Birmania. Effetto doppler

18 Gennaio 2016

Caruso adesso è seduto di fronte a due persone che non pensa di avere mai incontrato prima. Un giardino tropicale circonda il bungalow dove stanno parlando. Palme, chicas, banani, pipal, rain trees, avvolgono uno stagno dove nuotano enormi carpe scure. Che sia fresco anche a quest’ora è dovuto a chi ha costruito questo posto vent’anni fa, dei produttori birmani di tabacco che volevano investire in qualcosa di bello e duraturo. Le stanze dell’hotel sono altri bungalow circondati da acque, un tempio accoglie chi entra nella tenuta, un tempio con un nat, uno spirito protettore, di quelli che il Buddismo birmano ha assorbito dal pantheon animista preesistente. Parlano di fronte a una birra. Caruso chiede quando sono arrivati in questo paese, com’è successo? I due archeologi, una coppia, lei sessantenne, lui più anziano di una decina d’anni, dicono che hanno cominciato a venire nel Sud-Est asiatico per scelta. Lei era stata in Pakistan, una missione difficile, inviata lì come unica donna orientalista dal grande, temibile Giuseppe Tucci. Allora l’Ismeo, l’Istituto per l’Oriente diretto da Tucci accettava solo uomini. Patrizia era stata la prima donna a entrarvi dopo un apprentissage durissimo. Proprio per questo Tucci l’aveva presa per seguirlo in imprese difficili, come raggiungerlo nello Swat. Così, in quegli anni lei si era trovata a superare sfida dopo sfida, con pochi soldi, sola in viaggio in posti difficili, vivendo per mesi in capanne con la gente, camminando per centinaia di chilometri, prendendo mezzi locali, dormendo dove poteva. In uno di questi viaggi aveva conosciuto Mauro, anche lui archeologo con una passione viscerale per il Sud Est Asiatico. Poi alla morte di Tucci entrambi avevano cominciato a lavorare sul patrimonio vietnamita, nel posto più bombardato dagli americani, My-Son, che non avevano risparmiato un solo tempio khmer. Il grande mondo della ex-Indocina e quello adiacente dell’ex-Siam li avrebbe accolti e invitati negli anni a venire. Patrizia e Mauro avevano scelto una via esclusiva alla loro coerenza militante – quella degli anni ‘70, volevano dare una mano a un Vietnam vittorioso ma distrutto e da lì operare in Laos, Cambogia e Birmania. Il Vietnam, raccontano a Caruso, era stata una grande soddisfazione. Lo è ancora. Erano riusciti a lavorare col governo, e soprattutto a formare archeologi e quadri locali e a far passare un’idea di parco archeologico come un territorio dentro cui viveva gente, villaggi, campi coltivati, buoi e stagni pieni di pesci, serpenti e rane. Un paesaggio da preservare come lo erano le rovine magnifiche delle civiltà che avevano fondato quei luoghi. Mentre raccontano, Caruso si rende conto che hanno riferimenti comuni, cose e persone vissute negli stessi anni, amici, traiettorie che si sono incrociate numerose volte. Si comincia a chiedere se si siano conosciuti prima, soprattutto se ha conosciuto lei, prima moglie di un amico palermitano che aveva incontrato negli anni settanta. La loro storia procede. Come sono arrivati qui, a Pyay, in Myanmar. Mauro ha un accento nordico, ma sfumature romane, un uomo pacato e autorevole, massiccio, con un gusto preciso nel parlare. Patrizia è irruente, prende la parola continuamente. Lui, interrotto, la lascia parlare, poi riprende. Sa di dovere cedere il passo all’irruenza di lei che vuole dire tutto, un bisogno impellente. Un gioco di coppia dove entrambi sanno contraddirsi e consentirsi, ma per chi, come Caruso, è esterno, sono le storie, i contenuti, l’incredibile conoscenza che in questa dialettica viene fuori. Patrizia ha occhi vivacissimi, doveva essere, pensa Caruso, “un tipo”, una tutto fuoco, un argento vivo. C’è qualcosa nel modo di fare di lei che gli è familiare. Cerca, cerca di capire se l’ha incontrata allora. Si chiede se quarant’anni, trent’anni prima l’avesse incrociata. Cerca nei tratti di lei una somiglianza che gli riporti quella persona forse già conosciuta. Stamane lei lo ha portato in giro per il sito magnifico, enorme, dove stanno scavando la città dei Pyu, un popolo di cui si sa pochissimo, che ha costruito una cinta muraria immensa, e che non ha mai combattuto una battaglia. Allora perché questa muraglia e i resti monumentali di Pagode, chorten, templi? Hanno convinto il governo di questo paese, la giunta militare nelle sue espressioni più aperte, a preservare questo sito. Nel 2003 erano gli unici italiani invitati alla “Road for Peace” che avrebbe dovuto aprire la Birmania alla democrazia, poi invece è stata la repressione e il ritorno di anni bui. Ma la loro presenza costante ha garantito che adesso, con l’apertura del paese dopo le elezioni e la vittoria della Aung San Suu Kyi, siano diventati i referenti dell’Unesco per la salvaguardia del patrimonio birmano qui e nell’altro incredibile sito di Bagan, nel nord del paese, con 3000 templi in una immensa pianura di giungle sparse.

