Corpi che si sfaldano

17 Aprile 2023

Può, il pensiero nascente, essere pensato se non trova parole e modi nuovi di dirsi? Se, invece, di rispondere, replicare, costeggiare, reagire, ribellarsi al già disciplinarmente detto, non si pone con audace, selvatica, irruente primità? Chi e come lo pensa, da quali posizioni, sulla base di quali esperienze, quel pensiero che si dà ‘parole di lotta e di resistenza” senza subordinarsi al già pensato, alle sue regole, ai suoi lacci, al suo potere e alla sua seduzione? 

Il tavolo su cui lavoro è da qualche mese felicemente invaso da alcune narrazioni saggistiche o saggi poetico-narrativi che pongono con fermezza proprio la questione del come dire quando il che cosa mette consapevolmente e radicalmente a testa in giù il quadro teorico, disciplinare e finanche sintattico e lessicale cui siamo avvezz*. Si tratta di testi nuovi o, più spesso, di testi finora inediti nel nostro sonnecchiante paese oppure di riedizioni che non paiono venire dal nostro passato, bensì da un futuro neanche tanto prossimo, scardinanti e profetici quali sono.

Per cominciare, dunque, stilerò un elenco di titoli corredati di indicazioni bibliografiche che permettano di collocarli nelle plurime epoche in cui hanno visto la luce, ma anche nei loro perimetri spaziali. Tutti i libri – e tanto più questi – hanno non solo un* autor*, ma una storia che li stratifica e una geografia che li moltiplica dislocandoli, spaesandoli, traghettandoli da un’area – culturale, ancor prima che linguistica – all’altra. I libri, come le piante, nascono in un clima, in una stagione: tolti da lì, possono snaturarsi, appassire, morire oppure sopravvivere, attecchire, rinascere uguali/diversi, dare frutto. Non tutti i terreni, e non in tutte le epoche, sono pronti ad accogliere ciò che viene da lontano permettendogli di mettere radici. Il nostro, contro ogni apparenza, è un paese ospitale. Da noi si traduce e ritraduce moltissimo. Il traffico o, se preferite, il trasporto è dunque da noi assai intenso. Eppure, spesso, le opere tradotte vengono piegate al nostro metabolismo e rese mute, inoffensive, ripetitive anziché risonanti. Quando un’opera che viene da lontano non fa eco all’altrove, ma soltanto al qui, chi legge ne riceve una conferma narcisistica e l’immaginazione e il pensiero s’acquietano. Al posto della diffrazione che si accompagna al buon ascolto, si ha una semplice ecolalia o, peggio, una sorta di cannibalismo cognitivo.

1973: Monique Wittig, Le corps lesbien [Il corpo lesbico, 2023];
1987: Gloria Anzaldúa, Borderlands/La frontera: The New Mestiza [Terre di confine/La frontera. La nuova mestiza, 2022];
1993: Judith Butler, Bodies That Matter. On the Discursive Limits of “Sex” [Corpi che contano. I limiti discorsivi del «Sesso», 2023];
2000: bell hooks, Where We Stand: Class Matters [Da che parte stiamo: la classe conta, 2022];
2005: Gabriela Wiener, Huaco retrato [Sanguemisto, 2022];
2009: bell hooks, Teaching Critical Thinking: Practical Wisdom [Insegnare il pensiero critico. Saggezza pratica, 2023];
2010: Sara Ahmed, The Promise of Happiness [La promessa della felicità, 2023];
2015: Gloria Anzaldúa, Light in the Dark/Luz en lo Oscuro. Rewriting Identity, Spirituality, Reality [Luce nell’oscurità/Luz en lo oscuro. Riscrivere l’identità, la spiritualità, la realtà, 2022]
2017: Sara Ahmed, Living a Feminist life [Vivere una vita femminista, 2022]; 
2017: Bayo Akomolafe, These Wilds Beyond Our Fences. Letters to My Daughter on Humanity’s Search for Home [Queste terre selvagge oltre lo steccato, 2023];
2020: Silvia Federici, Beyond the Periphery of the Skin: Rethinking, Remaking, and Reclaiming the Body in Contemporary Capitalism [Oltre la periferia della pelle. Ripensare, ricostruire e rivendicare il corpo nel capitalismo contemporaneo, 2023]; 

