C'era una volta l'Adelphi

26 Marzo 2024

Se guardo alle tante case editrici che hanno punteggiato la mia biografia di lettore devo convenire che poche volte sono stato provocato a meditare su quale significato esse abbiano veicolato. Al contrario, sono rimasto spesso disorientato dall’eterogeneità delle proposte e dall’assenza di un disegno, dal fatto che quei libri non hanno costituito per me un “problema” di senso dell’editore, come se il lavoro fosse genericamente finalizzato al mercato, dunque prevedibile. La sensazione è viva ancor oggi: durante la mia periodica e canonica visita in libreria, le proposte editoriali mi sollevano spesso curiosità, ma continuo a non essere pungolato sul significato di fondo delle singole case editrici.

Con Adelphi no. Adelphi è tra i pochi marchi che gode di un significato meta-editoriale ben strutturato, di un criterio che scorre sopra i suoi libri e stimola l’interesse del lettore, oltre il loro aspetto formale, anche oltre il loro contenuto, che pure è di alta qualità (il che non assicura l’affermazione di ogni titolo: la fortuna è una variabile immortale). Adelphi attira da sempre l’attenzione proprio in quanto entità culturale fondata su uno specifico progetto editoriale, di contenuti e di forma, di stili e di materie. È tale la forza attrattiva da stimolare anche il desiderio di conoscere quale sia la sua storia, quali biografie abbiano edificato le fondamenta. Se dunque appare qualche saggio sulla casa editrice Adelphi – un prodotto della categoria sempre più frequentata dei “libri sui libri” – è tormentoso rinunciarvi. Come appunto è accaduto alla comparsa del consistente saggio di Anna Ferrando Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994), (Roma, Carocci, 2023), che fin dal titolo circoscrive l’arco cronologico dell’indagine.

Di origini si tratta, infatti, e pertanto di pagine che ricompongono una storia seducente (non è categoria critica, lo so, ma sto tracciando il disegno di una lettura appassionata), sempre rivolte a una genesi, a come Adelphi sia riuscita a sviluppare con tenacia una sorta di archetipa intenzione. Il saggio ripercorre in maniera analitica questa storia dagli inizi – appunto – fino a una data assunta come relativa cesura, quel 1994 in cui l’editore ormai ben affermato decise di compiere alcune scelte destinate a sollevare qualche contrasto. A quell’anno l’indagine si ferma, ma aver ripercorso i trent’anni dall’atto di deposizione del marchio nel giugno 1962 – ed essersi spinti all’indietro di altri venticinque, a cercare le prime radici di un progetto editoriale che mirava a sottrarsi da ogni irreggimentazione, laica o cattolica che fosse – sembra operazione di coraggio più che sufficiente e la cui sostanza è bene compendiare per breve tratto. Notando in primo luogo che la vicenda viene fatta partire dal 1938 perché in quell’anno si colloca un fatto significativo: l’incontro tra Luciano Foà, futuro fondatore della casa editrice, e Bobi Bazlen, figura nodale nella genesi di Adelphi, quando questi s’era recato a Milano come consulente letterario di Frassinelli.

Decisivo fu anche l’incontro all’inizio degli anni Quaranta tra Foà e l’imprenditore e intellettuale Alberto Zevi – ebrei e antifascisti entrambi – presso le Nuove Edizioni Ivrea, officina editoriale sorta come uno degli organismi del fecondo rapporto impresa-cultura di Adriano Olivetti: nel loro esilio ginevrino successivo all’8 settembre 1943 meditarono entrambi su come procurare all’Italia, al fine di ripristinarne il basamento civile, la materia principe di libri mai tradotti o non conosciuti. Furono, queste, le circostanze decisive che aiutano a cogliere le origini del progetto adelphiano, a capire come esso getti la sua più profonda radice nel terreno dei tardi anni Trenta. In quelli successivi – e prima del 1962 – la storia di Adelphi prende forma per paradosso all’interno di altre case editrici: i marchi rilevanti dell’editoria italiana erano all’epoca Einaudi (e Foà fu segretario generale nel decennio 1951-1961) e Boringhieri (su cui gravitavano nomi poi entrati in Adelphi, come Giorgio Colli, Mazzino Montinari, Piero Bertolucci).

