Alla Triennale di Milano / Cleopatràs di Giovanni Testori

14 Novembre 2021

L’ultima regia di Valter Malosti è di rara potenza. Porta in scena Cleopatrás, un testo di Giovanni Testori di cui ricordiamo altre due riuscite versioni di qualche anno fa: quella del 1996 con Sandro Lombardi, che vinse il premio Ubu come miglior attore per l’interpretazione, produzione i Magazzini e regia di Federico Tiezzi; e quella del 2014 Atir con Arianna Scommegna, con la regia di Gigi Dall’Aglio. Questo ultima versione del suo lavoro teatrale sulla regina testoriana aveva debuttato nel settembre 2020 al Teatro Carignano di Torino; ora in tournée, lo abbiamo rivisto al teatro della Triennale di Milano. Una Cleopatrás, quella di Malosti, interpretata magistralmente da Anna Della Rosa, che si riconferma una delle più interessanti attrici del nostro teatro di ricerca per fortuna ricco di personalità femminili di grandi qualità.

 

Foto Tommaso Le Pera.


Far rivivere il linguaggio di questo vulcanico scrittore, drammaturgo e critico d’arte, imbevuto di retrogusti padani, non era semplice. In quanto è tutto un susseguirsi di intrecci dialettali con tinte espressionistiche, colme di neologismi, deformazioni e recuperi linguistici che da sempre caratterizzano la prosa neo barocca di Giovanni Testori, nato nel 1923 a Novate Milanese. Autore che ci aveva fatto riscoprire pittori lombardi del Seicento come Tanzio da Varallo con i suoi mitici affreschi delle cappelle del Sacro Monte. Testori a tal proposito racconta la difficile sintesi che questo pittore dovette inseguire: “[...] la carne-carne del Caravaggio, il suo sangue-sangue, da una parte; i sudori sacri e nefasti, le ambiguità fra grazia e peccato, i lividi deliri della maniera, dall’altra [...]”. Testori in tutta la sua vita ci ha raccontato artisti da lui particolarmente amati come Grünewald, Matisse e in particolare Bacon, in cui lui, in qualche maniera, riconosceva il suo stesso disagio esistenziale. 

Con la sua inimitabile prosa torrenziale affronta con successo anche la poesia lasciandoci testi capitali come I trionfi, dove esprime al meglio una sorta di non-racconto, come ‘quantità’ barocca della sua particolare poetica non altrimenti trascrivibile.

Testori ha un’esplosione di eloquenza unica che lo ha reso molto amato dalla critica a cominciare da Giovanni Raboni, che ne ha apprezzato la superba espressività tutta giocata sulla dilatazione-deformazione espressionistica del parlato, associata a una aulicità violentemente destabilizzante. 

 

Foto Tommaso Le Pera.


Il pubblico a poco a poco riesce a immergersi in scioltezza dentro questo turbinio linguistico, pregno di atmosfere che reinventano l’Egitto romano di Shakespeare dentro la Valassina, la valle lombarda tanto cara a Testori, dove scorre il fiume Lambro, proprio all’interno del Triangolo Lariano nel cuore del Lago di Como.

I suoi testi teatrali come la scandalosa Arialda e questo Cleopatrás, contenuto all’interno dei Tre Lai, (Cleopatrás, Erodiás, Mater Strangosciás) rappresentano il testamento ultimo di Testori, sicuramente al vertice della sua impareggiabile stagione creativa. Testi che lui scrisse negli ultimi momenti della sua vita. 

 

Cleopatràs è un monologo, recitato con grande instancabile forza autoriale Anna Della Rosa, che ben ci fionda dentro la storia e il mito di questa donna che piange il suo Antonio, il suo Tugnás, attraverso un magma denso di contemporaneità sanguinosa della carne e dei sentimenti. 

Non era affatto semplice giostrarsi nel suo plurilinguismo totale che non coinvolge più solo i generi e le stratificazioni geologiche di questo celebre racconto che mette in scena l’ultima ora della regina egiziana. Il pubblico, a metà del monologo, misteriosamente si ritrova a percepire questo testo come se fosse la sua vera lingua interiore.

Un testo recitato dentro l’austera messa in scena, ideata da Nicolas Bovey, che a tratti sembra uno studio televisivo, a tratti una stanza d’albergo dove compare velato il letto nuziale/tombale della protagonista, dove irrompe un servitore con la cesta, che sembra uscito da un quadro del Veronese, con dentro il serpente che la ucciderà.

 

Foto Tommaso Le Pera.


Anna Della Rosa, armata solo di microfono con filo, a un certo punto farà piacevolmente danzare il servitore turbinando il filo stesso, perfetta metafora del linguaggio testoriano (che l’autore non a caso definiva “la mia è una lingua spontanea che sgorga da dentro, quasi un riaffiorare dei miei avi”) mentre i sottotitoli ci racconteranno man mano anche le note di regia, le pause, i pensieri del testo restituendoci l’irriverente linguaggio pregno di sensualità che lei tesse attorno al solo evocato Antonio. 

Testori, il pluripremiato regista Valter Malosti, neo direttore artistico di Ert Fondazione, il teatro stabile dell’Emilia Romagna, lo ha più volte portato in scena. Ricordiamo la sua bella installazione del 2002 nella chiesa di San Bernardino a Ivrea, luogo assai caro a Testori, dove si trova il pregevole tramezzo affrescato da Martino Spanzotti, su cui l’autore lombardo scrisse uno struggente capolavoro letterario di critica d’arte. 

 

Malosti affrontò anche nel 2008 questo autore, portando in scena, con la strepitosa interpretazione di Laura Marinoni, Passio Laetitiae et Felicitatis tratto dall’omonimo romanzo. Mentre nel 2015 debuttò sempre a Torino con L’Arialda, e nel 2019 con La monaca di Monza, altri due iconici testi di questo scrittore e storico dell’arte tanto legato anche a Torino. Città in cui lui organizzò, a fine anni Cinquanta, importanti mostre dedicate ai protagonisti del Seicento lombardo piemontese fra cui quella su Tanzio Da Varallo. Fino a donare cinque sue importanti opere di artisti da lui amatissimi, tra cui Cairo, Cerano e Ceruti, alla Galleria Sabauda.

E a Torino, con l’editore Einaudi, venne pubblicato il suo fondamentale Il Dio di Roserio. Che lo avvicinò definitivamente all’attenzione della critica e dei lettori.

 

Testori sosteneva che gli era impossibile scrivere nel nostro italiano ‘normale’. Lui per esprimersi ha sempre avuto bisogno di istintualità, di frasi ataviche, primitive, degradate, sino al confine dell’animalità. 

E con queste apocalissi di parole distorte e squartate, ci ritroviamo con Cleopatrás davanti all’ultima ora di una grande star al tramonto di una vita al top, fra i Navigli e Turandot, cone lei stessa alla fine ci racconta, mentre “pian piano scarliga a terra”, accasciata sul letto sfatto finalmente senza più veli. 

Sommersa però dai calorosissimi applausi del pubblico milanese che in Triennale ha, anche quest’anno, grazie alla puntuale direzione artistica di Umberto Angelini, la possibilità di assistere a una stagione teatrale di grande qualità. 

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