Berlusconi o l’obesità realizzata

20 Gennaio 2012

Il pamphlet di Mario Perniola è un’utile provocazione. Almeno potenzialmente. Ma, come tutte le provocazioni, anche le più stimolanti, appartiene alla breve durata, all’effimero, e la sua utilità può essere recepita solo oltrepassandolo.

Qual è il limite di Berlusconi o il ’68 realizzato? Quello di essere un pamphlet, quello di cercare la formula che riassume un’epoca. Ma nessuna epoca si lascia riassumere in una formula. Nessun movimento. Quello che chiamiamo “il ‘68” non è una cosa sola. Ciò che manca allo scritto di Perniola (e che lo apparenta alle semplificazioni che vorrebbe contrastare) è la capacità di fare buone distinzioni.

 

Eppure molte affermazioni di Perniola sono condivisibili. Nella sua descrizione del ‘68 egli individua subito un tratto permanente di ogni ideologia di sinistra: l’egualitarismo, l’odio per le differenze, il rancore per i più dotati: ogni preminenza intellettuale sarebbe un attentato all’eguaglianza tra gli uomini. Questa indicazione critica è condivisibile, a patto però di precisarla: la cultura di sinistra non è riducibile all’ideologia.

E tuttavia, l’egualitarismo non ha svolto forse un ruolo dominante? La capacità di mobilitare le masse non è forse dipesa prevalentemente da semplificazioni? Di qui la grande domanda (che Perniola non enuncia): è possibile sganciare i destini futuri della sinistra dalle devastazioni egualitarie?

Queste devastazioni oggi sono facilmente visibili, soprattutto nelle istituzioni scolastiche e universitarie: la scuola di massa avrebbe dovuto essere una scuola democratica; lo è diventata in un senso caricaturale, come scuola che produce e diploma generazioni di neo-analfabeti. Giovani a cui la scuola non fornisce quelle capacità di base, che sono la premessa per una maturazione individuale, e anche politica. Fermiamoci su questo punto: la distruzione della scuola come obiettivo comune al ’68 e a Berlusconi (che Perniola intende come sineddoche, parte per il tutto, come individuo che manifesta esemplarmente processi sociali rilevanti).

Il ’68 voleva veramente la distruzione della scuola? E, per riprendere le altre tesi di questo pamphlet: il ’68 mirava alla deregolamentazione dei rapporti sessuali? Al discredito delle competenze mediche, ecc?

Forse non lo voleva, vale a dire: non erano questi gli esiti auspicati. Ma dobbiamo ricordare la distinzione di Max Weber tra l’etica delle intenzioni e l’etica della responsabilità. Dunque le domande vanno riformulate così: fino a che punto il ’68 è responsabile di questi effetti, che a distanza di tempo appaiono chiaramente masochistici, autodistruttivi?

 

Non credo di essere il solo che ricorda un ’68 non egualitario, non infantile, non ottuso, anche se irrimediabilmente contagiato da quella che Conrad chiama la sciocca, incantevole giovinezza. Qualunque cosa volesse dire, lo slogan “l’immaginazione al potere” non voleva dire alcunché di berlusconiano. Comunque la pensi Perniola, Berlusconi non ha alcun legame fecondo con l’immaginazione. Berlusconi è piuttosto “l’immedesimazione al potere” – nel senso, da lui stesso esplicitato, per cui gli italiani lo amano per ragioni di somiglianza.

Bisogna ammettere che la sciocca giovinezza non può durare troppo a lungo e che, soprattutto in Italia, il ’68 è durato troppo a lungo: di qui il prolungarsi di un infantilismo autolesionista. Ma questa osservazione è sufficiente a spiegare il fallimento del ’68, e soprattutto, l’imprevedibile mutamento di rotta, la convergenza oggettiva con la nuova organizzazione del potere? Non credo.

Parlare solo di infantilismo ci porta fuori strada. Se la mia analisi è plausibile, se ci sono stati due ‘68 sia pure intrecciati e inseparabili, e se a prevalere sono state le forze reattive (in senso nietzscheano), è perché la grande ondata del nuovo prolungava il ‘vecchiume’, ne era sorretta, sospinta, costantemente alimentata.