Ora, il nome Einaudi ha un valore speciale nella storia di Adelphi, essendo questione ben nota che uno degli episodi decisivi fu il distacco di Luciano Foà da Giulio Einaudi; l’autrice va però oltre la narrazione comune dell’episodio e svela un quadro più complesso: fino alla fine Foà fu un ammiratore del disegno culturale di Einaudi e alle origini del distacco non ci furono le motivazioni solo ideologiche che si vanno ripetendo, ma soprattutto ragioni inerenti al “fare editoria”. Adelphi andava assumendo un peculiare orientamento, collocandosi in uno spazio contrapposto ai programmi di molta editoria italiana: estetica della lettura più che (se non versus) lettura impegnata, abituale posizione eterodossa rispetto a ogni altra, accoglienza nel proprio catalogo di un’atmosfera mistica altrove non gradita. In tal modo il progetto di catalogo fu collegato a quanto Einaudi aveva messo da parte lungo gli anni Cinquanta, un cumulo di opere che nell’insieme sbozzava una idea abbastanza trasparente di editoria: memorie, narrazioni di viaggio, opere di contenuto mistico, testi di sentore neognostico (o gnostici tout court), nomi come quelli di Gurdjieff, Groddeck, Daumal, ma anche gli antichi Filostrato e Apollonio di Tiana (uno dei “Gesù” della storia...). Non solo: il nome di Groddeck, accolto presto in catalogo, provava l’attrazione di Adelphi – grazie alla mediazione dello junghiano Ernst Bernhard – per la psicoanalisi; così come precoce fu l’accoglienza dell’atmosfera di finis Austriae, il “mondo di ieri” di Stefan Zweig, e in senso lato per una vasta geografia della Mitteleuropa, così impregnata di suggestioni antimoderne, neoromantiche e impolitiche (pochi anni dopo il limitare del saggio, nel 1997, il catalogo avrebbe ospitato il Thomas Mann delle Considerazioni di un impolitico; ma a parte ciò si percepisce che gli adelphiani dell’origine non erano impolitici in senso manniano, bensì oscillanti tra repubblicanesimo e comunismo critico verso i fatti d’Ungheria, tra «Il Mondo» di Pannunzio e la figura del banchiere-intellettuale Mattioli, permeati insomma di liberalismo azionista).

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E comunque il progetto mirò all’alto profilo culturale delle proposte ma anche alla cura formale, come già a metà anni Sessanta Bazlen aveva scritto a Foà, dichiarando che la copertina della collana “Biblioteca” avrebbe secondo lui segnato la sorte di Adelphi. La strategia editoriale – come auspicava Bazlen – fu subito quella dei “libri unici”, qualità prorompente non solo dai contenuti, anche dall’aspetto del marchio, dalla veste dei libri, dall’abilità comunicativa dei paratesti nei risvolti, dalla definizione di una precisa comunità di lettori, raccolti nel percorso unitario dell’astratto libro singolo formato da tutti i libri pubblicati dall’editore.

L’autrice pone come limite della propria indagine il 1994: scelta giustificata dal fatto che quella data non è posta a mo’ di netta cesura, ma come anno in cui si collocano fatti che rappresentarono una forte discontinuità rispetto al progetto originario: in contraddizione con la linea che Bazlen e Foà avevano impresso all’Adelphi degli esordi si pose infatti quell’anno il lacerante dissidio generato dalla scelta di Calasso di pubblicare Léon Bloy e Carl Schmitt, autori di ruvida connotazione, ancorché di evidente peso intellettuale. Era da poco scomparso Zevi quando fu messa in programma la pubblicazione del testo di Bloy Dagli ebrei la salvezza, documento perspicuo dell’antisemitismo cattolico ottocentesco: decisa da Calasso, l’edizione suonava al fondatore fuori luogo nel momento storico in cui saliva al governo una coalizione di destra. E tuttavia Calasso fu inamovibile: debitamente contestualizzato e storicizzato il testo era per lui pubblicabile. In relazione a Schmitt, l’idea era di pubblicare il suo Glossarium, anch'esso con disappunto di Foà che temeva i giudizi politici negativi: nonostante l’opinione assai favorevole di Franco Volpi, cui era stata offerta la curatela, l’opera infine non si fece e il Glossario si legge oggi nel catalogo Giuffré.

Nel disorientamento creato dalla scomparsa, lungo gli anni precedenti, di protagonisti di rilievo della vicenda Adelphi (Bazlen, Colli, Solmi), il fondatore si allontanò dalla casa editrice, seguito da altri. Ora, non che Foà fosse contrario a spalancare orizzonti del pensiero, rispolverando anche proposte irrazionalistiche, ma la vicenda dell’edizione Bloy fece emergere le diverse concezioni che lui e Calasso nutrivano del mestiere di editore: il primo propenso alle decisioni concertate, il giovane Calasso incline invece a scegliere in piena libertà i titoli da pubblicare.