Che cosa mai tiene insieme questi volumi, si chiederà chi legge. E allora partiamo proprio da qui, da questo sacrosanto interrogativo, che sono la prima a pormi. Alla richiesta della redazione di “Doppiozero” di recensire la nuova e integrale edizione di Corpi che contano di Judith Butler, un siluro partito dalla California trent’anni fa, ho detto senza pensarci troppo sì, certo, con piacere. E ho cominciato a rileggerlo, o meglio a leggerlo, visto che la nuova traduzione non si limita a integrare le parti mancanti nell’edizione del 1996, ma lo ripensa alla luce di quanto è avvenuto non solo nella società, ma nella nostra lingua, nel corso degli ultimi decenni. Per capire il teorema butleriano, per farlo proprio o per discuterne in toto o in parte le tesi, è oggi necessario situarlo in un continuum di riferimenti, in un corpus teorico ed esperienziale che da allora è andato sviluppandosi in un via vai ininterrotto che nulla ha di lineare e che sfoca qualsiasi tipo di demarcazione. 

Il punctum è precisamente il concetto di limine, quella soglia che non si pone più come linea di inclusione/esclusione da superare, contestare, spostare, come marker che definisce un prima e un poi, un dentro e un fuori, una dis/appartenenza attuale e un’appartenenza a venire. Il limine è un confine che si sfalda e, smottando, si sottrae a ogni ontologia, creando un’impensata, forse impensabile terza zona. «Per me», scrive Anzaldúa, «la scrittura comincia con l’impulso a varcare i confini, a forgiare idee, immagini e parole che viaggiano lungo il corpo e si fanno eco nella mente di un qualcosa che non è mai esistito. Il processo della scrittura è lo stesso misterioso processo di cui ci serviamo per creare il mondo».

Il pensiero e il femminismo del butleriano Corpi che contano sono frutto di un’epoca lontana che sta ripiegandosi su se stessa. I diritti di cui parlano, faticosamente acquisiti da alcune cosiddette minoranze, rischiano di essere funzionali solo a loro e all’inossidabilità di un sistema di dominio che tende a ‘specializzare’ la domanda di libertà e a separare, disconnettere, isolare, impedire ogni forma di alleanza tra soggetti inchiodati a un’identità statica e dunque, di necessità, ‘settoriale’. 

Il corpo stesso, quel corpo che per Butler conta non in quanto suo o identico al suo, ma perché è lì che ognun* di noi intra-agisce con tutto l’altro da sé, umano e non umano, animato e inanimato, è oggi, come scrive Federici, «periferia della pelle», soglia violata, territorio espropriato esposto a un estrattivismo inedito, subdolo, invisibile, di cui siamo ignari, spauriti, sedati complici. Al punto da non riconoscere ciò che ci sta realmente accadendo, da scambiare per conquista il nostro progressivo adattamento al mutevole e tuttavia inscalfito progetto capitalistico. Lottare per l’inclusione senza mettere in discussione gli infissi o il sistema idraulico e di aerazione della casa in cui si dovrebbe essere accolti, come variamente constatano la chicana Gloria Anzaldúa, l’africana-americana bell hooks o il nigeriano Bayo Akomolafe, equivale ad aderire a una sceneggiatura già scritta, non servirsi della propria immaginazione o della propria memoria, non “mettere al lavoro le ferite”, non vagliarle, non riconoscere la luminosità dell’ombra.

