Che fare con l’innovazione sociale

Il Novecento è stato interamente fondato su grandi processi di standardizzazione. Non solo uniformità dei processi di produzione industriale, come nelle catene di montaggio della Ford, ma anche uniformità nell’accesso al welfare e all’istruzione, nella burocrazia statale, nei mezzi di comunicazione e nei modelli di consumo.

Quando Castells ha scritto La nascita della società in rete molti lettori hanno preferito soffermarsi su una lettura prevalentemente tecnica della questione, secondo la quale il grande cambiamento paradigmatico, sopraggiunto con la fine del secolo passato, è stato soprattutto un problema infrastrutturale. Ma la trasformazione reticolare della società ha degli sviluppi che vanno ben oltre Internet: si tratta, infatti, di un fenomeno di vastissima portata che, proprio grazie alle possibilità di reperimento, organizzazione e ri-aggregazione delle informazioni, sta trasformando il mondo in cui viviamo in un’ecologia nella quale si affolla un numero di attori sempre più eterogenei.

 

È allora questo il momento per iniziare a ripensare il mondo attorno a noi come uno spazio della molteplicità, come aveva intuito Italo Calvino nella sua “lezione americana”. Accanto ad attori e processi che rimangono saldamente sotto il controllo dei monopoli della produzione di beni e servizi, iniziano a cercare, e trovare, un loro posto dei fenomeni nuovi, che si muovono secondo criteri inediti e non-standardizzati.

 

La definizione corrente per indicare questo panorama complesso è “innovazione sociale”; un termine che non può che lasciare insoddisfatti, per la sua genericità e il suo prestarsi a equivoci di ogni sorta. Eppure, al momento, nonostante questo, appare il termine migliore che abbiamo per indicare una serie d’iniziative, sia profit che non profit, che cercano di rafforzare il tessuto civico delle nostre società, favorendo relazioni orizzontali e comunitarie, colmando il più delle volte i vuoti lasciati dalla pubblica amministrazione nella sanità, nell’educazione, nella cultura.

L’innovazione sociale ha tanti volti quanti sono i territori nei quali opera; se si esplora a giro d’orizzonte le nuove forme di sostenibilità economica, sociale e ambientale s’intravedono iniziative che riguardano il micro-credito, il crowdfunding (il finanziamento di servizi o prodotti in modo distribuito attraverso Internet), passando poi per le social enterprise, che operano direttamente sul mercato.

 

La Comunità Europea sta dedicando a questo campo sempre più risorse, finanziando grandi processi di ricerca all’interno dei suoi Programmi Quadro degli ultimi dieci anni. Nel 2009 anche gli Stati Uniti hanno sposato questa prospettiva, organizzando dei processi d’incubazione locale attraverso il Social Innovation Fund. “Le soluzioni alle sfide per l’America”, ha affermato il presidente Obama, “sono sviluppate ogni giorno dal basso, e il governo non deve soppiantare questi sforzi, ma supportarli”.

 

Qualunque sia il destino dell’Italia negli anni a venire, e qualunque siano le strade che ci porteranno fuori dalla crisi economica e morale, è chiaro che molti settori del Paese dovranno iniziare a fare i conti con le pratiche d’innovazione sociale, a cominciare da quello specifico della cultura. Perché è necessario immaginare nuove formule – di progettazione, organizzazione, distribuzione della cultura – che siano in grado di agire nella molteplicità. Di muoversi nel Ventunesimo secolo.

 

 

Questo articolo è il prodotto del lavoro attorno a cheFare, premio per la cultura da 100,000 euro prodotto da doppiozero.

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