I fatti sono stupidi (Nietzsche)

25 Agosto 2015

1. Immaginiamo un docente universitario di filosofia che all’inizio delle lezioni si rivolge agli studenti e chiede se qualcuno ha portato con sé il manuale adottato per quel corso. Gli studenti, dando prova di particolare zelo, estraggono il testo dalle loro borse: il professore legge la frase di apertura, poi commenta: “Stupidaggini” (forse si serve di un’espressione più colorita); e invita gli studenti a strappare la prima pagina di quel testo, e a gettarla via.

 

Probabilmente la maggior parte dei lettori ha riconosciuto la scena che ispira la mia riflessione: è tratta da un film, L’attimo fuggente (1989), di Peter Weir. Nel mio esempio, l’analogia riguarda il fatto che il docente (come il professor Keating) si trova a utilizzare un manuale non scelto da lui; la differenza riguarda il tipo di manuale, non letterario bensì filosofico. Ebbene, qual è l’affermazione che il protagonista del mio esempio considera una stupidaggine? È la tesi di un filosofo analitico, Willard Van Orman Quine, ed è stata enunciata in un saggio del 1948 pubblicato in volume nel 1953. Suona esattamente così: «Una strana caratteristica del problema ontologico è la sua semplicità. Esso può venir posto, in inglese, con tre sole parole: 'What is there?'».[1]

 

René Magritte, Le Trahison des images, 1928-29

 

2. Perché quest’affermazione è stupida? E, ammettendo che lo sia, come è possibile che continui a ricevere tante adesioni? Mi limiterò a menzionare un testo piuttosto recente: “La metafisica e l’ontologia, a ben guardare, ruotano attorno a una semplice domanda: che cosa esiste?”.[2] Inoltre: ammettendo che questa tesi sia falsa, o quantomeno riduttiva in una misura difficile da accettare, perché utilizzare un giudizio così sprezzante? Stupido è un insulto. O forse no: forse è l’unico termine in grado di indicare con assoluta pertinenza una deformazione del pensiero – in particolare, del pensiero filosofico. Il problema della bêtise in filosofia è stato introdotto da Nietzsche, e a partire dalla sua prospettiva va considerato inaggirabile. L’obiezione di alcuni lettori, allora, potrebbe essere questa: non è lecito utilizzare con arroganza una nozione che sfida le possibilità di definizione, e che potremmo concedere a un filosofo immenso come Nietzsche, non a un qualunque professore universitario (che, tra l’altro, non è neppure inquadrato nei settori scientifico-disciplinari che garantirebbero la sua competenza). L’obiezione è del tutto sensata, e merita che vi si replichi: in primo luogo, la mia intenzione è di riprendere e sviluppare il problema posto da Nietzsche; non sono guidato da nessuna identificazione delirante ma dal proposito di chiarire enunciati, il cui significato e la cui importanza non sembrano essere stati abbastanza compresi; in secondo luogo, può darsi che una posizione periferica (dal punto di vista istituzionale) favorisca l’enunciazione di una verità – e renda più agevole chiamare le cose con il loro nome. Tutto quello che chiedo al lettore è di tener conto della estrema schematicità a cui sono costretto in questa sede, per ragioni di spazio, e anche per l’intento di farmi comprendere dal pubblico più ampio possibile.[3]


I fatti sono stupidi: così afferma Nietzsche nella Seconda inattuale (1874). Come molte altre enunciazioni aforistiche, la sua tesi esige di venir interpretata. Dovrebbe essere palese che un fatto non è “stupido” come un certo oggetto è giallo, oppure pesante, oppure sferico, ecc. Dunque “stupido” non è la proprietà di un fatto, ma il carattere di una prospettiva; insomma, la tesi di Nietzsche può venire riformulata in questo modo: c’è una bêtise ontologica, esiste un’ontologia stupida.