 

Impressionante, pensa Caruso, trovarsi con degli italiani che hanno vissuto qui da protagonisti e che lo sono ancora, che sono riusciti a bypassare un regime terribile, che hanno imposto scuole di formazione per archeologi e operatori turistici. Qualcosa che nemmeno in Italia è successo, con i mille problemi delle sovraintendenze, lo scandalo di Pompei e dei musei siciliani, lo sfascio del turismo archeologico. È a questo punto che si fa sentire l’effetto doppler. Caruso pensa che c’è qualcosa di strano nell’aver vissuto. Che il fatto di condividere con queste persone un certo numeri d’anni e di esperienze comuni ha uno strano effetto. A che serve essere “avanti negli anni”? Non gli importa molto riflettere sulle conseguenze banali, sugli acciacchi o sul vissuto, quello che lo impressiona è capire questa eco, questa contemporaneità che gli torna dal tempo del già. Ma la cosa che più lo colpisce è di potere e non potere allo stesso immaginarsi come era Patrizia, come era Mauro e cosa di loro, pur non avendoli forse conosciuti allora, ricorda. È un effetto strano, una riverberazione, un rifrangersi dei presenti di allora nel presente di adesso. Vorrebbe scavare nei volti, trovare i volti di allora in quelli di adesso, o forse il contrario, quelli di adesso che sono il frutto di un magnifico sviluppo dei volti di allora. Perché questi due sono dei casi straordinari di successo, essere riusciti a fare nell’arco di quarant’anni qualcosa di impensabile, avere salvato paesi interi con il loro patrimonio, avere davvero avuto effetto su mondi apparentemente lontanissimi. E poi pensa che una volta l’Italia era così, un paese dove uno come Giuseppe Tucci diventava il massimo esperto mondiale di cultura tibetana e lo diventava “sul campo” in cento spedizioni e conoscenze di posti e persone. L’orientalistica era una disciplina coltivata e una fitta arriva appena capisce che l’Ismeo non c’è più, il patrimonio di libri ivi contenuti dispersi negli anfratti di un orrido dimenticatoio ministeriale. Caruso aveva lavorato negli archivi fotografici, toccato le lastre delle spedizioni di Tucci in Afghanistan e tutto questo non esisteva già più. E di questa incredibile ricchezza ecco due protagonisti, ancora, fortuitamente incontrati qui in Birmania.

 

Caruso non sa se essere fortunato o meno nell’essere loro contemporaneo, quasi coetaneo, perché questo gli consente di vibrare con loro, di sentire come e da dove sono arrivati qui. E di chiedersi il senso del tempo. Perché Caruso non vuole perdonare il tempo: esso rimane inscrutabile e imperdonabile, ma non nel senso della sua irreparabilità, ma proprio nel mistero della sua inutilità. Perché al posto del tempo non c’è un continuo effetto doppler, perché il tempo non si fissa da qualche parte (lo diceva Shakespeare, “Ma il pensiero è lo schiavo della vita e la vita è il buffone del tempo ed il tempo che abbraccia tutte le cose si deve fermare”, Enrico IV)? Perché essere soggetti alla sua banalità? Perché ogni considerazione utilitaristica del tempo è stupida, pensa Caruso, no il tempo non serve, rimane un assurdo. Eppure, nonostante la sua inutilità il tempo è in questo caso una chiave per entrare dentro, andare più in profondità nei destini altrui, nelle avventure di vita altrui. E questo è già qualcosa.

 

E poi pensa che l’effetto vertigine che prova è il non riuscire a mettere insieme l’assoluto presente di questi due col tempo che c’è voluto. Forse Caruso è solo smarrito dal fatto che questi esseri allo stesso tempo siano e non siano giovani come lo è il presente.

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