Fo e Sepúlveda nel Cile di Allende
“Teatro politico? No, il mio è teatro classico.”
Così Dario Fo, anni ottanta, molto prima che gli fosse assegnato il Nobel. C’incontrammo al teatro tenda di Piazza Mancini, a Roma, dove si rappresentava un clamoroso successo, Quasi per caso una donna: Elisabetta, la figura di Elisabetta I d’Inghilterra tra dramma e comicità. Protagonisti naturalmente lui e Franca Rame. Invenzioni buffe e personaggi strambi, comici che in realtà sussurrano metafore di una realtà amara, di un mondo difficile.
Per Dario Fo “Il teatro politico è un’idea schematica che, per quanto mi riguarda, molti critici e accademici si sono inventata. Sì, è vero, c’è un teatro pamphlettario ed imbecille, fatto di comizi sceneggiati, in gran parte senza dialettica, senza dubbi e senza conflitti. Io non l’ho mai fatto. Non diciamo perciò teatro politico, ma teatro che parla dei nostri giorni, delle nostre contraddizioni, della nostra vita.”
Il teatro con le bandiere rosse, quello che confonde il palcoscenico con la realtà, per Fo è quanto di più falso e pericoloso si possa mettere in scena. Le lotte, le rivoluzioni non si fanno sulla scena, come insegna Brecht con il suo straniamento, la presa di distanza dell’attore dal personaggio, lo sdoppiamento scenico che rivela la finzione e ricorda al pubblico: “signori, siamo a teatro, qui si riflette, si assorbono le idee che servono a capire e trasformare la realtà. La vita è fuori da quella porta.”
E così vacilla il sogno borghese di un “teatro gastronomico” (Gramsci lo chiamava digestivo) che rassicura perché fatto di problemi futili, banali, in cui lo spettatore è felice d’identificarsi.
Quell’intervista di 40 anni fa non fu facile. Dario Fo era stanco e non vedeva l’ora che me n’andassi. Ma se hai un personaggio così, non puoi mollare. Molte domande e risposte rivelatrici. Fo, ogni tanto, vestiva di cortesia il suo nervosismo. E poi qualche rilievo bisognerà pur farlo a lui e Franca Rame. La satira politica è presente, eccome, nelle innumerevoli commedie di Dario Fo. Però è vero che non ha mai fatto comizi sceneggiati, non ha mai ingannato gli spettatori.
Con qualche eccezione. Dario Fo, nel ‘73, dopo il colpo di Stato di Pinochet, era in Sardegna. Girava l’Italia per raccontare quella strage e alla fine c’era un colpo di scena che provocò polemiche. Anche questo è teatro politico, ma si giustifica con il momento storico, con il sangue dei difensori della democrazia. Metteva in scena Guerra di popolo in Cile. Dice Fo: “Come potrei dimenticare quella trasferta? È stata la prima e l’unica volta che sono andato in galera come ospite e non come visitatore.”
Arrestato a Sassari per essersi opposto all’ingresso degli agenti in sala. “Certo, era una provocazione, facevamo credere al pubblico che in quel momento, in Italia, ci fosse stato davvero un golpe. Con i poliziotti tutto sarebbe saltato, poteva essere anche pericoloso. Perciò abbiamo fatto barriera, il nostro statuto di circolo privato ci dava ragione. Ma mi hanno arrestato ugualmente. E allora la gente reagì. Fu bellissimo: un sit-in di migliaia di persone davanti al carcere.”
Poi il grande clamore nazionale, la libertà dopo qualche ora e lo spettacolo a Cagliari, al Teatro Massimo. Ma il momento più esaltante fu l’incontro con Mistero Buffo (che debuttò nel ‘69), il capolavoro di Dario Fo. I racconti del popolo, della rivolta, l’ironia, il sarcasmo di un’opera geniale, di un teatro che non si concede facilmente al pubblico, che lo fa ragionare (e questo è un punto di contatto con Carmelo Bene, pugni allo stomaco degli spettatori, naturalmente virtuali). Fuori dalla facoltà di lettere di Cagliari era quasi buio. Dario Fo e la sua compagnia recitavano le loro giullarate con la facciata dell’edificio alle spalle; noi, il pubblico, eravamo seduti nella scalinata di fronte. Pareva la struttura di un teatro greco, come mise in evidenza Dario Fo.
