Speciale
Campioni # 5. Elisa Biagini
Elisa Biagini, Impatient of the fewest words (dialogo tra Emily e Paul)
da Ead., Da una crepa («Bianca» Einaudi, aprile 2014), p. 95
In piedi, sulla soglia,
il mio occhio nella tua
mano, la tua lingua
sul mio orecchio:
così ci conosciamo,
toccandoci, perché
la pupilla è sgranata
per lo sforzo, le papille
come scartavetrate.
Se l’asse cede, se la
voce affonda,
c’è qui,
nell’aria, la
parola-ramo
che ci tiene.
Impatient of the fewest words.mp3
*
L’opera di Elisa Biagini, che da ormai un ventennio si è ritagliata un ruolo di primo piano nel panorama della letteratura italiana contemporanea – Da una crepa è la terza raccolta pubblicata per Einaudi dopo L’ospite (2004) e Nel bosco (2007), ma il suo esordio risale al novembre 1993 con Questi nodi – ruota in gran parte attorno al tema del corpo, di un corpo che pensa e agisce se stesso a partire dai dati primi della sua fisicità. Parafrasando Antonio Prete, che per Giacomo Leopardi ha coniato la celebre formula del «pensiero poetante», potremmo parlare per Biagini di una sorta di “corporalità poetante”, ovvero di un progetto permanente di comprensione dell’io e del mondo che passa per un confronto serrato con le verità fisiologiche più intime ed essenziali.
I suoi versi infatti instaurano uno scenario dove il pensiero non è abolito, ma viene chiamato a misurarsi con il non-sapere di un corpo ignorante e sordo, eppure da ascoltare in quanto unica possibile fonte di percezione (non siamo distanti dall’idea lacaniana di «ignoranza come passione»). Decisivo risulta in tal senso il tentativo di interpretarsi cercando di sbrogliare la matassa dei nessi che legano la corporeità, il nostro essere-corpo, con i molteplici livelli emotivi, sociali, politici attraverso cui l’individualità si determina e stabilisce la propria posizione nel mondo: nel che è ravvisabile una profonda sintonia tra l’opera di Biagini e quella di molte fra le migliori esperienze della poesia e dell’arte contemporanee (penso ad esempio ad artiste visive di rilievo internazionale come Kiki Smith e Mona Hatoum).
Al centro della sua scrittura troviamo insomma una forte istanza identitaria, l’urgenza di conoscersi, e riconoscersi, attraverso un inesausto processo di scandaglio della realtà, intendendo con questo termine lo spazio fisico e umano che si struttura a partire dal vissuto di quella macchina imperscrutabile e irreversibile che chiamiamo – che ci fa dire: – “io”. Per questo, pur riferendosi costantemente al piano della quotidianità, compresa la più banale e routinière, la scrittura di Biagini rifugge sempre dall’orizzontalità consolatoria dell’aneddoto, puntando semmai a immergersi negli abissi verticali della coscienza, così da depurare, direi quasi decantare – nel doppio senso di “filtrare” e di smorzare il canto, “sliricizzare” – i materiali del vissuto. Lo scavo della «parola verticale» di chi si immerge, opposta a quella «orizzontale che sommerge», per citare i versi di Quando l’occhio si oscura, si costruisce sulla base di due costanti: la prima è rappresentata da uno strenuo lavoro sulla parola, un processo di ossificazione dell’immagine e del suono che produce risultati di grande rigore, restituendo un dettato compatto, asciutto, lavorato per sottrazione e non per accumulo, fino alle soglie dell’afasia.
La seconda è data dalla natura del rapporto che Biagini intrattiene con gli autori di riferimento: un rapporto mai servile, nella misura in cui i suoi versi rifuggono sistematicamente gli espedienti del riuso, della citazione inerte (anche l’intertestualità esplicita è ridotta all’osso), mirando semmai a un processo di presentificazione della tradizione. L’esigenza di tornare a “dare la parola” alla “parola data”, trasmessa, consegnata da una generazione all’altra, da una lingua all’altra – cioè, letteralmente, da una lingua a un altro orecchio, da un orecchio a un’altra lingua – significa, per dirla con Alain Badiou, imporsi di non ripetere, bensì di operare sulle ripetizioni.
Tutti questi elementi, per così dire, di longue durée del lavoro di Biagini si ritrovano a un superiore grado di consapevolezza nell’ultima raccolta Da una crepa: libro a struttura sostanzialmente tripartita, sebbene vi sia anche una quarta sezione, quella conclusiva, che dà il titolo al volume (dove centrale è la polisemia della parola «crepa»: la fessura, la fenditura da cui si guarda al mondo e il fessurarsi degli oggetti, del corpo stesso, fino alla morte). Al centro, un testo intitolato La gita, che riconduce a un altro tema fondamentale del lavoro di Biagini, quello dell’identità come prodotto del rapporto con le generazioni precedenti, rapporto che nei versi della poetessa fiorentina ha spesso valore negativo, se i maiores appaiono soprattutto ansiosi di riuscire a eternare se stessi, accollando ai discendenti il compito di perpetuare tutte le loro ossessioni, regole, pregiudizi.
