Letto in un’altra lingua / Alberto Laiseca, Los sorias

13 Novembre 2019

In uno dei suoi saggi brevi e illuminanti Ricardo Piglia osserva: «L’ambizione eccessiva come ricorso difensivo. […] L’obbligo a essere geniale è la risposta al luogo inferiore e alla posizione marginale». In queste righe Piglia si riferisce ad Arlt, Marechal e Gombrowicz, però avrebbe potuto citare anche Alberto Laiseca (1941-2016), uno scrittore che proprio l’autore di Respirazione artificiale ha contribuito in maniera determinante a far conoscere. Oltre all’ambizione eccessiva e all’obbligo della genialità, in Laiseca c’è un terzo elemento: un’inflessibilità degna del Kirillov dostoevskiano. Un aneddoto del giornalista Jorge Dorio lo conferma: «Laiseca entrava nelle pizzerie di Corrientes e si faceva dare la carta su cui servivano la pizza, la usava per scrivere, non aveva nemmeno un quaderno, le biro gliele regalavamo noi. Il manoscritto di Los sorias era un enorme involto di carte di diverso tipo legate con uno spago, se lo strizzavi colava olio… Una volta io e Ricardo Ragendorfer gli chiedemmo: “Perché non lo accorci un pochino, così magari un editore te lo pubblica?”. Lui si alzò tutto infuriato e ci gridò: “Mercenari, siete solo mercenari, come tutti gli altri!”».

 

Per anni Los sorias è stato il romanzo invisibile e leggendario che sussurrava nelle tenebre, un progetto degno di Pierre Menard, vale a dire sotterraneo, infinitamente eroico e impareggiabile, un testo lunghissimo e misterioso capace di suscitare ammirazione, o quantomeno curiosità, nei lettori occasionali e parziali (amici o conoscenti di Laiseca), e terrore negli editori, che probabilmente lo guardavano «da lontano e, per prudenza, armati di una sedia e di una frusta» (Rodrigo Fresán), ma non solo: prima ancora di vedere la luce nel 1998 nelle 350 copie stampate da Simurg, questa saga epica, «enciclopedica e carnevalesca» (Ariel Luppino) di oltre 1.300 pagine, eccitava la fantasia delle persone che ne scoprivano l’esistenza. Forse davvero «I libri non esistono: ma esiste il nostro fare carne di loro» (Giorgio Manganelli). Con il passare del tempo, quell’«enorme involto di carte di diverso tipo» – quasi uno strano oggetto proveniente da Tlön – si è rivelato un irresistibile grimorio in grado di muovere forze e di aggregarle intorno a sé. 

 

 

Ma procediamo con ordine. Aiutato da Osvaldo Soriano, Laiseca esordisce nel 1976 con Su turno para morir, un hard-boiled estremo e grottesco in cui è già palese il realismo delirante che troveremo teorizzato e messo in pratica nelle opere successive: il punto di partenza è la realtà, ma una realtà analizzata (e distorta) attraverso una «gigantesca lente d’ingrandimento» costruita dal «delirio creatore». Questo delirio creatore interessa non solo il contenuto, ma anche lo stile. A poco a poco il “Monstruo” (uno dei suoi numerosi soprannomi…) diventa una figura di culto grazie a libri come Aventuras de un novelista atonal (1982), in cui uno dei protagonisti è uno scrittore, squattrinato ma intransigente in materia artistica, che ha dedicato dieci anni della sua vita a riempire le duemila pagine del primo romanzo atonale della storia della letteratura, Matando enanos a garrotazos (1982), raccolta di racconti che introduce l’assurdo universo de Los sorias, il singolare Poemas chinos (1987) in cui Laiseca borgesianamente attribuisce le sue liriche a poeti cinesi fittizi, il dittico esotico La hija de Kheops e La mujer en la muralla, rispettivamente del 1989 e del 1990, e ancora Por favor, ¡plágienme! del 1991, un saggio sul plagio che è allo stesso tempo la parodia di un saggio sul plagio, e l’esilarante e immaginoso El jardín de las máquinas parlantes (1993).