Attore, drammaturgo, pittore, regista di opere liriche, anche personaggio televisivo, prima della bufera che, insieme a Franca Rame, gli fece abbandonare Canzonissima. È il 1962. Per le divergenze su alcuni copioni, dopo sei puntate Dario Fo e Franca Rame, ai quali la Rai aveva affidato la conduzione della trasmissione, abbandonano il programma, lasciando gli studi mezz’ora prima dell’inizio della settima puntata, e costringendo i dirigenti a continuare la serata con i soli cantanti, presentati da uno speaker.
La causa dell’abbandono fu lo sketch su un costruttore edile che si rifiutava di dotare di misure di sicurezza la propria azienda, una satira considerata eccessivamente provocatoria dai dirigenti Rai.
Alcuni attori a cui fu chiesto di sostituire Fo e la Rame, incluso Walter Chiari, si rifiutarono. Dalla nona puntata la conduzione della trasmissione fu affidata a Sandra Mondaini e Tino Buazzelli. Una Rai che censurava, ma rivelava anche lo scontro con chi voleva innovare l’emittente, che ha visto Gadda, Zavoli, Biagi, i grandi sceneggiati di Anton Giulio Majano, la nuova comicità della banda di Renzo Arbore. Un evento teatrale che non si può dimenticare quando si parla di Dario Fo è Il dito nell’occhio, fantastico trio insieme a Franco Parenti e Giustino Durano. Tra rivista e satira sociale, tre assi dello spettacolo travolgono l’Italia dei furbi. La prima si tenne al Piccolo Teatro di Milano. Era solo il 1953 e loro erano più avanti di tutti.
C’è un’altra storia che risale al 1967 e se n’è parlato solo dopo la morte di un grande scrittore cileno.
Qui entra in campo Luis Sepúlveda. Non ancora 18enne, era allievo della scuola di teatro di Santiago del Cile. Con i compagni, affamati di vita e di cultura, gli viene un’idea piuttosto ardita, invitiamo il più grande, il maestro, chiamiamo Dario Fo. Missione impossibile? No. L’autore di Mistero Buffo, l’italiano famoso in tutto il mondo, accetta l’invito, si ferma per una settimana con i giovani cileni. E insegna tutto il suo repertorio, il suo teatro in rivolta, la sua satira graffiante, la sua lingua che si frantuma in grammelot (un misto di onomatopee e significanti, suoni senza significato per il teatro borghese). È il popolo che soffre ma non rinuncia a schiaffeggiare il potere, e non si finisce di ridere. Il Cile, che già sentiva voglia di cambiamento, politico e culturale, tre anni prima delle elezioni, respirava l’aria del socialismo di Unidad Popular.
“Io non dimentico, la mia memoria è come la mia morale, indistruttibile.” La memoria è tutto, è il tormento di Luis Sepúlveda. La memoria è la notte della dittatura, è Pinochet con la sua voce chioccia, è Allende amico e Presidente, è il sangue versato per difendere democrazia e libertà.
Sono memorie di un rivoluzionario, nella vita vissuta come un viaggio ai confini della realtà, come un Che Guevara dalle Americhe alle mille città d’Europa. E chissà se Dario Fo li ha sorpresi discutendo di quello che ha detto a me, a Roma, durante l’intervista: “Teatro politico? No, il mio è teatro classico.”
Ed è teatro scuola di vita nel Cile delle tensioni e delle passioni, il Cile che di lì a tre anni avrebbe sancito – con libere elezioni democratiche – la nascita del governo di Unidad Popular.
