La flessibilità è meglio del limite
1.
“Non pensare a trasgredire la Legge, cerca piuttosto di trasgredire te stesso”: quasi certamente questo è il precetto più importante che possiamo derivare da Nietzsche in una prospettiva etica. Un’esortazione, un imperativo, se si vuole: ma un imperativo che, per quanto categorico, non prescrive nulla di rigido, e che, per quanto sia rivolto a tutti, appare orientato meno verso l’universalità che non verso la singolarità.
Ritengo che la massima di Nietzsche rappresenti la via più feconda per un’etica nella società contemporanea, nella società liquida se ci accontentiamo dell’ambigua espressione di Bauman (tornerò tra poco sulla sua ambiguità). Ma, poiché questa massima non viene formulata esplicitamente nell’opera di Nietzsche, vorrei anzitutto giustificare la legittimità della mia interpretazione. Nietzsche è il filosofo del Superuomo. Tuttavia il termine Übermensch andrebbe inteso, e tradotto in italiano, con oltreuomo: l’oltreuomo è il soggetto capace di oltrepassare se stesso, di varcare i propri confini. Dunque l’etica di Nietzsche non è affatto aristocratica: al contrario, è profondamente democratica, perché l’invito a “superare se stessi” viene rivolto a ogni individuo.
A questa prima precisazione bisogna farne seguire una seconda: gli essere umani possono oltrepassare se stessi perché sono flessibili, plastici. Se fossero rigidi, potrebbero cambiare, trasformarsi, tentare innumerevoli variazioni, ma sempre e soltanto all’interno delle proprie frontiere. In una celebre formulazione, Nietzsche afferma che l’uomo è “l’animale non ancora stabilmente determinato”. Non ancora va inteso come “non mai”. Ciò non equivale a dire che l’uomo è l’animale liquido, perché la liquidità non è una garanzia contro la rigidità. Si può essere liquidi e monotoni. Questo è un punto essenziale da chiarire: un soggetto rigido può essere mutevole, dinamico, nomadico (alla Deleuze). Non è necessariamente statico.
2.
Se questa tesi suona bizzarra, si può cominciare a comprenderla con un’immagine creata da Kafka: quella di un prigioniero in grado di spostarsi, perché le sbarre della sua prigione non sono conficcate al suolo; egli le porta a spasso per il mondo, restando sempre al loro interno. Oltrepassa i confini dei territori, non quelli che lo incatenano a se stesso.
Possiamo adesso considerare il problema da cui muove questa mia riflessione: viviamo, si dice, in una società che, non riuscendo più a percepire il senso e la funzione del limite, si trova di fronte a fenomeni di devastazione che potrebbero essere contrastati soltanto ritrovando la funzione perduta. La perdita del limite è descritta in vari modi: al linguaggio troppo epidermico della sociologia io preferisco quello della psicoanalisi. Viviamo nell’epoca dell’evaporazione del Padre, aveva detto acutamente Lacan, cogliendo il movimento di dissoluzione di tutte le figure autorevoli. E poiché il padre, quale che sia la sua realtà concreta, è il portatore della legge, a dissolversi è il rapporto dell’individuo con la Legge. Ne risulta un soggetto che si percepisce come senza limiti. “Non riesco a mettermi un limite” dice Andrea, un paziente di Franco Lolli; nel suo bel saggio, L’epoca dell’inconshow, Lolli utilizza questa frase per indicare due tipi di comportamento:
(a) quelli eccessivi e sregolati fino alla violenza contro di sé e contro gli altri: “Andrea vive costantemente sul punto di rovinarsi; quando beve, lo fa fino a stare malissimo, quando ‘tira’, si fa fuori in pochi mesi una quantità esagerata di soldi, quando litiga con la sua ragazza finisce col picchiarla e beccarsi una denuncia, quando viene fermato dalla polizia in stato di ebbrezza dice di essere stato malmenato dagli agenti procurandosi da solo contusioni e ferite al volto – sperando di poter ribaltare così la sua scomoda situazione”.
b) comportamenti innocui, che mostrano però l’incapacità di realizzare una qualunque meta: quale che sia l’obiettivo, il footing, imparare a suonare la chitarra, le donne, le sostanze, Andrea rincorre freneticamente il suo obiettivo solo per un po’ di tempo. Poi il desiderio – ammesso che lo si possa chiamare così – svanisce; e ne subentra un altro.
Constatiamo dunque non solo l’evaporazione del padre e della legge, ma anche l’evaporazione di un qualunque investimento libidico durevole. Il soggetto passa da uno sciame all’altro – dal gruppo della discoteca a quello della palestra, a quello dell’aperitivo, ecc., cambia e accumula i suoi Io come in un patchwork.
Gli psicoanalisti lacaniani, e in particolare Massimo Recalcati, che in questi anni ha saputo liberare l’opera di Lacan dai suoi gergalismi e l’ha proposta a un pubblico più ampio, interpretandola anche in maniera originale (il complesso di Telemaco) e facendone comprendere tutta l’importanza, descrivono questa situazione epocale mediante una coppia di termini: desiderio e godimento (jouissance).