 

Quale sia questa ontologia, Nietzsche lo ha indicato in un famoso frammento, dove incontriamo un’altra formulazione aforistica, “Non ci sono fatti ma solo interpretazioni”: questo frammento, a mio avviso, non può essere né discusso né compreso adeguatamente se non a partire dalla Seconda Inattuale. In ogni caso, per Nietzsche l’ontologia stupida è il positivismo, nelle sue diverse versioni (compresa ogni forma di realismo). Ma perché il positivismo è stupido?

 

Lo si può capire a condizione di acquisire alcuni progressi decisivi, e di sviluppare una prospettiva che nelle mie auctoritates è rimasta troppo implicita.

 

Franz Kline, Untitled

 

3. I primi due sono stati realizzati nel 1927, in Essere e tempo di Martin Heidegger. Il paragrafo 7 contiene l’affermazione filosofica più importante del XX secolo: “Più in alto della realtà (Wirklichkeit, realtà effettuale), sta la possibilità”. In altri termini, l’ontologia deve occuparsi non solo di ciò che c’è, ma del possibile – anzi, deve assegnare il primato alla possibilità rispetto all’effettualità. Ma questo primo passo rimane incompreso senza il secondo, che viene esplicitato solo nel par. 31. Se ci fermassimo al par. 7, saremmo costretti ad ascoltare le proteste in parte giustificate del filosofo analitico, cioè dell’odierno positivista: come ignorare gli sviluppi delle logiche modali, e la teoria dei mondi possibili, negli ultimi decenni? Come negare che la possibilità ha ricevuto una crescente attenzione, non in Quine, ma in molti studiosi a cui stiamo attribuendo la medesima fallacia?

 

Ebbene, non è affatto vero che la teoria dei mondi possibili abbia rovesciato, o modificato, il primato della realtà rispetto alla possibilità: lo si può verificare facilmente considerando gli esempi che monopolizzano l’attenzione di questi studiosi: “Domani a Milano potrebbe piovere”, “È possibile che Hillary Clinton vinca le prossime elezioni per la presidenza degli Stati Uniti”, ecc. Non ci sono dubbi: ciò che viene discusso sono unicamente possibilità effettuali, cioè possibilità modalmente subordinate all’effettualità.

 

Non è facile, non è semplice – soprattutto nelle mosse iniziali l’ontologia non è semplice, come recita la bêtise di Quine –, render conto di ciò che Heidegger compie nel par. 31, ma forse la maniera migliore per presentarlo è questa: viene introdotto il conflitto nella possibilità. Non si tratta, per esempio, di immaginare un mondo possibile in cui Antigone si lascia convincere da Ismene a non sfidare l’autorità di Creonte, ma di un conflitto tra possibilità che, in prima istanza, chiameremo “esistenziali”, e che riguardano l’identità di ciascuna delle due fanciulle, nell’opera di Sofocle. Ciò che ci appassiona in quest’opera è se Antigone ha saputo interpretare la propria possibilità più autentica (o superiore): se, come si è chiesto Lacan, è stata fedele al suo desiderio. Problema di grande complessità, come testimoniato da una serie di grandi interpretazioni, a cominciare da quella di Hegel.

 

Ho introdotto un esempio notissimo, ma ad esso potrebbero affiancarsene molti altri: se c’è qualcosa che definisce la letteratura, è l’adesione implicita alla formulazione di Heidegger: “Più in alto della realtà sta la possibilità”, da intendersi non soltanto come costruzione di mondi possibili, ma come interpretazioni di possibilità. Ovviamente, ogni scrittore costruisce un mondo: questo è vero, come è vero che la mia identità viene definita correttamente dalle caratteristiche (fattuali) indicate nei miei documenti. Ma sarebbe bête credere che la mia identità, come quella di qualsiasi essere umano, sia definita principalmente da questo tipo di caratteristiche, o sia riducibile a un elenco, eventualmente molto più lungo, di proprietà. L’ente che noi stessi siamo, per citare Heidegger, non è (se non parte, ovviamente) un ente proprietario. Né lo è un qualsiasi personaggio che nella storia della letteratura sia stato giudicato degno di interpretazione.

