Assembramenti, resti, concatenamenti

4 Marzo 2023

La caravella portoghese (Physalia physalis) è uno strano animale: sembra una medusa, piuttosto stravagante per forma e colori, ma è in realtà la composizione di quattro diversi invertebrati marini che si muovono insieme e vivono in simbiosi. Il primo è una sacca galleggiante trasparente con tinte viola, blu o malva, ricolma di gas. È detto «vela» perché galleggia sospinto dal vento trainando gli altri tre condòmini. Gli altri, che si agitano in acqua sotto di lui, sembrano i suoi variopinti tentacoli, lunghi sino a 50 metri, ma sono tre diversi polipi con funzioni differenti: i dattilozoidi catturano le prede paralizzandole con un micidiale mix di dieci tipi di veleno, i gastrozoidi si occupano di digerirle e i gonozoidi sono deputati alla riproduzione. Questi differenti organismi non potrebbero vivere separatamente, senza quella coabitazione bizzarra e un po’ mostruosa non esisterebbero affatto. Si tratta dunque di un solo animale o di quattro diversi animali? 

Potremmo dir così: c’è, anzitutto, un assembramento organico, un processo vivente pre-individuale, e soltanto poi, grazie al suo movimento di differenziazione, ci sono gli individui che ne costituiscono l’esito e l’articolazione. Ma quanto ora detto non vale forse per ogni animale e per la vita in generale? Per quanto possa sembrarci inusitata, o scivolata fuori da un bestiario di Donna Haraway, la caravella portoghese, col suo veleggiare per oceani, mostra – soltanto in modo più fastoso e appariscente – ciò che già sappiamo, ma che di solito tendiamo a rimuovere. Ovvero, ciò di cui è fatto ogni individuo, ogni vivente, ogni porzione di mondo. Ognuno di noi è l’esito di un assembramento, è il residuo di altri processi organici e inorganici, esso stesso in procedere verso l’altro da sé che sta per diventare. 

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Puntare il faro su questa dimensione magmatica pre-individuale può risultare fastidioso o un po’ straniante. Come nella prima scena di Velluto blu di David Lynch, dove ci vengono mostrate le gradevoli villette con giardino di una ridente cittadina del New Jersey finché la cinepresa non sprofonda nell’erba di uno di questi giardini portando in primo piano l’orrida vita pullulante di insetti e fango che si agita sotto l’apparente compostezza della realtà urbana. Ma può pure risultare stimolante e liberatorio, nella misura in cui lo sprofondare in questo brulicante assembramento pre-individuale è anche ritorno a una potenzialità inespressa, insorgenza creativa di nuove forme e loro inedita combinazione.

In un simile sprofondamento si esercitano due libri usciti di recente, molto diversi tra loro, ma che potrebbero viaggiare insieme come le componenti di una caravella portoghese, nutrendosi a vicenda. Il primo è Assembramenti di Felice Cimatti, edito da Orthotes, un libro che è esso stesso un assembramento, un crogiolo di fotografie, immagini, testi e autori tratti dagli ambiti più disparati (filosofia, antropologia, psicoanalisi, letteratura, meccanica quantistica…). Sfogliandolo ci si può imbattere nell’analisi di un racconto di Dino Buzzati come in una rilettura della fisica di Niels Bohr. Il secondo è L’immagine-scatola di Federico Leoni, edito da Castelvecchi, un trittico dedicato alle creazioni artistiche di Joseph Cornell, Masashi Echigo, Robin Meier: prendendo spunto dalle loro opere la riflessione dell’autore si snoda lungo scarti, assemblaggi e processi di varia natura, sempre sul bilico tra vita e arte. Nonostante la struttura tripartita, anche qui i percorsi si diramano e si fanno incontri molto variegati: si osservano miniature, si entra e si esce dalle cripte, ci si mette in ascolto della musica di John Cage o anche solo dei rumori di fondo.

Entrambi i volumi si muovono lungo una linea metamorfica che rievoca una processualità vivente pre-individuale, quale quella ravvisabile tra i simbionti, ma radicalizzandola e spingendola al di là degli steccati tra umano e non umano, vivente e non vivente, naturale e artificiale. In questo senso risultano spiazzanti le fotografie di assembramenti proposti da Cimatti. Ad esempio, una ruota d’automobile e una scarpa. Oppure, due sedie di plastica dietro a un cancello nell’angolo impolverato di un cortile. Che c’entrano questi oggetti inerti, ammassati in modo più o meno casuale, con le componenti simbiotiche della caravella portoghese? Anch’essi, mostra l’autore, sono un assembramento. Ossia, l’esito di un processo metamorfico in continuo divenire. Infatti, nonostante le apparenze, le cose che ci circondano non stanno ferme e neppure separate: non stanno mai al loro posto perché, spiega Cimatti, non hanno alcun posto. Pensandole come animate non le stiamo umanizzando? Al contrario, le stiamo de-antropocentrizzando.

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Stiamo togliendo le cose dall’ordine in cui le abbiamo costrette, dalla griglia con cui le abbiamo separate, per restituirle al flusso anonimo da cui sono emerse senza per altro mai smettere di esservi immerse. Come infatti chiarisce l’autore, sono le parole umane, e in particolare i nomi, a ritagliare le cose dal mondo e a fissarle in una identità rigida, immobile, chiusa nei propri confini. Ma le sedie, come le scarpe e le automobili, hanno alle spalle milioni di anni e milioni di assembramenti e ancora oggi non smettono di modificarsi, decomporsi, contaminarsi con altre sostanze, particelle, onde, attraversando continui processi organici e inorganici. Ci sono anzitutto questi assembramenti e soltanto poi ci sono le cose, le quali appaiono inerti solo perché fotografate dal linguaggio e rapportate ai bisogni e alle ubbie degli umani.

