Gaddabolario: furugozzo di parole

10 Febbraio 2023

A leggere Gadda ci si diverte un sacco. Come non essere d’accordo con questa affermazione della curatrice Paola Italia nell’introduzione al Gaddabolario. Duecentodiciannove parole dell’Ingegnere (Carocci editore, 2022, pp. 176, 16 euro)? Può essere un riso irrefrenabile, lacrimogenetico (gaddàbolo pur’io), oppure un riso amaro e cinico: sta di fatto che ci si diverte. Lo sapevo, avevo sperimentato l’effetto rallegrante di quelle pagine, ma ora, a sentirlo rievocare in questa introduzione m’è sorta voglia di capire come può accadere che, in compagnia dell’ingegnere in blu, si rida. Ho dunque riaperto l’impervio Eros e Priapo e ho letto fluentemente, tenendo però fuori un quartino di cervello, cui ho dato il compito di stare molto attento e porsi il quesito: cosa serve per leggere Gadda? La risposta che il quartino ha prodotto è meno disadorna di quanto mi attendessi: serve calma intellettiva – quei momenti in cui t’immergi nella pagina con lucida quiete – e servono buona cultura generale, efficace sapere linguistico ed empatia umorale, qualità quest’ultima la sola che persuade a “fidanzarsi” con un autore.

Ancora una cosa raccolgo dalla curatrice: all’inizio afferma che chi si procura questo libro è uno che conosce male Gadda, lo tiene – come spesso si sente dire – per un «giocoliere delle parole», lo giudica troppo difficile e ora, con un dizionario che incute meno timore di un Pasticciaccio, vuole curiosare nel suo mondo. Ma chi se lo procura può anche appartenere – ed eccomi rappresentato – alla categoria di chi nella vita ha incontrato un libro di Gadda e, dopo il primo confuso effetto di straniamento linguistico, ha deciso di non lasciarlo più, perché «quella prosa era diversa da qualsiasi altra, [e] il piacere della sua lettura era imparagonabile al piacere di ogni altra lettura».

Già: lo straniamento linguistico; è proprio questo l’effetto che porta al divertimento e, a volte, al riso incontenibile. Non è cosa da poco: se fossi un professore, e faticassi a indurre lo studente ad aprire le pagine dell’ingegnere proverei a dirgli, col rispetto del Lei, «la cultura generale e il controllo della lingua lei li possiede, dunque si ponga con calma, con serena impassibilità, sulle pagine che le sto per consigliare e cerchi di entrare in empatia con questa lingua immaginativa e ingegnosa: ne trarrà diletto». E non è difficile consigliare pagine: la gerla di Gadda contiene multipli stupori linguistici: in L’Adalgisa, nel Pasticciaccio, in Eros e Priapo, ma un po’ ovunque, insomma.

Da quelle tante pagine colano i termini inventivi, una buona scelta dei quali è stata catalogata in questo spassoso dizionario. Necessario è conoscere l’assunto posto da Gadda a fondamento della propria inventiva: da lì bisogna prendere le mosse. La curatrice lo individua nello scritto Lingua letteraria e lingua dell’uso: non può diventare unica legge «la lingua d’uso piccolo-borghese, puntuale, miseramente apodittica, stenta, scolorata, tetra, eguale»; è anch’essa lingua, ma non da farne idioma dominante. Da cui la scelta di Gadda: realizzare un proprio vocabolario – un gaddabolario appunto – irriverente, satirico, fatto di invenzioni lessicali anche chiassose, dialettalismi (bello il milanese furugozzo, che sta per parapiglia), parole letterarie ma rese convulse, termini assunti da lingua esistente ma “rigaddizzati”, resi cioè inesorabilmente suoi.

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Il divertimento letterario è assicurato a partire dalla struttura stessa del libro: estratte dall’opera gaddiana 219 parole, sono state affidate al commento di 61 estensori di ponderati lemmi. Chi sono i 61 lo si legge nella finale tabula: nomi accomunati dall’attrazione per l’ingegnere e inclini a godersi le sue invenzioni, persone che in certo modo rientrano in un lieto circolo Pickwick di appassionati. Io stesso – come credo possa accadere a ogni lettore – mi sono mosso in questo parodico dizionario con la beatitudine di chi intanto scopre una parola strana e si cala poi nell’ironica erudizione dei commenti: è lì che sta l’umore spiritoso del volume.