Il desiderio è una forza che incontra la Legge, e ne accetta le limitazioni; il godimento è la spinta acefala a non accontentarsi del piacere, ma a puntare verso l’eccesso. Un eccesso mortifero e autodistruttivo – il termine godimento non indica solo l’intensificazione del piacere, ma la distruzione della vita, anzitutto e fondamentalmente la propria. In ciò si manifesta peraltro una tendenza dell’essere umano, che non ha una vocazione naturale all’equilibrio, al piacere omeostatico, alla misura. “L’essere umano non è un essere aristotelico, non si accontenta della via mediana, non è un ‘animale razionale’, ma, come afferma Lacan, un ‘essere di godimento’, un essere che tende a oltrepassare il limite, a preferire il godimento alla difesa della propria vita” (M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Cortina 2012, p. 98. Il corsivo è mio). Così l’individuo si trova a perseguire un “godimento senza Legge’, un godimento maledetto che lo trascina in una schiavitù distruttiva. Tutte le patologie contemporanee (anoressia, bulimia, tossicodipendenze) ne sono la prova.
3.
Freud ha dichiarato di non aver mai voluto leggere Nietzsche, perché temeva di esserne influenzato; negli scritti di Lacan il nome di Nietzsche è quasi assente. C’è da rammaricarsi di questo confronto mancato, perché la psicoanalisi – come mostra il passo appena citato da Recalcati – non è lontana dal concepire gli esseri umani come oltrepassanti. Se trasgredire significa “superare una soglia”, questo superamento potrà avvenire in diverse direzioni: contro la legge – così è stato per molto tempo, compresa la generazione del ’68; oppure contro la vita, come sta accadendo nella società attuale, in cui il dispositivo della legge sembra essere stato disattivato. Ci sono altre possibilità?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima riflettere sulla cornice che è stata finora delineata. C’è molta verità nel discorso che sottolinea la funzione del limite, la sua necessità nel bonificare e nel raffreddare un’incandescenza pulsionale che conduce a ledere se stessi, a distruggere il proprio benessere. Limitare il godimento, ricorda Recalcati, è il modo per ritrovare il desiderio; e la vera funzione del padre non è repressiva; consiste piuttosto nel mostrare una possibile alleanza tra la Legge e il desiderio. Tutto ciò appare pienamente condivisibile. Da dove nascono i miei dubbi?
Nascono da una contrapposizione troppo schematica, e penalizzante: quella che oppone il limite e il “senza limiti”. Davvero l’individuo che mira al godimento è un soggetto che abolisce il limite? Se fosse davvero così, se la spinta alla jouissance ci consentisse veramente di “oltrepassare il limite” – come non condividerla? Non realizzeremmo forse in tal modo la vocazione degli esseri umani?
A ben vedere, il limite si dice in molti modi: la Legge, oppure la vita, come è stato appena ricordato. Ma non abbiamo ancora messo a fuoco la distinzione più importante. La vedremo tra un attimo. Riflettiamo ancora sull’inconsistenza di quella che potremmo chiamare l’ideologia del senza limiti, rispetto alla quale anche la psicanalisi lacaniana, pur così raffinata, sembra trovarsi in una posizione prevalentemente difensiva. Temo che non sia sufficiente insistere sul ruolo positivo della Legge in rapporto al desiderio (forse, c’è anche il rischio della banalizzazione: una Legge per amica?), finché si concede al godimento il privilegio di puntare all’eccesso.
Nessuno di noi può abolire il limite. Possiamo solo scegliere quale limite accettare: insomma, non è possibile fare lo scambista e contemporaneamente vivere un amore romantico, strafarsi con una qualche sostanza oppure “strafarsi” con Proust e Heidegger (immagino che qualcuno continuerà a ritenere preferibile la prima opzione); e così via. Ma la scelta decisiva è quella tra tentare di oltrepassare se stessi oppure vivere come il prigioniero di Kafka, in perenne movimento, ma pur sempre dietro le sbarre. In quest’ultimo caso il soggetto non abolisce il limite, semplicemente lo sposta – continuamente, freneticamente, ma anche sterilmente.
4.
Il soggetto della jouissance non è affatto un soggetto oltrepassante: continua a coincidere con se stesso. Ha rinunciato a oltrepassare il Grande Limite. Non è un soggetto flessibile. Non si tratta dunque di proporre un limite al godimento, perché quel limite è già nel godimento. Bisogna semmai mostrarlo, smascherando le illusioni dell’illimitato. E non si tratta di distogliere dagli eccessi in nome di una ritrovata funzione dell’equilibrio e del giusto mezzo. Il soggetto oltrepassante non mira al giusto mezzo, ma al giusto estremo.
Un’ultima osservazione. Nel Seminario VII, Lacan afferma che essere fedeli al proprio desiderio è l’unico precetto di un’etica psicoanalitica. Una formulazione che è apparsa a molti ambigua, ma che andrebbe considerata semmai come incompleta, e che Nietzsche ci invita a completare. La fedeltà al desiderio di oltrepassamento – questo è la vera chiave di lettura. Ma anche la massima di Nietzsche va completata, alla luce delle forme di soggettività contemporanea: “Non pensare a trasgredire la legge o la vita; tutto ciò risulterà inutile, sterile, monotono, se resterai nei tuoi confini, se non saprai essere flessibile, nell’accezione superiore di questo termine, cioè se non saprai vivere nella non-coincidenza con te stesso”.
Non si tratta dunque di opporre il limite all’assenza di limite, bensì la capacità di varcare i limiti – impresa che richiede tempo, pazienza, consapevolezza – alla Grande Monotonia, quella di chi non riesce a varcarli. Il caso di Andrea (il paziente di Franco Lolli) ce lo conferma in modo paradossale. Se ogni investimento libidico durevole viene abbandonato dopo breve tempo, è perché ogni durata viene percepita come monotonia; e se ogni monotonia è insopportabile, e provoca movimenti di fuga, è perché il soggetto la percepisce come diffusa in tutto il suo essere – come ciò che riempie inesorabilmente e rapidamente il suo vuoto. In effetti, non c’è nulla di più noioso che restare confinati dentro di sé.