Sara Ahmed – madre inglese e padre pakistano, scrittura irresistibilmente fuori norma, una vera sfida per chi tenta di tradurre il suo inglese furente, ironico, dichiaratamente scassatutto – scardina un’altra soglia: i concetti, per lei, sono sudati. «Un concetto è nel mondo, ma è anche una forma di riorientare verso un mondo, un modo di capovolgere le cose, una prospettiva diversa della cosa stessa. Più precisamente, un concetto sudato emerge dalla descrizione di come ci si sente a non essere a casa nel mondo, o una descrizione del mondo dal punto di vista di chi non lo sente come casa sua. […] Un concetto sudato emerge dall’esperienza corporea dello sforzo. L’esercizio è rimanere nella difficoltà, continuare a esplorare ed esporre questa difficoltà. Dovremmo non eliminare lo sforzo e la fatica dalla scrittura». 

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Illustrazione di Laura Berger.

La dichiarazione d’intenti di Ahmed, che teorizza la figura della feminist killjoy, della guastafeste femminista, come soggetto politico ingovernabile e inassimilabile, rimanda sia all’elogio della trasgressione sia all’arte acrobatica di non farti mai trovare là dove si suppone che tu sia di bell hooks. La riflessione di quest’ultima pone con forza la questione di quel ‘traboccare’ o ‘fuoriuscire’ dai confini sessuali, razziali, disciplinari, di classe assegnati a ognun* di noi ancor prima che veniamo al mondo. La sua riflessione sul rapporto tra il presunto centro (sinonimo di potere, successo e dunque felicità?) e l’altrettanto presunto margine (luogo dello scarto e del fallimento?) sposta letteralmente l’asse del discorso. Impossibile non domandarsi chi li definisca e con quale obiettivo. Sciocco e perdente accontentarsi di tentare il transito dalla ‘periferia’ alla vigilata e sempre più esclusiva ‘zona rossa’ – posto di lavoro o quartiere che sia – senza riconoscerne l’unidirezionalità, il funesto morire alla classe, al sesso e alla razza in esso implicito, il rassodamento degli equilibri di potere che esso implica. 

«Ho lavorato», scrive hooks, «per cambiare il mio modo di parlare e di scrivere, per incorporare nei miei racconti il senso geografico: non solo dove io sono ora, ma anche da dove vengo, e le molteplici voci presenti in me. Ho affrontato il silenzio e l’incapacità di essere articolata. Quando dico che queste parole scaturiscono dalla sofferenza, mi riferisco alla lotta personale che si conduce per definire la posizione da cui ci si dà voce – lo spazio del teorizzare». 

Bayo Akomolafe va oltre, teorizzando l’esplosione del concetto di razza. «Se la tua pelle non ti fa sentire a casa, dove mai potresti vivere?» si chiede, tentando «di ricomporre il puzzle del possibile significato di ‘casa’» per il fantasma che la tratta atlantica ha costretto a sedere vicino alla porta, sulla soglia appunto, né dentro né fuori e, al contempo, già dentro e sempre fuori. La «transrazzialità» di cui Akomolafe scrive in pagine di perturbante originalità non è il passare per caro al cinema hollywoodiano o a certa narrativa di consumo, e neppure il pendolarismo da un polo all’altro o l’accedere a, bensì la sistematica interpellazione del concetto binario di razza. «La feticizzazione della nerezza», afferma, «non è produttiva se vogliamo generare nuovi modi di pensare i nostri contesti mutanti considerando gli oneri complessi che un mondo in mutazione impone alle nostre identità. […] Parlare di nerezza come se fosse un’essenza o della bianchezza come se fosse qualcosa di immobile e rigidamente predefinito significa ampliare paradossalmente la portata della normatività bianca». 

Il consapevole sabotaggio di una visione monolitica e gerarchica delle identità, per anni fonte di saperi e interpretazioni inediti e politicamente fertili, si rivela in ciascuno di questi testi un terreno diversamente comune. Come se tutt* fossero arrivati a una sorta di capolinea teorico. D’ora in poi si tratta di riallineare e riconnettere, non per cancellare le specificità, ma per capire se hanno qualcosa che le accomuni sottraendole alla riproduzione di semplici – e inevitabilmente temporanee – aree di privilegio. 

