Carl Seelig, l’amico di Robert Walser
Sono oltre 10.000, e in parte inedite, le lettere che compongono l’imponente corpus della corrispondenza di Carl Seelig conservata presso il Robert Walser Archiv di Berna. Vi sono i nomi del fior fiore della letteratura germanofona del secolo scorso, da Hermann Hesse a Robert Musil, da Kafka a Thomas Mann, da Vicki Baum a Joseph Roth fino a, naturalmente, Robert Walser. Proprio a quest’ultimo è indissolubilmente legato il nome di Seelig, che anche in Italia è noto in primo luogo come l’autore delle Passeggiate con Robert Walser (libro originariamente pubblicato dal Tschudy Verlag di San Gallo nel 1957, tradotto in Italia da Adelphi nel 1982). Meno noto, invece, era rimasto fino ad oggi l’aspetto culturalmente più rilevante della figura di Seelig, ovvero la sua intensa e appassionata attività di, come si direbbe oggi, “mediatore culturale”. Forse davvero – come una volta ebbe a dire un altro straordinario costruttore di ponti, il ticinese Enrico Filippini – c’è stato un tempo in cui la Svizzera in quanto «luogo di mediazione, luogo di passaggio, cassa di risonanza di echi europei» ha fornito alla letteratura «l’ambiente più adatto per una meditazione sul destino europeo, sull’uomo moderno in generale». Di certo è questa l’impressione che si ricava scorrendo le centinaia di pagine dell’antologia delle lettere di Seelig che Suhrkamp ha da poco pubblicato per la cura di Pino Dietiker e Lukas Gloor. Alcune di queste lettere sono adesso esposte al Museum Strauhof di Zurigo.
Lo Strauhof, specializzato in mostre letterarie, è situato nel cuore della città vecchia di Zurigo e per raggiungerlo, tra targhe e nomi di vicoli e vicoletti, ci si imbatte nelle tracce di alcuni dei molti passaggi che dal Settecento ad oggi hanno segnato la vita culturale della città sulla Limmat: la casa di Lavater, il “Goethestübeli”, la Robert-Walser-Gasse, la James Joyce Foundation (che ha sede proprio al terzo piano della stessa casa che ospita lo Strauhof). Tre sale in tutto compongono questa piccola esposizione. La prima è dedicata a Hermann Hesse, di cui Seelig fu un grande ammiratore. Il carteggio tra i due copre un arco di quasi mezzo secolo, dal 1916 al 1962, anno di morte per entrambi. L’esistenza di Seelig finì tragicamente a Bellevue dove – a due passi dalla libreria Oprecht situata in Rämistrasse 5, già punto di ritrovo di molti esuli italiani e tedeschi durante gli anni del fascismo – un tram in corsa lo travolse portandoselo via per sempre. Durante la Prima guerra mondiale Hesse a Berna gestiva un centro di distribuzione di libri destinati ai prigionieri tedeschi. Seelig, allora studente presso l’Università di Zurigo, inviò ad Hesse alcuni libri stabilendo così il primo contatto con il futuro autore di Siddharta.
Hesse – che in quegli anni che precedono il suo trasferimento a Montagnola vive una difficile situazione familiare caratterizzata dai disturbi mentali della moglie, Maria Bernoulli – trova in Seelig una persona premurosa e pronta ad aiutarlo in tutti i modi, anche finanziariamente. «Devo andarmene da qui il prima possibile», scrive Hesse a Seelig il 19 luglio del 1918, «perché io qui sto vivendo in un inferno che non so dirle. La mia vita sta crollando. Non ho la forza di scriverne». Gli anni passano, l’amicizia tra i due si consolida. Durante il fascismo Hesse e Seelig si adoperano insieme per aiutare le scrittrici e gli scrittori esuli in Svizzera.
Dal 1933 al 1934, in collaborazione con il già ricordato Oprecht, Seelig organizza a Zurigo una serie di conferenze in cui intervengono, tra gli altri, Alfred Polgar, Else Lasker-Schüler, Erika Mann. Per Seelig, scrittore mancato e dedito al giornalismo letterario, è anche un modo per entrare in contatto con molti di loro, allacciando legami duraturi anche con chi preferisce non intervenire alle serate zurighesi. È il caso, ad esempio, di Joseph Roth, che da Rapperswil sulle sponde del lago di Zurigo declina gentilmente l’invito di Seelig adducendo come motivazione la propria riluttanza a leggere in pubblico («Un poeta che legge è come un cameriere che mangia», spiega, citando il per il resto poco stimato Karl Kraus). Qualche mese dopo, a Parigi, la vita di Roth va lentamente dissolvendosi tra alcol e pamphlet reazionari (L’anticristo). L’esilio non lascia scampo: «Sono successe molte disgrazie», scrive a Seelig il 28 marzo del 1934. «Corro di qua e di là come un topo in gabbia, tra le sbarre non ci sono fessure, nessuna via d’uscita. […] Non so più nulla. Non sono più in grado di aiutarmi. Non me ne voglia!».
