Della città e del tempo / Basilico: un fotografo

18 Maggio 2019

La fotografia è un’arte che ha permesso a Basilico di cogliere il mondo-città in divenire. Gabriele Basilico è il fotografo della città, è evidente, ma di quale città? Una città strana, che abbiamo sempre l’impressione di riconoscere, e che spesso riconosciamo, ma senza essere certi di poterla situare, una città che si trova ovunque e da nessuna parte. Ci succede d’identificarne in modo molto preciso un elemento (tale edificio all’angolo di questa o di quella via), ma non saremmo tanto sorpresi e sicuramente non scioccati se ci mostrassero che ci siamo sbagliati e che, per esempio, tale quartiere periferico in cui pensavamo di riconoscere un sobborgo di Roma appartenga invece alla regione di Parigi. Questa sensazione mescolata di riconoscimento e non riconoscimento, queste evidenze affette da incertezza sono di fatto il prodotto di un partito preso e di un approccio sistematico che si sforza di cogliere le trasformazioni del mondo contemporaneo, un mondo che può essere definito indifferentemente come globale o come urbano.

 

Poiché l’urbanizzazione del mondo è oggi il grande fenomeno che interessa principalmente l’umanità, un fenomeno della stessa portata, è stato fatto notare, del passaggio all’agricoltura e alla sedentarizzazione del Neolitico. Tale urbanizzazione è caratterizzata da tre processi simultanei. Parallelamente alla trasformazione dei “centri storici” in settori preservati e riservati al consumo turistico, i quartieri d’affari e il settore terziario si sviluppano e occupano oggi più spazio delle attività produttive in senso stretto. Inoltre, lungo le vie di comunicazione, i fiumi e il litorale marittimo, si prolungano dei nastri, dei filamenti urbani, nei quali coesistono imprese, industrie, centri commerciali, zone incolte, aree abbandonate e quartieri popolari.

 

Gabriele Basilico ha innanzitutto privilegiato i settori industriali e operai della città in cui era nato e viveva, Milano. In seguito, ha portato il suo sguardo verso altre città europee, privilegiando spesso i margini e le periferie, ma interessandosi anche, talvolta, a quanto abbiamo l’abitudine di chiamare “centri storici”. Le sue fotografie sono prive d’indulgenza. Si danno per oggetto gli aspetti più “duri” della città o del tessuto urbano, non cedono alla tentazione del pittoresco. Ma, se rispondono al desiderio di seguire e osservare il mutamento urbano in corso su scala planetaria, questo desiderio è sottoposto a sua volta a un certo numero di scelte estetiche che preesistono e vi si riflettono.

 

Le fotografie di Basilico sono immagini di ampio respiro. Il fotografo è ispirato dalla monumentalità e dal paesaggio urbano e, in entrambi i casi, dalla geometria che li regge: linee rette e angoli acuti oppure vaste curve e arrotondamenti. I materiali utilizzati oggi, il vetro – le sue trasparenze o i suoi riflessi –, il metallo e il cemento ben si prestano a un tentativo di questo tipo, ma la pietra e il marmo scolpiti dei secoli precedenti, fonte di un’altra monumentalità, coniugano a volte armoniosamente le loro forme con quelle privilegiate, ormai da alcuni decenni, dall’urbanistica e dall’architettura. Ed è perché il fotografo è prima di tutto sensibile a questo gioco di forme che il miracolo si produce e che l’utopia di una città planetaria, unica e diversa, presente e passata, emerge poco a poco sotto i nostri occhi quando guardiamo le sue fotografie di seguito, una dopo l’altra, con la strana e contraddittoria sensazione di perderci e di ritrovarci.

 

Gabriele Basilico coglie innanzitutto gli edifici e i monumenti che ritrae nella loro verticalità. Questa verticalità altera è ciò che avvicina i grattacieli attuali ai grandi edifici del XIX secolo. Anche se questi ultimi sono meno alti, rispetto al loro ambiente circostante suscitano la medesima impressione di orgoglio e dominazione. Tale impressione può nascere alla vista dell’hotel Capitol di Madrid come a quella di un grattacielo della Défense. Nell’architettura industriale o nei paesaggi devastati delle zone industriali dismesse, invece, è l’orizzontalità che predomina. S’impongono allo sguardo le linee di fuga degli alti muri diritti delle fabbriche, il tracciato dei muri spogli o ricoperti d’iscrizioni che ritaglia nel paesaggio improbabili frontiere, lo slancio che sembra spingere i binari della ferrovia e le banchine delle stazioni verso l’orizzonte che l’opacità delle costruzioni urbane sottrae alla vista. Nel cuore della città, le forme giocano fra loro, come giocano fra loro i tempi della storia.

 

Foto di Gabriele Basilico.


Nei quartieri d’affari più recenti, lo slancio verso l’alto delle torri rettilinee dagli angoli acuti si compone con gli arrotondamenti degli altri grattacieli e con le curve del sistema autostradale che li serve e li stringe. Ma questo gioco di forme è ugualmente presente nella profonda intimità dei centri urbani penetrati da autostrade sopraelevate, e nei centri storici dove, come a Roma, le colonne dei templi crollati e le rotondità delle cupole cristiane dialogano con il paesaggio moderno. La geometria del paesaggio s’impone al fotografo che la scopre e conferisce alla sua opera uno stile caratteristico.

