Italo Calvino e Raf Vallone: “Riso amaro” e oltre
Era il set degli intellettuali di sinistra, frequentato da scrittori, fotografi, registi. Un dietro le quinte mai visto, quello di Riso amaro. Tutto comincia da un incontro fra Giuseppe De Santis e Carlo Lizzani, interessati a un’inchiesta del giornalista Raffaele Vallone detto Raf – già calciatore del Torino e partigiano – sulle mondine di Vercelli. De Santis le aveva viste e sentite quelle donne lavoratrici, alla stazione di Torino, di ritorno da Parigi, e si era incuriosito e anche commosso. Poi la chiacchierata a “L’Unità” e l’interesse diventa un soggetto cinematografico. Così nasce uno dei capolavori del neorealismo italiano. Regia di De Santis, protagonisti Silvana Mangano, Vittorio Gassman e lo stesso Vallone.
Intorno al film nascevano affetti e storie d’amore. Sul set c’era anche Robert Capa, il grande fotoreporter di guerra. I suoi scatti sono splendidi: ritraggono Silvana Mangano con Doris Dowling e la Dowling con Vallone. Capa ebbe relazione con Doris Dowling, sorella di Constance, anche lei attrice, amore non corrisposto di Cesare Pavese (“Ti amo”, le scrive, “Cara Connie, di questa parola so tutto il peso – l’orrore e la meraviglia – eppure te la dico, quasi con tranquillità. L’ho usata così poco nella mia vita, e così male, che è come nuova per me”). Di Silvana Mangano, diciottenne protagonista, erano invece innamorati tutti. Come si poteva rimanere impassibili di fronte al fascino della mondina in calze sopra le ginocchia, maggiorata, viso incantevole e sguardo di sfida. È diventata l’immagine del film. Per lei fu l’inizio di una carriera folgorante, che rivelò una diva italiana da far invidia a Hollywood.
Dietro il film c’era l’appoggio del partito comunista e “l’Unità” sentì l’esigenza di mandare un inviato che avesse le carte in regola. Italo Calvino, che aveva visto tanti film fin dall’adolescenza (in certi periodi anche uno al giorno), disse di sì e si recò in Piemonte, nelle campagne vercellesi, più precisamente nella cascina Venezia e nella Tenuta Selve. Un’esperienza notevole per un giovane scrittore che avrebbe avuto successo frequentando i generi letterari più diversi, dal realismo alla sperimentazione al postmoderno. Scrive anche per attenuare la pesantezza e la retorica del linguaggio, come dichiarerà molti anni più tardi nelle postume Lezioni americane: “Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d’insoddisfazioni di cui posso rendermi conto”. E forse anche per questo va alla ricerca di nuove forme, storie, espressioni, maturazioni linguistiche.
Quando arriva sul set di Riso Amaro ha già pubblicato il suo primo libro, Il sentiero dei nidi di ragno; è iscritto al Pci e collabora occasionalmente con “l’Unità” torinese. Raf Vallone, responsabile della terza pagina, gli affida una rubrica: “Non era un chiacchierone” ammetterà l’attore anni dopo, “ma con lui non legavo”. Entrambi, però, ascoltano i consigli di Pavese. Bisognava stare attenti, perché non parlava molto. Ma a volte basta vederli lavorare, i maestri, per apprendere i segreti del mestiere.
“Io prima non avevo un’idea chiara di come si facessero a girare le scene di cazzottature”, confessa Calvino nel suo resoconto dal set, Tra pioppi e risaie la Cinecittà delle mondine, apparso su “l’Unità” il 14 luglio 1948. “Se anche gli altri registi fanno come De Santis, il sistema è semplice: lasciare che gli attori s’arrabbino veramente e se le suonino sul serio”. È quello appunto che succede durante la ripresa di una delle scene più drammatiche del film, la scazzottata fra il villain Gassman e il “buono” Vallone. Calvino raccoglie la confidenza di Basilio Franchina, primo aiuto regista: per tutta la giornata De Santis e la sua troupe hanno montato gli attori l’uno contro l’altro: “Guarda che stasera ti picchierà sul serio”. Al momento del ciak, i due cominciano a darsele di santa ragione senza nemmeno pensarci. “Gassman ha una furia selvaggia e un fisico potente, Vallone ha più abilità da ginnasta e più controllo delle forze”, osserva Calvino. Vorrebbe fare il tifo per l’ex collega, ma è intimidito dal secondo aiuto, il futuro regista Gianni Puccini, che “guarda brutto quelli che osano fare un bisbiglio”.
