Alejo Carpentier: una critica letteraria meravigliosa
Alejo Carpentier, nato a Losanna nel 1904, cresciuto nella sua vera patria, Cuba, e morto a Parigi nel 1980, l’autore di romanzi come Il ricorso del metodo (1974) e La sagra della primavera (1978) in Europa non ha mai ottenuto la gloria postuma riservata ad altri scrittori latinoamericani di pari grandezza, come García Márquez o Bolaño. La sua scoperta principale, del reale meraviglioso, è stata confusa troppo facilmente con la nozione di realismo magico che, come si sa, prima di identificare una corrente letteraria, nasce nell’ambito della critica d’arte. Alterando le normali proporzioni dello spazio o ponendo sullo stesso piano figure fra loro estranee (una fanciulla accanto a una tigre, personaggi enigmatici che si incrociano senza rivolgersi uno sguardo), pittori come Rousseau il Doganiere o Balthus suggeriscono la visione di una realtà vivacizzata dalla presenza del perturbante.
Ciò che invece Carpentier descrive nel Prologo al suo romanzo Il regno di questo mondo (1949), introducendo il nuovo sentimento della realtà a cui dà il nome di reale meraviglioso, è qualcosa di molto più diretto e quotidiano. Deluso da Parigi (dove comunque elabora i primi nuclei della sua estetica), Carpentier torna in America e trova il meraviglioso nel carattere eterogeneo che contraddistingue la cultura creola dei suoi paesi, in cui convivono naturalmente mandriani a cavallo, cacciatori della foresta, gauchos, mezzosangue dai modi occidentali…
La meraviglia scaturisce direttamente dal mosaico di razze, religioni e tradizioni diverse che caratterizza ogni aspetto della vita sociale nell’America Latina. L’incontro tra l’ombrello e la macchina da cucire su un tavolo operatorio, di cui parla Lautréamont, è una forzatura, un artificio letterario. Ma Paolina Bonaparte ad Haiti è la realtà. Non realismo dunque, né surrealtà, ma realtà intensamente vissuta, e dunque percepita come regno delle possibilità, i cui infiniti punti di incastro ogni vero romanziere esplora e rivela come nessuno può fare. Per Carpentier il meraviglioso è l’insolito.
Se la vediamo ritratta in cartolina, Venezia è semplicemente bella. Ma una Venezia del Settecento, lungo le cui calli un ricco viaggiatore messicano e il suo servitore cubano incontrano per caso i tre massimi compositori dell’epoca, Scarlatti, Haendel e Vivaldi – come capita in uno degli ultimi racconti di Carpentier, Concerto barocco (1974) –, non è solo bella, è meravigliosa, e dunque foriera di scoperte conoscitive. Ancor più se il messicano per Carnevale indossa il costume di Montezuma, l’imperatore azteco del XVI secolo, e se i cinque, al termine di un vagabondaggio notturno, scoprono in un cimitero la tomba di Stravinskij, dunque compiono di nuovo un balzo di qualche secolo.
Carpentier intuisce presto che per un romanziere allenarsi alla ricerca del reale meraviglioso significa riuscire a cogliere dietro un avvenimento l’intersezione di molteplici universi spazio-temporali. Non per evadere da esso ma per comprenderlo alle radici. Nei suoi romanzi allora confronta l’età contemporanea con l’era primordiale in cui ebbe origine la musica (I passi perduti, 1953), la Rivoluzione Francese con la sua ricezione nel bacino dei Caraibi (Il secolo dei lumi, 1962) o immagina l’anima di Cristoforo Colombo che, secoli dopo la sua morte, assiste alla riunione del tribunale ecclesiastico che gli nega la beatificazione (L’arpa e l’ombra, 1979).
Intrappolata in un “qui e ora” che non ha nulla di zen, la società letteraria europea non sembra però aver compreso questa lezione di Carpentier. Lo scrittore che in tutti i suoi romanzi si è impegnato a far dialogare Vecchio e Nuovo Mondo è ancora percepito come il rappresentante di una cultura altra; esotica, la cui etimologia, come Carpentier ben sapeva, significa «che sta fuori».
Da poco però è uscita per la collana «Saggi letterari» di Mimesis L’età dell’impazienza (333 pp.), un’antologia a cura di Massimo Rizzante che raccoglie un ricco insieme di saggi, articoli e interviste pubblicati da Carpentier dal 1925 al 1980. Rintracciati da Rizzante tra gli archivi della Fundación Carpentier (in spagnolo non esiste ancora un’edizione definitiva delle sue opere), i testi vengono presentati in un ordine che permette al lettore italiano di apprezzare l’intensa attività di critico e pubblicista a cui Carpentier ha per lungo tempo accompagnato la sua pratica romanzesca: dalle prime prove sui quotidiani dell’Avana, su cui come corrispondente dalla Francia traccia brillanti ritratti dei protagonisti del Surrealismo, ai saggi sul romanzo moderno, pubblicati su «El Nacional» di Caracas; fino alle ultime interviste e conferenze che in seguito, negli anni del successo letterario, Carpentier ha l’occasione di pronunciare come invitato nelle università.