Ora, per “congegnare” il proprio linguaggio Gadda usa la laurea in ingegneria solo per metà. Il rudimentale “meccano” che salda pezzi separati è stato applicato nella lingua italiana, creando una famiglia che non ha nemmeno escluso le unioni mostruose degli “ircocervi”. Penso ad esempio alle materie insegnate nel dipartimento di Tetrapiloctomia di quella Facoltà di Irrilevanza Comparata che Umberto Eco progettò nel Secondo diario minimo. Trattasi del dipartimento in cui si insegna «l’arte di tagliare il capello in quattro» e che prevede alcune pedanti materie per laurearsi: la Idrogrammatologia (tecnica di scrittura su superfici d’acqua), la Poziosezione (arte di tagliare il brodo), la Avuncologratulazione Meccanica (metodo di costruzione di macchine atte a salutare una zia) e la Piropigia (tecnica di appiccare il fuoco alle natiche altrui). Questo genere di inventiva linguistica sorge dall’appaiamento ingegneristico di due parole diverse e distanti, e l’ingegner Gadda ne approfitta, ma con ritegno. Il suo modo di inventare linguaggio sorge con maggior slancio altrove.

Certo, non mancano in lui le parole composte (come ammogliato-brustolato o centauro-saetta, qui accolti) o delle unioni siamesi apparentemente “ircocerviche” ma descrittive di cose realissime. Ne troviamo due esempi notevoli nel Pasticciaccio, come il criptorutto, l’emissione che segue la rapida ingestione di una gazzosa e che si vorrebbe trattenere, ma che rimbomba sgradevolmente in gola e va infine a gorgogliare nel naso. L’altro è cinobalanico, aggettivo riferito a un orgasmo e derivante dall’unione di cino (=cane) e balanos (=glande), allusivo all’immagine triviale della cosa fatta «a cazzo di cane».

La lettura del Gaddabolario ci pone a più riprese di fronte a questi esempi. E tuttavia l’inventiva di Gadda si sbizzarrisce nel forzare espressivamente termini esistenti, deformandoli a significati umorali e umoristici. Un buon esempio è in Eros e Priapo, opera in cui egli demolisce ironicamente la boria tracotante ma fatalmente ridicola delle pose fasciste e della sagoma del duce: forlimpopolesco, aggettivo usato in relazione al mascellone del Muss nel momento in cui, issatosi a cavallo, prende a «bravazzare nella livida bagascianza d’un rospo». Noto subito che la frase non contiene solo l’aggettivo additato, anche bravazzare e bagascianza, su cui varrebbe la pena soffermarsi. Ma indugio sulla mascella forlimpopolesca e seguo il commento: l’aggettivo sorge ovviamente da Forlimpopoli, comune romagnolo sulla via Emilia, sotto la Predappio natìa di Benito, e l’uso diventa allora canzonatorio verso la dimensione romagnola e folclorica del duce. Senza dimenticare – mi permetto di aggiungere – che a Forlimpopoli egli studiò nel collegio Carducci e vi prese il diploma di maestro elementare: un rapporto, quello tra certa pedagogia e fascismo, che allarga ulteriormente la risonanza dell’aggettivo.

La buona parte dei termini del Gaddabolario è così: detona sia negli aggettivi (barbuglioso, calamburesco, fogazzaroide, gorgonzoloide, ipocarducciano, sardanapalesco) e sia nei sostantivi (canapione, mamillona, pispillorio, strugnoccolo). E tra loro quel dialettalismo ancora una volta milanese, gnommero, affidato al commento di Edoardo Camurri: «il centro di tutta la filosofia della nevrosi gaddiana», ciò che addita il garbuglio inestricabile della realtà; quell’intrico che si consuma al numero civico 219 di via Merulana, un pasticciaccio certamente «brutto» ma narrato con una lingua talmente spettacolare da meritare la formalità sottesa a questo libro arguto: inventariare, in onore di quel civico, un identico numero di parole.

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