Censura e democrazia

12 Agosto 2015

Torno in Italia e orecchio discorsi che mi piaccion poco. Ne trovo traccia sulla stampa, sui blog, sui magazine internazionali. Anche al bar, devo dire. Racconto che a Hong Kong c’è maretta, perché l’elezione a suffragio universale del Governatore, promessa per il 2017, rischia di ridursi – così comanderebbe il Partito da Pechino – a una farsa: gli Hongkonghesi sceglieranno il proprio Governatore tra due o tre nomi indicati da notabili fedeli alla Repubblica Popolare Cinese. Non è una farsa: è un imbroglio, un plateale tradimento degli accordi che regolano la graduale presa di sovranità sulla ex colonia britannica da parte della Cina.

 

A Milano, il furbetto della birra accanto non si esime dal commentare: e perché, da noi? No caro, da noi la democrazia c’è. Il popolo sovrano la esercita entro i limiti e nelle forme stabilite dalla Costituzione. E non a caso spuntano, piacciano o meno – a me meno – Grillini, Salvini, e Renziani a piè sospinto. A Hong Kong nulla di nuovo avrebbe possibilità di spuntare, se il diktat di Pechino passasse. Sì, mi dice birretta, ma tanto anche da noi comandano sempre gli stessi: i potenti, quelli con i soldi, la finanza e le banche. E bravo, caro il mio mezzapinta: se così non fosse organizzata la società, che bisogno ci sarebbe di correggerla con la democrazia? Di provarci, almeno: costruire un contrappeso. Poi sta a te essere capace di esercitarlo. In Cina esercitare contrappesi non si può. I partecipanti a una riunione a favore del campo democratico di Hong Kong (quasi tutti artisti), furono arrestati in blocco, e non tutti ancora sono stati rilasciati. Accadde (un fermo prolungato in arresto) a un paio di editor, a tre femministe l’otto marzo, e a un tentativo da Gay Pride.

 

Eppure in Italia e in Occidente di mezze pinte sembra se ne bevano parecchie. Mi capita spesso, al mio bar, di citare quel commentatore di punta del grande quotidiano nazionale che, ricordando la dipartita dello storico dittatore di Hong Kong (io ho amici laggiù, che han fatto anni di carcere) scrisse: però lui sapeva far lavorare bene, e sodo, gli impiegati della pubblica amministrazione, e dovremmo provarci anche qui. Già: Mussolini faceva arrivare i treni in orario, nevvero?

 

E quel bravo articolista che intervista lo scrittore anglosassone teso a mostrare i vantaggi della dittatura in Cina, e cerca sì di contenerlo, di contrastarlo: poi il titolista del giornale gli scrive che in Cina c’è la ‘Democrazia del Merito’, che seleziona i dirigenti migliori (in Cina c’è la democrazia della cordata, o della congiura, con gruppi che vincono e gruppi che perdono, tali e quali alla nostra antica Democrazia Cristiana. E gli oppositori, così come gli sconfitti, vanno in galera). Continuo? 110 arresti recenti tra gli avvocati che lavorano sui diritti umani, amici scrittori che non possono pubblicare in Cina, e se pubblicano all’estero rischiano poi di non potere lavorare in patria: per la televisione, per il cinema, come curatori di mostre d’arte.

 

Anche in Cina trovo agghiacciante la beata innocenza di chi (gente che stimo) prova a scrivere sulla stampa internazionale che la censura sugli scrittori qui non la esercita l’Autorità, che sarebbe invece di manica larga dice lui, ma la società letteraria stessa: e cioè se tu vai fuori binario sono i colleghi che ti emarginano, preferendo che nessuno disturbi questo tranquillo status quo. Che era, appunto, quel che ad esempio accadeva nel ventennio mussoliniano, o in ogni regime esteuropeo (la DDR, la Stasi, le denunce dei vicini di casa: molta Cina è così, dai per scontato che sul tuo posto di lavoro qualcuno abbia un legame col potere, che riferisca, che gli venga domandato: e il risultato, come dicono molti scrittori, è l’autocensura: ti tieni dentro ai guardrail messi giù per te, e corri per una strada già tracciata. Senza guizzi). Non ho voglia di citare nomi, testate giornalistiche: il punto non è la polemichetta personale. Il punto è che stiamo deragliando. Abbiamo, a destra e a sinistra, dentro a questa crisi e dentro a una modificazione delle relazioni e delle gerarchie internazionali che ci sgomenta, una gran voglia di cercare l’uomo forte: non il Leader televisivo comunque eletto e votato, ma proprio il cambio di sistema.