Gli scritti sul realismo meraviglioso trovano in questa raccolta la loro collocazione ideale, rispetto alla quale il lettore può cogliere in tutta la sua portata l’originale visione del romanzo che Carpentier ha continuato a sviluppare anche come saggista. Un volume che quindi potrà appassionare anche quanti si avvicinano a Carpentier per la prima volta. E qui ritorniamo a una vecchia questione.
Specialisti a parte, perché mai qualcuno dovrebbe interessarsi alle pagine critiche di un romanziere? Nel saggio introduttivo al volume Rizzante scrive che «Carpentier poteva scrivere di qualsiasi letteratura europea come se si trattasse della sua, ma senza mai dimenticare – e in ciò è stato più unico che raro – che per comprenderla in profondità bisognava compararla con le letterature degli altri continenti, in particolare di quello americano».
Ma forse un’altra possibile risposta è che ormai si può cogliere quasi solo nei romanzieri come Carpentier la disposizione saggistica, nata con Montaigne, a presentare le opere letterarie come uno strumento di relazione e non di semplice identificazione con il loro tempo. Carpentier sviluppa la sua idea di romanzo all’interno di una riflessione estetica più ampia, che mira a rintracciare le «costanti umane» che congiungono le diverse arti e letterature. Traccia «costellazioni storiche» – scrive Miguel Gallego Roca nella postfazione – che gli consentono di stabilire un dialogo tra i continenti ma anche «tra il barocco e le avanguardie, tra l’Illuminismo e le rivoluzioni del XX secolo…». In Rabelais vede un’espressione dello stesso stile barocco che riconosce come proprio di tutta l’arte latinoamericana, percorsa da «nuclei proliferanti». Ma è in Cervantes che Carpentier individua l’«alba» della sua arte.
Non certo per un senso di sottomissione ai valori dell’Europa occidentale, di cui in altre occasioni ha segnalato il declino. Ma perché andando «al di là della storia narrata» e potenziando i suoi mezzi compositivi, Cervantes con Don Chisciotte ha spalancato per la prima volta nella storia della letteratura le porte della dimensione immaginaria presente nell’essere umano e fondato quindi un’idea di romanzo intesa come «strumento per l’esplorazione dell’uomo».
Propria dello sguardo critico del romanziere è anche l’attenzione verso l’aspetto artigianale, pratico, della sua arte, che lo induce a confrontarla con le altre. A chi gli domanda se il cinema non rischi di soppiantare il romanzo, Carpentier risponde che la nascita di altre forme narrative non ne ha mai ostacolato lo sviluppo. Altri brani rivelano le competenze musicologiche maturate dallo scrittore durante gli anni della sua prima formazione (Carpentier è anche l’autore di un importante studio su La música en Cuba) e chiariscono le ulteriori ragioni del frequente ricorso di Carpentier alla musica come principio ispiratore dei suoi romanzi.
Prima del romanzo, è stata la musica a mostrare che nella storia di un’arte le forme nuove convivono insieme a quelle antiche (i principi della musica classica sopravvivono ad esempio nel jazz). Integrando la musica nei suoi romanzi, mediante il riferimento alle opere o a certi modelli formali, Carpentier vi trasferisce quella stessa idea di libertà temporale che le sarebbe propria e che rispecchia il tempo interiore dell’uomo. Questa visione dell’arte è l’antidoto che Carpentier contrappone all’«età dell’impazienza», la cui discussione è al centro dell’articolo che ispira il titolo dell’antologia. Carpentier lo scrive nel 1957, quando ha appena iniziato a scorgere i primi segni della nichilistica riduzione del tempo alla sola attualità che da lì in poi caratterizzerà in misura crescente i decenni successivi. Gli antichi lo sapevano, Ars longa, vita brevis.
La nostra epoca, al contrario – avverte Carpentier – è nata sotto il segno dell’impazienza: «Tutti sono impazienti di arrivare. Tutti sono impazienti di toccare subito con mano il risultato dei loro sforzi». È così che nessuno ha più avuto voglia di scommettere sulla durata delle opere al di là del ristretto orizzonte locale e temporale della loro prima produzione e che i romanzi si sono ridotti sempre più a cronaca, diario, o al controsenso del “romanzo di testimonianza”. Scrive però Carpentier: «Il lavoro di un buon economista, accompagnato da cifre e fotografie, sullo stato dello stagno in America Latina è molto più utile di un romanzo sullo stagno».
Ovvero, un romanzo può anche avere un contenuto economico, sociale o autobiografico, ma perché abbia senso occorre che questo sia elaborato come vero tema di un romanzo dunque come mezzo di un’indagine più grande, esistenziale, che trascende la portata contingente del fenomeno di partenza. Il gesto liberatore di Carpentier è allora di assegnare allo scrittore il compito di essere sempre un testimone di qualcosa di più vasto rispetto a ciò che gli sta attorno: «è un contemplatore dell’umanità e delle sue costanti; è un cronista di un passato che si lega direttamente al presente».