 

Quali che siano i miglioramenti eventuali che nel futuro dovranno essere apportati al nostro ambiente di vita dagli urbanisti e dagli architetti, questo ambiente assomiglierà a quanto possiamo osservare sin d’ora. Se cediamo al pessimismo, diremo che, malgrado il mantenimento apparente della diversità, tutti i luoghi urbani continueranno sempre più a uniformizzarsi e che le variazioni che ci si sforza di creare abbiano tutte un’aria di déjà-vu. Se siamo ottimisti (e mi sembra sia il caso di Basilico, malgrado il rigore delle sue scelte e delle sue vedute, malgrado la decisione a priori di escludere gli esseri umani, ma non le macchine, dalla maggior parte delle sue fotografie), noteremo che questa sensazione di déjà-vu è più complessa di quanto non sembri a prima vista. Nella diversità delle città ci sono elementi che, per lo meno presi e visti da una certa angolatura, come accade nella fotografia, sembrano richiamarsi e richiamarci: un cavalcavia sulla corsia rapida che evita la Défense a Parigi evoca Eiffel e il ponte di Porto; dei pezzi di muro ricoperti di graffiti su un terreno abbandonato in fondo al quale s’indovinano alcuni edifici fatiscenti sono parte di un paesaggio berlinese che è anche un paesaggio madrileno… 

 

Storicamente, molte città europee sono state create con uno stile proprio, e un viale di Madrid non assomiglia a un viale di Parigi o a un corso di Roma. Potremmo pensare che oggi tutto ciò che le avvicina fugacemente le une alle altre – siano solo le mura cieche di una fabbrica dismessa, la banalità di un parcheggio o i riflessi della città su una parete di vetro – conferisca loro una dimensione propriamente poetica per lo sguardo che le scopre. Sono proprio questi la forza e il fascino dello sguardo di Basilico: non si lascia ingannare dalle apparenze, continua a cogliere la diversità sotto l’apparente uniformità e le somiglianze – le “corrispondenze”, per usare una parola cara a Baudelaire – nell’apparente diversità. La poesia, si sa, non è nelle cose, ma nello sguardo che sa coglierle. La fotografia, che isola e avvicina gli elementi che ci mostra, al termine di una doppia operazione di selezione, funziona dunque un po’ come la memoria ma, diversamente da colui che ricorda, il fotografo opera delle scelte in maniera intenzionale, sistematica e deliberata. È un artista che non si accontenta di registrare: fa, crea, inventa. È immediatamente dalla parte dell’immaginazione e dell’utopia. Ma come il poeta, e a differenza dell’utopista puro, è nel mezzo della realtà, anche quella più triviale, che attinge la materia della sua opera e, con essa, le ragioni per vivere e per sperare. C’è sempre un po’ di tempo sospeso e di futuro possibile in un’opera d’arte o in una poesia.

 

Ciò che è particolarmente notevole nel lavoro di Basilico è che riguarda la realtà più evidente e imponente della nostra epoca, quella che è associata a tutte le nostre paure e timori. Lungi dall’evitarla, vi si confronta. Ci ha abituati a osarla guardare e ci ha insegnato a vederla. A questo proposito, oserei quasi parlare di pedagogia poetica. Domani il mondo sarà urbano, lo è di già. Non per questo bisogna mettersi a sognare paradisi perduti: questi sono sempre illusori, non sono mai esistiti. Non abbiamo perso nulla; abbiamo tutto da conquistare e, di conseguenza, tutto da immaginare. Ma possiamo immaginare solo a partire da ciò che esiste già. Il mondo è diventato una città, ma si tratta di una città in cui diverse città hanno ancora il loro posto, con le loro vestigia, le loro rovine, la loro personalità. Certo, tutte queste città si sviluppano e si trasformano, e possiamo temere, non senza solide ragioni, che presto arriveranno ad assomigliarsi tutte nei loro elementi meno personali – penso in particolare a quegli spazi di circolazione, di comunicazione e di consumo che ho chiamato nonluoghi. Ma mi sembra che la scommessa di Basilico sia diversa, opposta. Per quanto affascinante possa essere, non bisogna accontentarsi di una delle sue fotografie; occorre guardarne molte per comprendere meglio ciascuna di esse. Ciò che distingue l’insieme della sua opera è, in effetti, la proiezione di una città composita e in divenire. Questa città è indubbiamente una città planetaria, ma è sempre in trasformazione, in essa le innovazioni continuano a dialogare fra loro e con il passato; una città grande come il mondo ma dove non sono assenti il fascino del ricordo e della nostalgia e sentimenti confusi, equivoci ed esaltanti di speranza, timore e attesa.

 

Gabriele Basilico non credeva al ripiegamento del mondo su se stesso, alla fine della storia e al regno delle copie conformi. Detto altrimenti, anche se le sue immagini hanno un rigore formale che le mette al riparo da ogni dimensione aneddotica, non sanciscono una non so quale morte della città – e dell’arte. Al contrario, la loro forza coinvolgente e contagiosa dipende dal fatto che, giocando con le forme spaziali, ci aiutano a vedere la storia da cui scaturiscono e a immaginare il futuro che le aspetta. Sono anche delle immagini del tempo.

 

Questo articolo è tratto dal volume di Marc Augé, Chi è dunque l’altro?, a cura di Annalisa D’Orsi, Raffaello Cortina Editore, 2019.

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