 

In quest’ultimo, peraltro, Laiseca ironizza sul suo capolavoro segreto: «Tutto il mondo dice che il Grassone è geniale e nessuno lo ha letto» (p. 60). Tali opere suscitano l’entusiasmo di colleghi noti ed esigenti (ma non bisogna incorrere nell’errore di considerare Laiseca esclusivamente uno scrittore per scrittori): Alan Pauls, Fogwill, che rende omaggio a Laiseca inserendolo in quella impertinente rivisitazione dell’Aleph intitolata Help a él, César Aira, anche lui instancabile esploratore del “romanzesco puro”, e soprattutto Piglia. Il 1998 è la volta dell’iperbolico Los sorias, opera-mondo in cui Laiseca mette in scena l’insanabile conflitto tra le dittature immaginarie di Tecnocrazia e Soria, che a sua volta rimanda a un conflitto ancora più vasto: «La battaglia terrena è uno specchio della guerra celeste» (p. 1273). La pubblicazione di Los sorias modifica radicalmente i libri precedenti di Laiseca. Ovviamente non ne cambia il valore, ma la funzione. In un certo senso Aventuras de un novelista atonal, Matando enanos a garrotazos o El jardín de las máquinas parlantes appaiono all’improvviso come parti di una mastodontica introduzione a Los sorias; ma anche i posteriori Gracias Chanchúbelo (2000), Beber en rojo (2000) e Las aventuras del profesor Eusebio Filigranati (2003) possono essere interpretati come un’appendice o talvolta un commento a Los sorias. Laiseca, al pari di Onetti o Saer, concepisce tutti i suoi libri come capitoli di un unico libro. 

 

L’edizione del 1998 si apre con un prologo in cui Piglia definisce Los sorias il miglior romanzo argentino dopo I sette pazzi (1929) di Arlt, riassumendolo così: «dieci anni per essere scritto, venti per essere pubblicato, trenta per diventare un classico». Los sorias ha in comune con I sette pazzi il fatto di essere un’opera che è molte opere assieme: il Bildungsroman convive con la sceneggiatura per un film horror della Hammer, il dramma wagneriano con l’esperpento, il dialogo platonico con il teatro dell’assurdo, la fantascienza con il romanzo erotico, il racconto fantastico con l’epica, l’apologo zen con i trattati d’arte. Critici e recensori si sono divertiti a elencare i possibili precursori: Rabelais, il Marchese De Sade, Lewis Carroll, Poe, Lautréamont, Joyce, Macedonio Fernández, Arlt, Tolkien, Kafka, Raymond Roussel, Orwell, Marcelo Fox, Thomas Pynchon. Tutti nomi plausibili, Laiseca è vasto e contiene moltitudini. Ma, per fortuna, è anche consapevole che i maestri vanno mangiati in salsa piccante, come insegna il corvo in Uccellacci e uccellini.

 

Los sorias, in fin dei conti, è «il circo, il lirismo, la poesia, l’orrore, la lotta, il gioco…», per dirla con Gombrowicz, un’opera in cui il gioco si unisce sapientemente alla profondità metafisica, per dirla con Laiseca. Il realismo delirante trova qui il suo punto di massima espressione. In Los sorias l’intero universo si manifesta sotto forma di delirio, mentre «Da lontano il Dio del Male sorride» (p. 1273). Se da una parte gli antieroi di Laiseca si adeguano a questo delirio perché «non delirare significherebbe negare la carne, le ossa e il sangue», dall’altra vedono nel delirio la loro «grandezza maggiore. Non quello patologico, è ovvio. Mi riferisco al sogno creatore che diventa contemporaneamente etico, estetico, mistico e pratico» (p. 1029). Il delirio diventa sinonimo di creazione, lo è per i personaggi (alle prese con progetti artistici, scientifici e bellici impossibili da portare a compimento) e lo è per Laiseca. Tra i precursori dello scrittore argentino ci potrebbe essere Céline: «Devo entrare nel delirio, devo raggiungere il livello Shakespeare». Sì, il livello Shakespeare, perché «Ciò che non è esagerato non vive», secondo una frase ricorrente nei libri di Laiseca, e perché, come insegna Gombrowicz, «Scrivere non è altro che la lotta contro il mondo combattuta dall’artista che vuole eccellere».

