Gramsci a teatro

9 Marzo 2024

Io m’immagino Antonio Gramsci di nuovo tra di noi, passeggiare per le sue strade di Ales, Ghilarza, Santulussurgiu, Cagliari, Torino, Roma. “Uno spettro”, fatto “della stessa sostanza dei sogni”, che percorre – con passo agile e deciso – gli scenari d’Italia e d’Europa. Davanti ai suoi occhi indagatori lo spettacolo non nuovo di una sinistra confusa, in difficoltà, che stenta a frequentare alcune invenzioni linguistiche e culturali senza età. Come l’egemonia, che invita ad avventurarsi lungo sentieri tortuosi e non ancora esplorati. Che illumina i suoi scritti visionari, capaci ancora di liberare idee, di suggerire progetti.

Volevano impedire al suo cervello di funzionare, dietro le sbarre del carcere fascista e fortunatamente non ci riuscirono. Ma se ci fossero riusciti, Gramsci sarebbe stato comunque un protagonista del nostro Novecento. E se avesse trovato spazio in altro campo? Se sul politico geniale avesse prevalso il prodigioso critico teatrale?

Eccolo Nino, nel 1908. Ha 17 anni. Vive col fratello Gennaro e frequenta il liceo Dettori. Cagliari è una città ancora scossa dai moti contro il carovita del 1906. È culturalmente vivace, ci sono due teatri, il Civico e il Politeama Regina Margherita. E lui – cito dalla biografia di Giuseppe Fiori – è “studente scapigliato”, “loggionista tumultuoso”. Divertito, irriverente, incurante del giudizio dei benpensanti, di quelli che si piegano al vento del senso comune, si descrive così: ”Per la mia splendida criniera, che mi ondeggia ad ogni soffio, mi hanno preso per una ragazza e si sono meravigliati che una donna facesse tanto chiasso in un teatro, perché vedevano solo la testa e una mano che faceva un sonoro pernacchio. Io non me la sono presa a male, anzi ho ringraziato dell’attenzione che mi usavano.”

Sembra il ritratto di un poeta futurista che, dalla platea, contesta i confezionatori di drammi “passatisti”, di intrecci con personaggi di cartapesta. Così come a Torino, la città della scelta marxista, riserverà offensive fulminanti, al vetriolo, agli autori della scena borghese, “digestiva”, in cui il pubblico sonnecchiante ama rispecchiarsi. Ha 25 anni quando comincia a scrivere di teatro sull’“Avanti!”. La prima recensione, del 13 gennaio 1916, è per “La falena” di Bataille. E già emerge la sua costante preoccupazione: la falsità del teatro ufficiale, la sua tendenza a costruire personaggi e situazioni che non hanno alcun rapporto con la realtà. E invece c’è bisogno di conflitti credibili, tragici, capaci di incarnare contrasti veri, di avere una vita propria.

Gramsci si scaglia contro Dario Niccodemi, campione di convenzionalismo sentimentale, e Giovacchino Forzano, inventore di intrecci storici di cartapesta. La nemica di Niccodemi la stronca così: “Il suo mondo mitologico è l’aristocrazia, il pubblico che affolla i teatri e rende redditizia la professione di scrittore drammatico è la piccola borghesia: due classi, due concezioni quanto mai fittizie e artificiali”. Un affondo, una condanna senza appello. E Giovacchino Forzano viene definito, senza mezze misure, “manipolatore d’intrugli melodrammatici”.

Ora, bisogna dire che il giovane Gramsci sceglieva bene, senza alcun timore, i bersagli, due miti della scena borghese con grande successo di pubblico. Forzano poi merita un discorso a parte, perché si avvicinerà molto al Duce, e si racconta che Mussolini collaborasse ai suoi testi. Commedie e drammi a quattro mani con il dittatore.