Ma anche il cinema entra nella grammatica della ribellione, nelle memorie di un rivoluzionario. È del 1972, un anno prima del Golpe di Pinochet, L’amerikano, il film di Costa-Gavras sui Tupamaros. Racconta la guerriglia in Uruguay, ma il set è nel Cile di Salvador Allende, perché nella Santiago laboratorio della nuova via al socialismo si potevano tranquillamente raccontare le trame oscure degli USA. E durante le riprese sembra non esserci confine tra finzione e realtà. L’amerikano è Yves Montand, Ivo Livi, figlio di antifascisti emigrati in Francia nel ‘23. Lo sceneggiatore è Franco Solinas, nato a Cagliari con radici a La Maddalena, maestro del racconto per immagini, già critico cinematografico a “L’Unità” e “Paese Sera”. Le musiche sono di Mikis Theodorakis, il grande compositore perseguitato nella Grecia dei colonnelli. E a proposito di colonnelli, il più famoso film di Costa-Gavras è Z – L’orgia del potere, Oscar per la migliore opera straniera nel 1969. E qui si può aggiungere un altro grande film del 1981, Missing, con Jack Lemmon e Sissy Spacek, che racconta della sparizione e uccisione di un giornalista statunitense nel Cile di Pinochet. Missing vinse l’Oscar per la sceneggiatura non originale e la Palma d’oro a Cannes,
E così, tra cultura e politica, nasce il sogno, si scrivono le memorie di un rivoluzionario, svettano gli ideali della generazione di Luis Sepúlveda e dei loro maestri, come Dario Fo, per una società in cui l’uomo sia d’aiuto all’uomo. Erano anni in cui l’impegno voleva dire vivere pericolosamente, rischiare la vita per la libertà, per un mondo migliore. Luis-Lucho era entrato a far parte della scorta di Allende. E aveva assistito da vicino alla fine del compagno Presidente. Mentre moriva in un letto d’ospedale Pablo Neruda, il cantore del Cile che tanto aveva fatto per la vittoria di Unidad Popular. E su questa morte misteriosa ci sono oggi documenti che rivelano l’omicidio con una siringa al veleno. Era in ospedale, aveva un tumore, ma non era assolutamente alla fine, il Presidente del Messico gli aveva messo a disposizione un aereo per espatriare. Pare che lui tentennasse, ma forse si era deciso, quando un falso medico gli fece l’iniezione mortale. Pablo Neruda era un pericolo per Pinochet: dal Messico, con le sue amicizie in tutto il mondo, avrebbe potuto organizzare la rivolta contro il dittatore. Che vita quella del grande poeta: era ambasciatore in Spagna durante la guerra civile e a quasi quarant’anni di distanza ispiratore di Unidad Popular. In entrambi i casi furono distrutte e saccheggiate le sue abitazioni, nel ‘73 gli hanno fermato la vita. Pericoloso per Pinochet era il musicista e poeta Victor Jara, ucciso barbaramente. Il sangue e il dramma degli esuli. Gli Inti Illimani trovarono rifugio in Italia.
Ricordo i loro concerti e il calore che li accompagnava. Tutti eravamo coscienti che la tragedia del Cile doveva essere di lezione per la crescita della democrazia in Europa. Ne era consapevole Enrico Berlinguer, quando elaborò la strategia del compromesso storico.
Luis Sepúlveda intanto girava il mondo e scriveva, inventava la dimensione meravigliosa, che rimanda a certe creature fantastiche di Borges e si apre ai viaggi negli spazi incantati. Un poeta-guerriero Lucho che nelle memorie di un rivoluzionario avrebbe potuto scrivere – come Neruda – Confesso che ho vissuto. Due volte si è sposato con la poetessa Carmen Yáñez. Erano insieme anche quel giorno di fine febbraio quando il Covid finì per ucciderlo. Lui che era scampato alla mattanza del Cile, nonostante la prigione e la tortura, lui che aveva rischiato la vita per proteggere il compagno presidente. E mentre Dario Fo denunciava la strage fascista con il teatro civile, così ricordava Lucho il suo amico Gianni Minà: “Ho voluto bene all’uomo, ma non posso fare a meno di piangere l’intellettuale che aveva partecipato alle lotte per il riscatto dell’America Latina con il coraggio e la forza che hanno solo i visionari, i romantici, i pazzi.” E ancora: “Mi sento più solo, ma ho l’ingenua certezza che adesso lui è ritornato a fare la guardia del corpo al suo amato Presidente Allende.”
Carmen: “Avevo 15 anni, lui 18. Scriveva poesie, faceva teatro. Lo portò a casa mio fratello, che era pittore e suo amico. Un anno dopo ci fidanzammo. I miei genitori erano contrari: "Un poeta? Lascia perdere. Un tipo così non ha futuro". Ma il futuro lo hanno avuto, incontrandosi e di nuovo incontrandosi, nel cammino della vita.
In copertina: Dario Fo all'inizio degli anni '70. Foto di Luigi Ciminaghi, courtesy Mutual Art Casa d'aste.