Fino a questo limitare della storia di Adelphi giunge l’autrice, che termina la propria indagine augurandosi un futuro in cui qualcuno possa studiare l’editore del Duemila mediante nuovi documenti. Per parte sua – e come il breve affresco ha tentato di far comprendere – Ferrando ha ricostruito una stagione di storia editoriale non solo di ampio arco cronologico, anche di cospicuo peso specifico. Soprattutto se si riconosce onestamente che una certa nostra cicatrizzazione verso le “categorie” fa apparire sfuggente un progetto editoriale non strettamente inventariato. Incomprensione che toccò un’acme quando sorsero sospetti da parte del cattolicesimo integralista: un’aspra polemica sorse – ancora nel fatidico 1994 – all’uscita di Gli «Adelphi» della dissoluzione di Maurizio Blondet, saggio in cui Calasso, Ceronetti, Citati, Quinzio, Zolla erano valutati come complici di un esoterico complotto gnostico-massonico per scristianizzare la società, e la casa editrice bollata come covo di una banda gnostica, perciò eretica, perciò pericolosa.

Su altro versante, il distacco di Foà da Einaudi aveva innescato il sospetto verso Adelphi della cerchia marxista convinta che la cultura abbia valore solo se attiva nel modificare gli equilibri sociali ed economici, e che pertanto nella cultura valga solo l’engagement, l’impegno efficace dell’intellettuale nella sfera del sociale. Impossibile condividere – da parte di quel mondo – un progetto editoriale che contava nella propria storia un distacco da Einaudi col fine, all’epoca deplorevole, di produrre l’omnia di Nietzsche (e che poi avrebbe addirittura accolto nel proprio catalogo opere contro il feticcio del sociale, come nel fatale 1994 Dell’indifferenza in materia di società di Manlio Sgalambro o, nel 1998, Che cos’è la tradizione di Elémire Zolla, con capitoli tipo Il disinteresse originario).

E tutto questo emerge tra le righe di un’opera colma di notizie, mappa di uno spicchio della cultura italiana del secondo Novecento, un saggio di storia e ambiente che però sollecita prese di posizione ideali. In ogni caso non una mera ricostruzione accademico-documentaria ma una dimostrazione di buona prosa affabulatoria. Se infatti un saggio di questa mole viene letto senza alcun incaglio è grazie allo stile fluente: mai una volta lo sguardo – lungo pagine trasparenti – torna indietro a rileggere una frase. E sempre ci si focalizza su qualche punto del discorso che la mente giudica chissà come impregnato di senso, fulcri a cui si assegna un valore di centralità rispetto alle tante pagine che stiamo leggendo. Mi è accaduto quando è emerso, nel cuore del libro, come il fato (tanto caro alla casa editrice che, nel 1985, aveva pubblicato Fato antico e fato moderno di Giorgio de Santillana) abbia agito anche dentro la storia di Adelphi. 

Ricordò un giorno Foà che era stato Bobi Bazlen a presentargli il giovane Calasso, buon talento già sicuro di sé nell’individuare libri degni di pubblicazione o traduzione: Calasso si era stabilito a Milano nel 1968 e seguiva da tempo Foà, che nel 1971 lo scelse come direttore editoriale. Tuttavia attorno al mondo Adelphi, e introdotto da Solmi negli anni Sessanta, gravitava anche un altro giovane, Claudio Rugafiori, indagatore del cosmo asiatico, colui che aveva suggerito il celebre simbolo grafico editoriale mostrando a Foà l’opera del sinologo Carl Hentze Tod, Auferstehung, Weltordnung in cui erano riprodotti numerosi ideogrammi cinesi antichi, tra cui la falce che sostiene i due fratelli-adelfi.

E qui il destino fece il proprio gioco: le sensibilità culturali dei due giovani si intersecavano sulla passione per il mondo classico e la Grecia mitica; gli studi di Rugafiori sulle lingue orientali fecondarono in certo modo la curiosità di Calasso per quei saperi. Erano entrambi di indiscutibile solidità culturale e godevano della stima del fondatore. Ma secondo le testimonianze, fu la maggiore precisione di Calasso a indurre infine Foà a favorirlo nella scelta. Potremmo dire con una battuta che la Grecia ebbe la meglio sull’Oriente, almeno nello specifico momento in cui si decideva la sorte della casa editrice e Calasso assurgeva a centralità nella storia di Adelphi. La sua scomparsa nel luglio 2021 – a parte la ferita della perdita umana e intellettuale – ha fatto sorgere nei lettori il timore di una sensibile cesura nella storia della grande casa editrice. La forma che da quel momento il catalogo ha mantenuto prova invece una saldezza che sarebbe difficile anche solo scalfire.

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