 

Joseph Kosuth, One and Three Chairs, 1965

 

4. Che cosa manca alle intuizioni ed elaborazioni di Nietzsche e di Heidegger? Ebbene, qualcosa di essenziale: manca l’elaborazione di una logica, cioè del pluralismo logico. “Non esiste LA logica, esistono soltanto stili di pensiero”: ecco un’interpretazione di “non ci sono fatti ma solo interpretazioni”. Tocca a noi articolare e costruire la logica, di cui Nietzsche e altri pensatori si servono implicitamente. Quando afferma che “la sovranità della ‘logica’ può essere lesa”, Heidegger mette “logica” tra virgolette, [4] per respingere la fallacia secondo cui esiste sostanzialmente un solo stile logico (che accomuna Aristotele e Frege, la logica classica e le sue possibili varianti). Ciò che viene rifiutato e infranto nel pensiero di filosofi come Eraclito, Hegel, Heidegger, è l’alleanza tra logica e rigidità. Senza negare la parziale legittimità del pensiero rigido, questi autori si sono serviti di una logica flessibile: tuttavia, non sono mai riusciti a descriverne i principi, e i modi di funzionamento.


 

Mi limiterò a indicare uno di questi principi, il più importante: è il principio di non-coincidenza. Esso afferma che l’identità non è necessariamente la relazione che un ente ha soltanto con se stesso (questa è l’identità nel modo della coincidenza), ma può manifestarsi come la relazione costitutiva tra un’identità e un’altra identità. Ancora una volta, è la letteratura che ci mostra in forma eminente l’essenzialità di questo principio, sia che venga espresso in prima persona (“Io sono Heathcliff”) sia che risulti inferibile dalla narrazione; ad esempio, Emma Bovary si identifica con le eroine romantiche, ed è questa relazione che costituisce la sua identità. In ogni processo di identificazione complesso (non effimero), è il principio di non-coincidenza ad affermarsi.

 

Cindy Sherman, Doll Clothes, 1975

 

5. Soltanto in questa prospettiva possiamo costruire una teoria dell’interpretazione all’altezza del nostro tempo. Ne ricordo i tratti principali: (a) un’ontologia pienamente modalizzata; (b) una teoria degli stili di pensiero, e dunque del pluralismo logico.

 

In assenza di questo programma di ricerca, non ci resta che la vecchia ermeneutica (Gadamer, Ricoeur), non trascurabile, ma pesantemente limitata, oppure l’interpretazione praticata e teorizzata dal postmoderno: cioè una versione del relativismo, concettualmente sterile, e nei cui confronti anche il più sciocco dei positivisti poteva muovere obiezioni sensate. Spero di aver mostrato che l’interpretazione non è semplicemente un’iniezione di senso, non è soggettività doxastica, bensì l’analisi di enti (reali o finzionali), il cui statuto è la flessibilità: non la flessibilità ontica (sempre più diffusa, peraltro, nel mondo contemporaneo, ed enfatizzata dalla pubblicità – ad esempio, un mutuo bancario), ma quella ontologica, vale a dire la non-coincidenza con se stessi. La bêtise logico-ontologica è la negazione di questo principio.

 

 

 

[1] Cfr. Quine, Da un punto di vista logico (1953), trad. it, Cortina 2004.

[2] Cfr. il capitolo “Metafisica e ontologia (o dell’inizio)", in La filosofia contemporanea (a cura di T. Andina), e con Prefazione di M. Ferraris, Carocci, Roma 2013, p. 25. Per la precisione, il paragrafo qui citato è stato scritto da Andrea Borghini.

[3] Per i problemi qui discussi, mi permetto di rinviare a G. Bottiroli, La ragione flessibile. Modi d’essere e stili di pensiero, Bollati Boringhieri, Torino 2013.

[4] Heidegger, Che cos’è metafisica?, (1929) in “Segnavia”.

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