Boris Mikhailov: Ukraine

19 Ottobre 2015

Avanzando verso la folla che si ammassa in fila scomposta in via Rosine 18 ci si accorge subito che ci sono i numeri delle grandi occasioni. È la serata di inaugurazione di Camera-Centro Italiano per la Fotografia che apre con la grande mostra retrospettiva dedicata al fotografo ucraino Boris Mikhailov. La scelta di questa prima esposizione non è banale, anzi è piuttosto coraggiosa. Nelle piazze di Torino campeggiano i manifesti pubblicitari in cui un’immagine dell’autore invita i torinesi all’esposizione con una grassa e irriverente pernacchia. Se è vero che Mikhailov è ormai considerato un maestro, forse il più grande fotografo vivente del vecchio blocco sovietico, è anche vero che è un autore ancora per lo più sconosciuto al grosso pubblico. Mi chiedo come reagirà la città a questa proposta. Con i suoi 2000mq dedicati al linguaggio fotografico Camera, negli spazi della prima scuola pubblica del Regno d’Italia, ristabilisce tra Torino e la fotografia un legame a lungo interrotto e si pone come istituzione di riferimento per valorizzare la tradizione fotografica del nostro paese e portare l’Italia al centro del panorama internazionale. La scelta della mostra di apertura di uno spazio così importante non può, quindi, che caricarsi anche del valore di una dichiarazione di intenti.

 

L’aspetto che mi sembra essenziale e più vitale del lavoro di Mikhailov è la sua forza nell’aprire una riflessione sull’instabilità e l’ibridazione che caratterizza il linguaggio fotografico contemporaneo. Non è un caso che il percorso della mostra ponga subito l’osservatore di fronte all’incertezza visiva. Ad accogliere i visitatori non c’è, infatti, il solito pannello esplicativo con informazioni sulla biografia dell’autore, ma una sala buia in cui viene proiettata una delle sue prime serie, Superimpositions, realizzata tra il 1968 e il 1975. Negli anni ’60 Mikhailov è un ingegnere con la passione per la fotografia. Immortala in maniera onnivora frammenti di vita quotidiana e, con lo sguardo e l’atteggiamento libero dell’autodidatta, si ritrova per caso a sovrapporre due diapositive e a guardarle in controluce. Scopre così che in quella sovrapposizione poteva aprirsi un infinito mondo di possibilità creative.

 

Boris Mikhailov, dalla serie Superimpositions, 1968–75

 

Il risultato è sorprendente. Gli austeri simboli del comunismo sovietico sono giustapposti a corpi nudi e scene dissacranti. Gli alti, immateriali, statici riferimenti visivi del regime sono squassati e sovvertiti dall’irrompere della sensualità della vita. È un surrealismo carnale che rende tutto instabile, che si apre all’inaspettato, intrinsecamente resistente al rigido codice sovietico. “Cos’è Soviet?”, dice Mikhailov, “la mediocrità. Sopra e sotto la mediocrità c’è la vita. C’è l’eleganza e la volgarità”. E allora le sue immagini sandwich, come le chiama lui stesso, diventano una sfida contro la noia e la mediocrità del sistema sovietico, ma sono nello stesso tempo anche una sfida ai limiti della fotografia, alla sua possibilità di rompere i confini con altri linguaggi. Mentre si osserva la proiezione di queste immagini, che scorrono sulle note di The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, ci si immerge in un’esperienza quasi cinematografica e tornano alla mente il cine-occhio di Dziga Vertov e le sue stranianti invenzioni di montaggio.