 

C’è invece, alla periferia della Cina imperiale, un luogo popolato da 7 milioni di persone o poco più, che resiste alle pressioni del paese più grande del mondo (1 miliardo e quattro). Non è in un post che posso render conto dell’ultimo anno di contrapposizione a Hong Kong, Umbrella Movement che occupava l’arteria principale del traffico cittadino per quasi tre mesi (Umbrella perché i poliziotti usavano lo spray al peperoncino e i manifestanti si difendevano aprendo gli ombrelli gialli). E non sono un giornalista, non dispongo delle fonti, non so decostruire i fatti. Ma quel che vedo lì è una generazione giovane che ricorda tanto la nostra dei sessanta e dei settanta. Quando i più anziani rimbrottano, perché la Cina cresce, e promette prosperità, centri commerciali, consumi nuovi (e – non è poco – l’uscita dalla miseria rurale più nera per molti nelle campagne del Paese di Mezzo), i ragazzi rispondono con parole che stanno agli antipodi delle fruste locuzioni sulla crescita del PIL, della modernizzazione, dell’urbanizzazione.

 

 

I ragazzi parlano di emozioni. Di sé stessi, della propria crescita intellettuale, culturale. Delle loro aspirazioni, che vanno oltre la ricchezza, qualche Yuan in tasca, un nuovo I phone. Dicono: non solo e non tanto libertà di espressione: ma libertà di pensiero! Con Pechino che comincia gradualmente a introdurre le ore ‘di educazione patriottica’, con i media completamente asserviti che disegnano una realtà che non esiste (costruiscono la matrice, come in Matrix) fatta di slogan di partito e pubblicità delle multinazionali che, come è ovvio, sono tutte schierate ferocemente in difesa dell’egemonia pechinese e del partito, perché oggi la Cina è il paese più capitalista del mondo e loro ci sguazzano. I ragazzi non ci stanno. E nemmeno i loro professori, e tanta parte della popolazione, anche tra gli strati più bassi, i portuali, i piccoli commercianti. Dalla Cina, i cinici rispondono: che vuoi che combinino? Quattro gatti, e qui invece la dittatura (sì, chiamatela così, please) sta costruendo la felicità per tutti.

 

Già. Ma invece il Grande Paese del Futuro, destinato a dominare il mondo con la forza della sua economia (e ci comprerà le cannoniere, con quel PIL in crescita), sta rallentando. PIL + 7% annuo: veniva definita come la soglia minima per assorbire tutti i laureati sfornati dalle università. Beh, siamo lì. Beh, le rivolte operaie ci sono state, i salari sono aumentati, tante fabbriche chiudono, emigrano in Indonesia, in Cambogia, o tornano in occidente. E allora, forse perfino la classe media cinese beneficiata dai centri commerciali potrebbe avere qualcosa da dire contro la censura, la limitazione delle libertà di espressione (e di pensiero). Non è così peregrino quel commento che ho sentito tante volte a Hong Kong: ma quando verrà la Cina, io non potrò più usare il mio facebook? Sarà vietato? Umbrella Movement non è finito per niente. Uno striscione su un cavalcavia, di recente, recitava: "We will come back".

 

Lo so, sembra solo una favola bella. Ma le favole si avverano quando le emozioni, la voglia di esistere, di diventare, di pensare asfaltano di un botto il cinismo. Accadde un anno fa a Hong Kong. Sta accadendo ancora, sotto traccia. E ci tengono svegli, i ragazzi di Hong Kong. Meglio tenerli d’occhio: hanno qualcosa da insegnarci, lì.

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