Neanche il venticinquenne Calvino rimane immune al fascino della diciottenne Mangano: “Sarà una delle grandi fortune del film… il viso e i capelli della Venere di Botticelli ma un’espressione più fiera, dolce e fiera insieme, occhi oscuri, un incarnato terso e limpido senza ombre né luci, spalle che si aprono con una dolcezza da cammeo, un busto di ardita armonia di linee trionfali e aeree, la vita come uno stelo snello, e un mirabile ritmo di curve piene e di arti longilinei. Insomma, a farla breve, Silvana Mangano m’ha fatto una grandissima impressione e devo dichiarare che nessuna fotografia può bastare a darne un’idea”.
Storia d’amore e di morte, Riso amaro è un intreccio noir, cupo: furti e contese che finiscono nel sangue. Una trama che si svolge nel mondo del lavoro duro delle mondine che faticano tutto il giorno. Scrive Calvino dal set: “Il suggello di verità e la moralità vera del film – anche se il soggetto, per esigenze commerciali, indulge a una certa retorica e a un pessimismo convenzionale – vengono dal grande impegno di realismo e di umanità che Beppe De Santis mette nella sua regia. Appollaiato dietro la macchina da presa De Santis spiega, corregge, interpreta la parte di tutti con nervoso accanimento, attorcigliando e avviticchiando il ciuffo in mezzo al cranio (è lo stesso gesto che fa Cesare Pavese mentre scrive; che sia un segno distintivo della scuola realistica?). Né le sue fatiche si limitano alle ore di ripresa. Oggi a Venezia è arrivato il maestro Petrassi che farà il commento musicale a Riso amaro. È De Santis a spiegargli come va impostato lo spartito, in gran parte basato su motivi popolari, e a cantargli lui stesso le canzoni delle mondine.”
Spettatore appassionato, Calvino non subisce più di tanto il fascino del set: “Il cinema mi sembra l’arte della fatica sprecata”. Non sarà così per il suo ex collega Vallone. Nato a Tropea, classe 1916, si traferisce presto a Torino, dove si laurea in filosofia e giurisprudenza (tra i suoi maestri, Leone Ginzburg e Luigi Einaudi). Intanto gioca a calcio, in un Torino non ancora grande ma già capace di vincere una Coppa Italia. Dopo l’8 settembre si unisce alla Resistenza, nelle Brigate di Giustizia e Libertà. Incarcerato dalle SS, rischia la vita durante uno spostamento che dovrebbe portarlo in Germania, si tuffa nel lago di Como e, schivando le raffiche dei tedeschi, riesce a far perdere le proprie tracce.
Finita la guerra, il giornalismo: giovanissimo responsabile della pagina culturale de “l’Unità”. Ernest Hemingway è tra i collaboratori. A Michele Garrì di “Paese sera”, che a metà anni Ottanta lo va a trovare a Tropea, dirà: “Andai a ‘l’Unità’ nel ’46… Con Davide Lajolo nacque subito una sincera amicizia. Abbiamo dato origine ad una delle più belle terze pagine. Si lavorava anche diciotto ore al giorno. La più grande emozione fu quando mi diede in consegna gli originali dei Quaderni di Gramsci.” E poi gli incontri con Pavese: “Veniva spesso a trovarmi, andavamo a pranzo a Porta Palazzo, alle ‘Tre Galline’. Mangiavamo in silenzio: lui non parlava molto, io neppure. Credo gli piacessi per quello: assecondavo il suo silenzio”.