Perniola ricorda giustamente le atrocità delle campagne contro il passato, in Cina e, in maniera ancora più ferocemente accentuata, in Cambogia. L’umiliazione e lo sterminio periodico dei competenti, degli intellettuali. “Distruggere l’antico e incoraggiare il nuovo” era il motto della Rivoluzione culturale, che si proponeva di “eliminare i quattro vecchiumi”: le vecchie idee, la vecchia cultura, i vecchi costumi e le vecchie abitudini. Ma se l’obiettivo era distruggere il peso reazionario del passato, la sinistra, in Cina come in Occidente, avrebbe dovuto iniziare a combattere contro i propri stereotipi. Avrebbe dovuto combattere contro quelli che possiamo chiamare, continuando a usare un termine non troppo elegante, i quattro vecchiumi della sinistra: l’egualitarismo, il risentimento, l’odio per la complessità, il rancore verso le distinzioni.

 

Alcune osservazioni:

(a) l’egualitarismo è una caricatura dell’ideale di giustizia (è un tema che meriterebbe finalmente una grande dibattito);

(b) perché parlare di vecchiume della sinistra? La stupidità di sinistra non è un fenomeno recente? Ebbene, non è così: le devastazioni egualitarie si sono manifestate e hanno compromesso già l’esperimento della democrazia ateniese nel V secolo, dunque sono un fenomeno antico.

(c) si noterà come i vecchi principi della sinistra si sovrappongono parzialmente a principi dell’ideologia di destra. Da questa sovrapposizione si dovrebbe inferire che l’ideologia è sempre reazionaria. Anche l’ideologia di sinistra – intendo i quattro vecchiumi - è reazionaria, perciò la convergenza tra il ’68 (ideologico !) e il berlusconismo non è una tesi forzata. Non del tutto.

Restano delle differenze, senza dubbio: l’ideologia di sinistra svolge una funzione positiva nel breve periodo e in situazioni storico-politiche semplificate, ad esempio nell’opposizione a una dittatura. Ma dal punto di vista intellettuale, è sempre un discorso reazionario. Pensare che sia interamente eliminabile è un’utopia. Eterna è soltanto la stupidità, diceva Voltaire, non l’intelligenza. Ma se c’è un ruolo oggi per gli intellettuali, è quello di esercitare l’intelligenza delle analisi.

Torniamo a considerare il rovesciamento in base a cui il programma del ’68 (ideologico) è diventato discorso del capitalista (come lo ha chiamato Lacan), cioè berlusconiano, come dice Perniola. La descrizione ‘globale’ di Perniola potrebbe, anzi dovrebbe venir precisata: consideriamo, ad esempio, uno degli slogan più diffusi nel discorso umanistico ed estetico a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso: l’abolizione della frontiera tra alto e basso. Ancora una volta, per capire come sono andate le cose e qual è la realtà di oggi, bisogna distinguere. La necessità di superare una cultura ingessata, il culto feticistico dei grandi autori, l’universalità dell’arte intesa come immobilismo dei valori e soprattutto delle interpretazioni, è stata un’esigenza innovativa, e interamente condivisibile. Umberto Eco la presentava con intelligenza ed equilibrio in quello che resta il suo libro migliore, Apocalittici e integrati (1964). Un intellettuale si interessa a tutto, legge i fumetti, ecc., e tuttavia sa riconoscere le differenze di complessità nell’arte.

Nel giro di non molti anni, l’abolizione della frontiera tra alto e basso è diventato ideologia, cioè, di fatto, giustificazione del trash. Ideologia dell’informe – un concetto che va definito anzitutto così: il collasso delle distinzioni. Ad affermare aggressivamente l’egualitarismo estetico sono stati prevalentemente i fautori dei cultural studies. Queste “pecore che si credono lupi” (per riprendere un’espressione del giovane Marx) hanno iniziato a devastare l’Università in nome dell’odio verso la grande arte – l’arte che parla linguaggi complessi, esteticamente raffinati.

Perniola sarebbe d’accordo? Il suo pamphlet si chiude con alcune pagine molto apprezzabili, sulla necessità di riproporre “nozioni estetiche per eccellenza come stile di vita, educazione alla gentilezza, ecc”, e di ricercare la propria perfezione.

 

Perché Giuliano Ferrara è così grasso? Si chiedeva diversi anni fa Beniamino Placido in un articolo memorabile, di quelli che fanno onore al giornalismo. E rispondeva: perché ignora le distinzioni. L’obesità di Ferrara – una meravigliosa opera d’arte, secondo i criteri estetici di Rosalind Krauss – veniva interpretata come un’allegoria della semplificazione intellettuale. Da allora il culto dell’informe non ha fatto che estendersi. E non a caso. Sulla complicità tra la rigidità e l’informe bisognerà tornare a riflettere. Non si tratta di un rovesciamento ironico, ma di una solida complicità.

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