lunga sala popolata delle sue sculture, abbiamo all’improvviso l’impressione che Giacometti sia passato da qui molti anni prima.)
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E ora, Giacometti, che cosa accadrà?
In che senso?
Credo che sarebbe un po’ falso, alla fine di questo incontro, dare l’impressione che tutto sia finito; tutto comincia, in un certo senso.
Certo, sì.
È quello che pensa? Ho capito bene?
Ah no, no, evidentemente l’unico desiderio che ho è di ricominciare tutto quanto prima. Questo pomeriggio ho pensato che è molto utile fare un’esposizione come questa: è come tracciarci una riga sopra perché è finito, non ce ne si occupa più, e si può ricominciare liberamente.
E dice che per lei è un po’ come se guardasse sulla mappa dove si trova in questo momento?
Come, sulla mappa?
Su una mappa, quando si fa un viaggio, si guarda.
È piuttosto nel tempo, dipende piuttosto dal tempo. E allora, ci sono due teste di gesso veramente bloccate a causa dell’esposizione, mio malgrado; è là che bisogna ricominciare. Ma insomma, per me, una volta di più, tutto questo costituisce solo schizzi e tentativi, del resto non sarà mai altro che questo.
E tuttavia sente la necessità di continuare sempre.
Perché non capisco niente. Allora si crede sempre che si capirà un po’ di più. È questo che ci fa correre, è come lo zuccherino davanti al cavallo, no? Si ha sempre l’illusione di raggiungerlo.
E poi si ha l’impressione sempre dell’urgenza del tempo: troppe cose da dare, si vorrebbe almeno capirne qualcosa. Dunque, più che mai ho voglia di lavorare. Dopo, si vedrà cosa sarà. Non c’è molto di più. Ma insomma noi… comunque, potrebbe essere abbastanza diverso da tutto questo, tutto quello che ho fatto.
Crede?
Sì, ne sono quasi convinto – perché, del resto, l’ho già detto – credo – e poi ripeto sempre le stesse cose, esattamente le stesse frasi – che tutto questo è solo un brancolare intorno alla scultura e sono convinto che la scultura sia comunque tutt’altro, che bisognerebbe affrontare la cosa in tutt’altro modo, le forme, no?; che accanto a ciò che potrebbe essere veramente un po’ una scultura, tutto questo non fa che l’effetto di ferraglia, di ferraglia un po’ informe, difforme.
Forse mi illudo completamente, ma non ha importanza che io mi illuda, per sapere se è un’illusione o no bisogna provare.
E dunque lasciandola si ha quasi voglia di dirle: buon viaggio!
Perché buon viaggio?
Perché si sente che continuerà.
Lo trova strano?