 

Come tutti gli sguardi non conformi anche Mikhailov non ha vita facile in epoca sovietica. Nasce nel 1938 in Ucraina, a Kharkiv, città di industrie, uno dei centri più importanti per la produzione di armamenti in URSS. Studia ingegneria e trova lavoro presso una fabbrica di missili. Un impiego piuttosto noioso, racconta, ma la noia durerà poco. Verrà scoperto infatti a stampare alcune foto di nudo della sua compagna nella camera oscura aziendale e licenziato con l’accusa di pornografia. La nudità è un tabù assoluto in quegli anni ma proprio il corpo, spesso nudo, rimarrà un elemento costante della fotografia di Mikhailov. Il KGB gli punta gli occhi addosso e non glieli toglie fino al crollo del regime. La società controlla lo sguardo, controlla dove e come guardare ed è proprio in quegli anni che Mikhailov decide di fare dello sguardo il centro della sua attività: si dedica completamente alla fotografia e va a ricercare quella vita che scorre sopra e sotto la linea grigia di mediocrità. Il percorso della mostra, organizzata in ordine cronologico, continua verso altre due serie significative di quegli anni, Black Archives (1968-1975) e Red Series (1968-1975), in cui si entra maggiormente in uno degli aspetti fondamentali del suo lavoro: la sperimentazione continua sul linguaggio, capace di flirtare nello stesso tempo sia con la tradizione concettuale che con quella documentaristica. Emerge poi un altro elemento centrale: per raccontare la storia della fine di un mondo Mikhailov parte dalle energie naturalmente sovversive del privato. Sovversive perché imperfette e incomplete, nemiche di ogni tipo di forma predeterminata. Il suo sguardo ci consente di vedere quello che allora rimaneva invisibile. Nelle sue immagini mostra una vita che nella sua banale indifferenza si oppone spontaneamente al monolite della forma storica. E nel fare questo la sua fotografia si carica di una valenza fortemente sociale. Mikhailov colleziona semplici elementi di vita quotidiana ma le immagini si connettono tra loro e parlano. Nella sequenza di Black Archives è forte la contrapposizione fra interno ed esterno, fra la vita che scorre libera nell’intimità dei luoghi privati e quella che si irrigidisce nei controllati spazi pubblici. In questa contrapposizione l’esistenza dei suoi contemporanei diventa qualcosa di misterioso e sfuggente. La donna, sia all’interno delle case sia nel contesto sociale, appare poi quasi sempre come un fondamentale elemento di rottura dell’ordine e del grigio macismo sovietico.

 

Boris Mikhailov, dalla serie Red, 1968–75

 

In The Red Series Mikhailov si concentra invece sul colore rosso, onnipresente simbolo del Soviet, e comincia a dipingere sulle immagini scattate alle manifestazioni del regime e in contesti di normale quotidianità. Il rosso invade lo sguardo e unisce i simboli del partito a banali oggetti di tutti i giorni. Questo lavoro lo avvicinerà agli artisti concettuali russi, in particolare a Ilya Kabakov che vi vedrà un deciso atto di affermazione di libertà da parte di un cittadino sovietico che non si limita a presenziare docilmente alle parate ufficiali ma interviene per rendere quelle parate più gioiose e festive. O forse, come suggerisce lo stesso Mikhailov, più volgari e vicine alla realtà. Insomma meno ideali, meno rispettabili. Ancora una volta, i limiti dell’ideologia urtano contro la vastità delle libere combinazioni della vita reale. Sul muro opposto della stessa sala, a dialogare con The Red Series, il curatore Francesco Zanot pone giustamente un altro lavoro che ha a che fare con il concetto di realtà manipolata e falsata: Luriki (1976-1981) in cui l’autore interviene colorando a mano fotografie anonime, rendendo pubbliche memorie private, mostrando così i volti dei suoi compatrioti “senza volto”.

 

Allestimento della serie At Dusk

 

Il percorso espositivo continua con una delle sale più interessanti, in cui viene presentata una selezione delle due serie Crimean Snobbism (1981) e At Dusk (1993). Scattate con una macchina panoramica e immerse in un blu monocromo, le immagini di At Dusk fanno parte dell’indagine che Mikhailov compie sulla sua città, Kharkiv, dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica. Il colore del crepuscolo diventa un filtro attraverso il quale osservare e rappresentare una società in profonda e complessa trasformazione. Le immagini di questa serie sono spesso brutali anche se velate dalla sottile poesia nostalgica del tono blu: non sembra esserci un confine tra la vita e la morte, tra il sonno e l’oblio, tra il buio e la luce. Gli individui ritratti sono i sopravvissuti della distruzione dell’impero sovietico ma quasi mai vediamo i loro volti, piuttosto le loro spalle mentre si incamminano verso strade senza direzione. Eppure, scatta l’identificazione. Queste persone sono prive di identità, anonime, fanno parte di una collettività frammentata e smembrata che, in qualche modo, ci comprende pur vivendo centinaia di chilometri lontano da Kharkiv. Ci comprende come membri di un’anonima comunità post-industriale. Le immagini ci raccontano una specifica situazione storica e sociale ma ci parlano anche di una comune esperienza contemporanea: si tratta di un momento di sospensione e transizione, dell’essere persi in un tempo non definito. C’è la straniante sensazione di trovarsi di fronte a vecchie immagini del presente scattate con il senno di poi.