 

Nota di Lettura

 

Esistono tre edizioni di Los sorias: Simurg (1998), Gárgola (2004) – l’edizione da noi consultata – e di nuovo Simurg (2014).

La frase di Ricardo Piglia è tratta dal suo Formas breves, Anagrama, 2000, p. 98 (traduzione mia, qui e dove non diversamente indicato). L’aneddoto raccontato da Jorge Dorio si trova in Agustín J. Valle, Entrevista a Alberto Laiseca in Solo entrevistas. La citazione di Rodrigo Fresán viene da Esperanto, traduzione di Paola Tomasinelli, Einaudi, p. 109, quella di Ariel Luppino da  Dos novelas: Tadeys y Los sorias. L’affermazione di Manganelli è riportata in Mattia Cavadini, La luce nera. Teoria e prassi in Giorgio Manganelli, Bompiani, 1997, p. 2. A chi volesse approfondire il discorso sul “romanzesco puro” consigliamo le indispensabili monografie Las vueltas de César Aira, Beatriz Viterbo, 2002, di Sandra Contreras, ed El Monstruo del delirio. Trayectoria y proyecto creador de Alberto Laiseca en el campo literario argentino (1973-1998), La docta ignorancia, 2017, di Agustín Conde De Boeck. Esiste una traduzione di Gianluca Cataldo del prologo di Ricardo Piglia a Los sorias nel blog nazioneindiana. La definizione del delirio come gigantesca lente d’ingrandimento viene dall’intervista di Ricardo Romero a Laiseca riportata nell’ottima tesi di Hernán Bergara, Los sorias, de Alberto Laiseca: una poética del delirio, UBA, 2011. La citazione di Céline si trova in Ernesto Ferrero, Céline, ovvero lo scandalo di un secolo, in Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, 1995, p. 564. Le frasi di Witold Gombrowicz sono tratte da Testamento, introduzione di Francesco M. Cataluccio, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, 2004, p. 164 e da Diario Vol. I (1953-1958), introduzione e cura di Francesco M. Cataluccio, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, 2004, p. 49. In Italia di Laiseca sono disponibili Avventure di un romanziere atonale (traduzione e cura di Loris Tassi, 2013), Uccidendo nani a bastonate (traduzione di Lorenza Di Lella e Loris Tassi, 2017), È il tuo turno (2017, traduzione di Francesco Verde; la postfazione di Hernán Bergara è stata tradotta da Maria Cristina Cavassa), tutti e tre pubblicati da Edizioni Arcoiris, e La madre e la morte. La perdita, volume edito da Logos nel 2016 che contiene un racconto di Laiseca e uno di Alberto Chimal tradotti da Federico Taibi e illustrati da Nicolás Arispe. Nel numero 14 della rivista Cadillac è reperibile la traduzione di Luciano Funetta del racconto La morte del padre. In Beber in rojo il lettore troverà il riferimento all’unione sapiente tra gioco e profondità metafisica (Altamira 2000, p. 51). La citazione da El jardín de las máquinas parlantes viene dall’edizione Planeta (1993).

Segnaliamo infine l’uscita in questi giorni presso Crapula club, del Dossier monografico Alberto Laiseca, autore de "Los sorias", A cura di Anna Di Gioia, Luca Mignola, Alfredo Zucchi.

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