Diversamente, il dialogo con gli autori amati è costruito in modo assolutamente libero: “presentificare” la tradizione letteraria significa scegliersi i propri interlocutori, crearsi cioè un proprio spazio di incontro, confronto, conoscenza. Nel caso di Da una crepa, due sono gli autori chiamati esplicitamente in causa: Paul Celan è l’interlocutore della sezione Dare acqua alla pianta del sognare, Emily Dickinson di Coi denti macchiati d’inchiostro: fotografie. In particolare, la ripresa dei versi di Celan, dislocati dal loro contesto d’origine e reinseriti per frammenti nei testi di Biagini, dimostra molto bene quella volontà di operare sulle ripetizioni cui si faceva cenno poco sopra: il poeta di Atemwende viene convocato non come un’autorità su cui poggiare il proprio discorso poetico, ma come un amico ritrovato con cui costruire un dialogo attraverso schegge di parole, residui verbali “ricaricati” operando attivamente per dislocarne/ri-allocarne il senso.
Infine, nel denso «Impatient of the fewest words», il poeta si mette in ascolto di entrambi i maestri, Paul e Emily, impegnati in un muto e sensuale colloquio tra lingua e orecchio, invitando il lettore a fare lo stesso (e chi volesse porgere l’orecchio può farlo qui). La presenza di Celan e Dickinson è d’altronde giustificata dal tema che percorre sottotraccia tutto il libro, che è quello dell’impasse: nei versi di Biagini le funzioni principali della vita, compresa la respirazione, sono come inceppate o brutalmente impedite, il vedere è accecato («là rovina la / ruota dell’occhio, / inciampa nel / filo fattosi d’improvviso / scuro»), il parlare interrotto («la parola / silenzio ha / messo spine»), il respiro e il battito soffocati («mi sbuccio / il respirare», «il respiro inciampa», che non può non far pensare al Celan di Svolta del respiro, e in particolare a un sintagma come Steinatem, «respiro di pietra»), la scrittura diventa parassita del corpo (pensiamo alle immagini della vita-inchiostro al centro della sezione di Dickinson, oltre a un verso come «ti tocco / e sei d’inchiostro»).
Significativa in tal senso la citazione dal poeta israeliano Nathan Zach, anch’essa chiamata a “fare senso” con i testi della raccolta: Devo rassegnarmi a non poter qui raddrizzare nulla.
Sarebbe tuttavia sbagliato leggere Da una crepa come un atto di resa. Al contrario: questa raccolta rappresenta l’ulteriore tassello di un percorso autoriale compatto e coerente, testimonianza di un’attività di ricerca sulla parola dettata da una necessità espressiva agguerrita e orgogliosamente indocile, decisa a non arrendersi al progressivo impoverimento di senso ed esperienza che oggi minaccia ogni destino privato. La «parola-ramo», insomma, ancora tiene: se Biagini sbarra il passo al rilucente mito del migliore dei mondi possibili – mito che l’ideologia corrente, qui e oggi sotto le spoglie di un edonismo in salsa vagamente progressista, cerca di far balenare tra le crepe di una realtà in frantumi – questo non significa che la crepa non sia anche, costitutivamente, varco, spiraglio da cui magari gettare lo sguardo più in là, verso l’orizzonte. Leggo così la suggestiva citazione da Dickinson che chiude la raccolta: I take no less – than skies.
Elisa Biagini è nata nel 1970 a Firenze, dove vive e lavora, dopo aver studiato e insegnato a lungo negli Stati Uniti. Sue poesie sono apparse in numerose riviste e antologie italiane e straniere; ha pubblicato sei raccolte di poesia, tra cui ricordiamo L’ospite (Einaudi 2004), Fiato. Parole per musica (d’if 2006), Nel bosco (Einaudi 2007), The Guest in the wood (Chelsea 2013, opera vincitrice del «2014 Best Translated Book Award») e Da una crepa (Einaudi 2014). Tradotta in numerose lingue, Elisa Biagini è a sua volta traduttrice dall’inglese (segnaliamo in particolare l’antologia Nuovi Poeti Americani, Einaudi 2006); numerose le collaborazioni con musicisti, artisti e coreografi. Nel 2012 è stata invitata a rappresentare l’Italia al Poetry Parnassus di Londra. Il suo sito è www.elisabiagini.it.