 

La caduta dell’Unione Sovietica rompe barriere non solo geografiche, economiche e sociali, ma penetra nel modo di guardare e sconvolge anche la relazione di soggetto-oggetto, di realtà e rappresentazione. Altro capitolo dell’indagine sulla Kharkiv post-comunista è la famosa e controversa serie Case History, quella che ha reso Mikhailov celebre in Occidente. Questa volta il rapporto con il soggetto cambia. Nello sconvolgimento economico del suo paese l’autore riconosce l’emergere di nuovi protagonisti, un gruppo sociale fino ad allora invisibile: i cosiddetti “bomzhes”, i nuovi poveri, i senzatetto. Avverte l’urgenza di raccontare questo cambiamento, così come, dice Mikhailov, le missioni fotografiche americane avevano raccontato la Grande Depressione. Ma se l’intento è simile le modalità non potevano che essere completamente diverse. Mikhailov coinvolge i suoi protagonisti in azioni, li mette in posa, spesso come i soggetti della grande pittura sacra, e mostra i loro volti e i loro corpi malati, segnati, nudi. Fotografarli di nascosto, dice, non sarebbe stato etico: entrare in comunicazione con loro significava superare delle resistenze interne e di nuovo rompere delle barriere. L’indagine sulla vita tocca qui una profondità sconcertante. Le immagini di grande formato, esposte senza cornice in un lungo corridoio, sono in qualche modo oscene e bellissime nello stesso tempo, il loro realismo carnale respinge e attrae con una grande forza emotiva. La mostra si chiude con l’attualità, attraverso la serie The Theatre of War realizzata in piazza Maidan a Kiev nel 2013, durante i giorni delle proteste che hanno portato l’Ucraina al centro della cronaca. Le stampe di grande formato mostrano soprattutto i momenti di attesa e di sospensione tra gli eventi. I segni pittorici su alcune delle immagini sottolineano l’artificio di ogni tentativo di informazione anche se, in questo caso, mi sembra rimangano un gesto piuttosto esteriore e forzato, sguarnito della potenza evocatrice delle precedenti sperimentazioni.

 

Boris Mikhailov, dalla serie Case History

 

Insomma, Camera sceglie di aprire con un autore non semplice, ribelle, a tratti disturbante, lontano dalla classica tradizione fotografica occidentale, eppure estremamente contemporaneo nel suo modo di guardare al rapporto tra realtà e rappresentazione. La nascita di un’istituzione di questo tipo – che coinvolge sia il pubblico che il privato – è sicuramente una grande opportunità. In Italia c’è ovviamente bisogno di investimenti per una maggiore attenzione nei confronti del linguaggio fotografico, di una didattica inclusiva e non proibitiva, della valorizzazione dei giovani talenti del nostro paese. C’è bisogno di istituzioni che diventino un reale luogo di dibattito e di scambio e che lavorino per la divulgazione di una cultura fotografica e la formazione di un pubblico consapevole. Questo non può, a mio avviso, essere fatto che a partire da uno sguardo assolutamente contemporaneo che – come quello di Mikhailov – sappia indagare nello stesso tempo la realtà e i limiti della fotografia, la sua capacità di arricchirsi della sua natura instabile e dell’ibridazione con altri linguaggi. E forse per divulgare c’è bisogno più di coraggio che di prudenza, di scelte non scontate, di strappi e di rotture. Insomma, se fosse questa la dichiarazione di intenti, allora sì, sarebbe una gran bella novità.

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