Tra un’opera cadaverica e un’altra in cui tutto è artificioso e scontato, emergono però gli assi. Ed ecco allora Pirandello, ecco il teatro grottesco, la vera rivoluzione della scena italiana. La grande avanguardia capace di ribaltare dall’interno la commedia borghese, imperniata sul classico triangolo (lui, lei, l’altro). Sembra il solito teatro e invece il pubblico impazzisce di fronte ai personaggi che fanno cose strane, tanto da ribaltare la morale borghese. Gramsci più di tutti capisce il teatro in rivolta, la sua forza, la sua capacità di scardinare il senso comune dell’ideologia dominante. Senza fare rivoluzioni a teatro, senza scene con bandiere rosse. Semplicemente prendendo il frutto più maturo del teatro borghese, grondante di buoni sentimenti, e smontandolo pezzo a pezzo. Gramsci capisce che con Pirandello e con il Grottesco il pubblico non può più accomodarsi in poltrona, pronto alla risata consolatoria. È accaduto qualcosa che schianta quello che Brecht ha chiamato “teatro gastronomico”, fatto per non pensare, per consentire agli spettatori di rassicurarsi.

“La maschera è la patina superficiale del costume, della moda, dello snob...”

Così Gramsci nella recensione a La maschera e il volto, sulle pagine torinesi dell’“Avanti!”, l’11 aprile 1917.

La commedia di Luigi Chiarelli è una rivoluzione perché segna la nascita del teatro grottesco. Debutta con uno strepitoso successo, all’Argentina di Roma, il 29 maggio 1916.

Sono preziosi due libri: Il teatro in rivolta di Gigi Livio (Mursia ) e Gramsci e il teatro di Guido Davico Bonino ( Einaudi). 

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Livio racconta come un geniale capocomico, Virgilio Talli, fosse consapevole di quella “svolta decisiva nel cammino della nostra letteratura drammatica”. Davico Bonino traccia il percorso, le intuizioni di Gramsci critico teatrale. E per Gramsci il lavoro di Chiarelli e Talli travolge “molte banalità, molti luoghi comuni, molte affermazioni del senso comune più comune”. E così vengono demoliti vecchi schemi. Si affonda “senza pietà il bisturi nella piaga per mettere in bella evidenza la putredine.” Il ribaltamento è completato da Pirandello con Il giuoco delle parti, in scena a Roma nel dicembre 1918 e a Milano nel febbraio 1919. “Pirandello è maestro di ironia impietosa – scrive Gramsci – e perciò è combattuto dalla critica, incapace perfino di riassumere i suoi drammi, e suscita le furie di una parte del pubblico.”

Ed ecco il giudizio per La maschera e il volto: “La commedia è al tempo stesso vecchia e nuova: vecchia in quanto si appoggia a materiali di teatro convenzionale, nuova, in quanto, all’atto stesso di assumerli, li irride e li riscatta per via di deformazione.”

Deformazione che troviamo anche nella rivoluzione futurista. Gramsci inizialmente esalta Marinetti e compagni: “Hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista.” Ma “hanno distrutto, distrutto, , senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso un’opera superiore a quella distrutta.” Il giudizio finale è impietoso, gli inventori del “teatro futurista sintetico” vengono paragonati da Gramsci a un gruppo di scolaretti che sono scappati da un collegio di gesuiti, hanno fatto un po’ di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto la ferula della guardia campestre. Una guardia campestre che si chiama Mussolini.

Son passati più di cent’anni. La questione è la stessa: un linguaggio nuovo per scardinare roba vecchia, ammuffita, magari spacciata per “cambiamento”. Un linguaggio che per Gramsci “è come una campana di cristallo”, che rivela il volto beffardo dietro la maschera ubbidiente. Un passaggio assolutamente rivoluzionario, che s’innerva sul Secolo Breve (da Sergio Tofano a Carmelo Bene, da Petrolini a Troisi) per arrivare ad oggi, a chi ancora cerca di orientarsi su tragitti sconosciuti. Senza dimenticare Nino Gramsci, quello “studente scapigliato”, quel “loggionista tumultuoso”. Quel ragazzo inquieto, curioso del mondo, affamato di libri e teatro, che ancora non sapeva cosa avrebbe fatto da grande.

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