Per quanto possa risultare spiazzante, ragionare per assembramenti è un tentativo di portare il pensiero all’altezza dei tempi, in un mondo che non è più (e forse non è mai stato) a misura d’uomo. La crisi climatica – come indicano molte riflessioni contemporanee, a partire da quelle del compianto Bruno Latour – nasce anche dal pregiudizio, tipico della modernità, che le cose siano inerti e slegate le une dalle altre, che gli uomini abbiano il controllo della natura perché, prima ancora, avrebbero il monopolio della capacità di agire.

Anche Leoni, nel suo L’immagine-scatola, pensa per assembramenti, concatenamenti, assemblaggi che precedono e costituiscono le cose nel loro continuo intrecciarsi e sfilarsi. L’opera Apologue di Masashi Echigo ne è una plastica rappresentazione, in tutti i sensi della parola «plastica». Se questo è infatti il materiale di cui è composta, singolare è l’uso che ne fa l’artista giapponese. Considerata la materia più docile e disponibile alla creazione umana, la plastica appare ai nostri occhi sempre priva di un passato. Non così in Apologue, mostra Leoni. Assemblata con resti di scooter raccattati da terra o prelevati da uno sfasciacarrozze, l’opera di Echigo ci ricorda che anche la plastica ha una vita, emerge da altri assembramenti di cui porta memoria e tracce. La logica antropocentrica e tipicamente moderna della creazione, della plasticità, della totale sottomissione della materia viene così soppiantata da una logica della composizione, del concatenamento o, per dirla con Cimatti, dell’assembramento. Ogni composizione è cioè sempre una ricomposizione, ogni nuova configurazione della materia si porta dietro i resti delle configurazioni precedenti. C’è insomma una vita delle cose – sembra suggerire l’arte di Echigo – che fa resistenza, non si lascia del tutto domare e plasmare dai progetti umani, i quali non sono altro che un’ennesima configurazione di quella stessa vita, destinata a decomporsi per ricomporsi in ulteriori forme e ulteriori resti.

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È questo un leitmotiv di molta arte recente e meno recente. Leoni lo avverte non solo negli altri due artisti del proprio trittico, Joseph Cornell e Robin Meier, ma anche in molta musica contemporanea. Ad esempio in quella di Cage, dove il suono degli strumenti flirta col frastuono di oggetti scossi o battuti interrogando di riflesso ciò che definiamo «musica» e mostrandocela come nient’altro che una variazione dei rumori di fondo. Analogamente, l’opera di Echigo, come le immagini-scatola di Cornell, non è che una variazione giocata sugli scarti derivati da altri assembramenti, variazione che però, mostrando i resti come tali, serba memoria di questa loro resistenza e testimonia di una vita che insiste e resiste in ogni forma. Una vita che non si dà a vedere se non in controluce, se non nei resti (non più funzionali) e come resto (disponibile a nuove funzioni). Ovvero, mancanza ed eccesso, incrinatura nel passato e apertura al futuro. Crepa e varco a un tempo.

Non è forse un caso se anche la psicoanalisi oggi si interroga sullo statuto del resto. Un recente numero della rivista Frontiere della psicoanalisi (n. 2 del 2021) dedicato al tema «Resti del futuro» esamina, attraverso i contributi di clinici, filosofi, critici d’arte, artisti e poeti, come possa tornare in gioco ciò che è stato scartato. La domanda tocca il cuore della psicoanalisi perché coinvolge direttamente lo statuto del soggetto. Quest’ultimo – scrivono infatti Maurizio Balsamo e Massimo Recalcati nell’editoriale del numero – «si configura come un assembramento singolare di resti sparsi, sparpagliati, erratici». La ri-soggettivazione favorita dal percorso psicoanalitico rimette in gioco tali resti, li recupera e li risignifica, senza per altro mai esaurire tale compito. Ogni resto, scrivono infatti i due psicoanalisti, è un Giano bifronte: è contemporaneamente mancanza ed eccesso, incrinatura e apertura, l’impossibile da risignificare e ciò che impone di rinnovare ogni volta daccapo questa impossibilità. Crepa e varco a un tempo. Motivo per cui la stessa analisi – suggerisce Maurizio Balsamo in un intenso dialogo con lo psicoanalista Jacques André – deve lasciare dei resti, mantenere aperto il varco, non otturare il transito. 

Questa vita che transita sottotraccia senza mai esaurirsi nelle proprie tracce, questo pulsare che insiste in ogni forma e insieme vi resiste, è ciò che sfugge a ogni presa diretta da parte del sapere, se, come si diceva, sapere significa anzitutto dare nomi, ossia segnare tracce e mettere in forma. Ma quella vita, quel pulsare, è invece ciò che l’artista riesce magistralmente a rievocare – così sembrano dire all’unisono, pur con riferimenti diversi, Cimatti, Leoni e gli autori di Frontiere della psicoanalisi. Mettendo in risonanza il vuoto e il pieno, facendo riverberare la mancanza e l’eccesso che caratterizzano ogni forma, lasciando intravedere la crepa e il varco di cui ogni traccia è segno, l’arte incontra ogni volta di nuovo l’impossibile con cui anche la filosofia e la psicoanalisi non possono fare a meno di confrontarsi. Quell’impossibile, ma assolutamente reale, che è l’assembramento, l’evento, la vita che accade.

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