De Santis si convince a ingaggiarlo come interprete di Riso amaro dopo averlo sentito recitare gli amati versi di Garcia Lorca. Comincia così una carriera di grande prestigio, europea e hollywoodiana. De Santis lo dirige ancora in Non c’è pace tra gli ulivi. Sul set di Il cammino della speranza di Pietro Germi, Vallone incontra la bella e brava Elena Varzi, che diventa sua moglie: insieme, i due sono tra i protagonisti di Cristo proibito di Curzio Malaparte. E ancora regie di Lattuada, Zampa, John Huston, De Sica, Risi, Francis Ford Coppola. Spiccano Teresa Raquin di Marcel Carné, accanto a Simon Signoret e, dopo il successo a teatro, Uno sguardo dal ponte, recitato a Parigi, che diventa un film diretto da Sidney Lumet.
Tanto cinema, che ha sempre amato, ma il palcoscenico gli ha dato soddisfazioni particolari. Anche come regista di classici, autori d’avanguardia e di opere liriche. In TV, intervistato da Luciano Rispoli, Vallone dirà: “Il teatro è una di quelle malattie che, quando penetrano nell’organismo, non lo lasciano più.”
A Cagliari, nel 1984, la Cooperativa Teatro Sardegna produce uno straordinario spettacolo, Luci di Bohème di Ramón Maria del Valle-Inclán. Il protagonista è Vallone: un mito, un attore applaudito in tutto il mondo. La compagnia – esperta e professionale – dà vita ad un’opera visionaria, una storia allusiva, magica, capace di suscitare la riflessione su vicende storiche, su una società in decadenza. Il protagonista, Max Estrella, è un poeta che vaga per le strade di Madrid. È notte, ma per lui non fa differenza. Max è cieco. Ed è una cecità non solo fisica. La notte si trascina a esperpento, quel che resta della tragedia, la deformazione grottesca della realtà, della vita.
Anch’io lo ricordo, entusiasta e concentrato, per Luci di Bohème. Arrivai in leggero ritardo per l’intervista e naturalmente mi beccai un sonoro rimprovero. Poi ho letto che teneva molto alla puntualità. Lo richiedeva la sua vita piena e spesso frenetica: cinema, teatro, giornalismo, passione politica. Un uomo con una marcia in più, un profilo di cultura e carattere.
Luci di Bohème è l’evento che segna, in Italia e all’estero fino al Canada, la nuova importante tappa teatrale di Raf Vallone. Per lui è come rivivere il grande successo fine anni cinquanta di Uno sguardo dal ponte del suo amico Arthur Miller, per la regia di Peter Brook. Lunghe file all’ingresso del “Theatre Antoine”. Centinaia di repliche in una Parigi inarrivabile, festosa ed entusiasta dell’italiano che recita magnificamente in francese. Sembra la Parigi dei tempi andati, degli anni Venti, la “festa mobile” dell’amico Hemingway. E c’è l’intervista con Oriana Fallaci, sulla terrazza della sua villa, a Sperlonga, affacciata al mare. Alla giornalista spiega:“Questo cielo mi pulisce le meningi. Non immagina il tormento di recitare in una lingua che non è la mia. Mi conforta sapere che il pubblico abbia compreso lo sforzo.” Una civetteria, scrive Fallaci, per ricordare a sé stesso che ha “spopolato”.
Raf Vallone è morto il 31 ottobre 2002. Sua moglie Elena Varzi è scomparsa il primo settembre 2014. Una storia durata più di cinquant’anni. Hanno avuto tre figli: Eleonora e i gemelli Saverio e Arabella, che ricorda: “Mio padre, un intellettuale prestato al cinema e al teatro. Ha incarnato, con i suoi personaggi, soprattutto nel periodo del neorealismo, i valori di libertà, onestà, giustizia, antifascismo. Mi manca, mi mancano le sue poesie recitate al mattino. Per allenare la memoria, spiegava. In realtà era pura bellezza, come un mantra. Ho sempre avuto grande affinità con mio padre. Mi diceva: sei un tesoro non ancora saccheggiato.” Forse è questo il segreto di un artista come Vallone: la capacità di riconoscere il talento non ancora espresso.