La premura di Seelig, la sua capacità di ascoltare e di aiutare dove e come può, lo rendono un interlocutore con cui non si esita a parlare a cuore aperto. Al contrario, il carteggio rivela invece ben poco della vita di Seelig stesso, molto restio a parlare di sé. «Lei non scrive mai di se stesso», gli fa notare non a caso Hermann Broch. «Non c’è niente che mi vuole raccontare?» gli chiede invece Vicki Baum che poi, in un’altra missiva, osserva: «La sua lettera sembra alludere ad alcune cose, ma soprattutto di molte altre tace». Forse è proprio questa ritrosia che permette a Seelig di esaltare il paesaggio umano che ha di fronte, come Ghirri sosteneva che solo dimenticandosi un po’ di se stessi fosse possibile entrare in relazione con l’ambiente-paesaggio circostante (e quindi riscoprirlo in modo nuovo).
La grazia e il fascino di un libro come le Passeggiate con Robert Walser risiedono fondamentalmente in questo atteggiamento stilistico di fondo. La corrispondenza di Seelig con Robert, Lisa e Fanny Walser (nonché con Frieda Mermet) costituisce peraltro un interessante pietra di paragone con la narrazione affidata alle pagine del libro. Una sorta di sguardo dietro le quinte, sapientemente documentato (con carte e documenti originali) dalla seconda sala della mostra. Le iniziative editoriali di Seelig per riportare all’attenzione del pubblico le opere di Walser, gli sforzi per farlo uscire dalla clinica, la posizione ambivalente di Walser stesso di fronte a tale prospettiva di “libertà”, il parere negativo del direttore della clinica (“Walser va lasciato in pace”); ma anche le apprensioni di Seelig per il cattivo stato dei denti di Walser, le ansie delle sorelle per la fragilità emotiva di Robert, l’astio dei fratelli secondo i quali la presunta malattia di Robert non sarebbe che un pretesto per non lavorare, il lento ma deciso ritirarsi di Walser dalla vita e dagli affetti, il suo graduale rinchiudersi in una corazza di diffidenza e silenzio. «Purtroppo ultimamente», scrive Frieda Mermet a Seelig, «non ricevo più risposta da Robert Walser; né alle mie lettere, né ai pacchi che gli mando ad Herisau per il Natale o per il compleanno.
Robert Walser si sta ritirando anche da me. Forse una conseguenza della sua malattia; e non si sa bene cosa fare, se disturabre la sua solitudine oppure concedergliela». E tornano alla mente alcune riflessioni di Sciascia su Tolstoi che sembrano scritte per l’autore dei Fratelli Tanner: «Filarsela dalla vita, non esserci più. Non ha voluto altro, vivendo; non ha pensato ad altro. Ed è da questa estraneità che ha visto limpidamente la vita, che l’ha come ripetuta nelle sue pagine».
La dedizione e l’attenzione disinteressata di Seelig hanno conservato e reso accessibili ai posteri moltissimi aspetti dell’universo walseriano, che senza tale opera di mediazione con ogni probabilità sarebbero andati perduti. Tuttavia, più che la veste del mediatore (che indubbiamente gli è propria) ciò che distingue maggiormente la figura di Seelig nel panorama culturale europeo sono gli sforzi che egli prodiga per sostenere sia materialmente che spiritualmente le fonti – siano esse parche o rigogliose, note o ignote – di quella forma di conoscenza e di orientamento nella vita che prende il nome di letteratura.
Alle scrittrici e agli scrittori Seelig dedica le stesse cure che si possono riservare ad una pianta, ad un fiore: la fragilità è un dono che va preservato come un oasi di grazia nel deserto. Il carteggio con la scrittrice svizzera Erika Burkart, che ci viene mostrato nella terza ed ultima sala del percorso espositivo, descrive bene questo aspetto decisivo dell’esistenza di Seelig. Folgorato dai versi della giovane poetessa, turbato dalla profonda crisi esistenziale che ad un certo punto la travolge, Seelig capisce che lo scrivere è l’unica àncora di salvezza rimasta a questa donna che vorrebbe lasciarsi morire dal dolore. Si rivolge così alla madre (che vive insieme alla figlia) per proporre un reddito mensile ad Erika (secondo una prassi che Seelig, discendente di una famiglia benestante, aveva in passato già anonimamente adottato per altre scrittrici e scrittori) a patto, tuttavia, che quest’ultima si impegni a scrivere (in prosa o in versi) un libro «per la gioventù» (für die Jugend).
«Vedrà» – scrive Seelig a Burkart il 22 settembre 1959 – «che man mano che lei entrerà in questa storia di giovani per giovani, verrà fuori a poco a poco dalla sua attuale condizione di dolore. Lo sento e mi fido di lei». È così che sarebbe nato il primo romanzo di Erika Burkart (Moräne), pubblicato quando Seelig non c’era già più. Pochi giorni prima della sua tragica fine, in occasione del quarantesimo compleanno di Burkart, Seelig aveva inviato in dono alla scrittrice La passeggiata di Robert Walser. Al volume aveva aggiunto una dedica che riprendeva parte di un verso dello stesso autore e che, col senno di poi, risuona come un oscuro presagio che in sé riassume lo stile di Seelig: «sventolò silenziosamente il cappello / e se ne andò…».