Gabriela Wiener tenta l’arditissima operazione narrativa di tenere insieme storia coloniale e storia privata, inventandosi – nella vita e sulla pagina – un’ipotesi razziale, sessuale, amorosa, genitoriale che manomette e al contempo conferma la «promessa della felicità». Quella stessa promessa che Sara Ahmed manda sapientemente a gambe all’aria, spiegandoci con paziente ironia che «una vita felice, una vita buona, implica il disciplinamento del desiderio», non la scoperta e il perseguimento di un desiderio in proprio, che tutto ha da inventarsi, incluso il rischio di trovarsi e smarrirsi.

Infine, ma tutto potrebbe cominciare da qui, un cenno a quel mondo di mezzo instabile e perennemente in divenire che è la lingua materna (ogni volta che uso questa formula, penso con un sorriso involontario alla sottintesa afasia paterna) di chi scrive e di chi traduce. Ci hanno insegnato a pensare le lingue come sistemi autonomi e relativamente compatti, che colludono e collidono proprio in quell’atto liminare – o di paradossale eliminazione – che è la traduzione. Cos’è infatti il tradurre se non un appassionato escludere, scartare, far scomparire una lingua per traghettare il più possibile intatto in una lingua diversa non solo il contenuto di un testo, ma il substrato preverbale che lo colora e gli dà calore, le voci e i corpi che lo popolano e la loro storia/esperienza? 

Tradurre tuttavia, nel caso dei libri elencati, è un processo insito nella loro stessa scrittura. Ogni autor* vive già – e lo assume come terreno politico – dentro una lingua spezzata, censurata, ferita, dolente, negata, e di continuo la rigenera, la reinventa, scartando dalla media, disidentificandosi. Che si tratti del Black American di bell hooks o del Mexican American di Anzaldúa, degli incroci linguistici di Akomolafe o della deflagrata sintassi corporea di Wittig, sono lingue aurorali, decolonizzate, in cui ritmo, timbro, tonalità, silenzi, barre e spazi vuoti valgono quanto il senso, perché sono al cuore di quel senso. 

«Ciò che ha corso qui», scrive Wittig nella straordinaria ri-traduzione di Deborah Ardilli, «non ha nome per ora, che esse lo cerchino se ci tengono veramente, […] tutto sarà per loro ugualmente insopportabile». 

L’insopportabilità di questa ‘nominazione’ nuova, che rifiuta l’univocità di un’inesistente lingua materna e l’appiattimento a una lingua standard funzionale a un vago e tuttavia imperioso concetto di intelligibilità, impone a chi traduce e a chi legge una sensibilità altrettanto inedita. C’entrano l’ascolto e il tatto, l’immaginazione e la memoria, la disponibilità a uscire da sé per farsi portare altrove, l’assunzione di una prospettiva temporale che non coincide con il qui adesso, forse un’insofferenza verso il tempo/mondo in cui ci è dato vivere.

Sara Ahmed

- Living a Feminist life, Duke University Press, Durham, NC 2017; [Vivere una vita femminista, a cura di Liana Borghi e Marco Pustianaz, trad. it. di Matu D’Epifanio, Roberta Granelli, Bea Gusmano, Serena Naim, Edizioni ETS, 2022]
- The Promise of Happiness, Duke University Press, Durham, NC 2010; [La promessa della felicità, trad. it. di Amelia Popa-Rolando e Laura Scarmoncin, Luca Sossella editore, Roma 2023]

Bayo Akomolafe

- These Wilds Beyond Our Fences. Letters to My Daughter on Humanity’s Search for Home, North Atlantic Books, Berkeley CA 2017; [Queste terre selvagge oltre lo steccato, trad. it. di Fabrice Dubosc, Exòrma Libri, Roma 2023]

Gloria Anzaldúa

- Borderlands/La frontera: The New Mestiza, Aunt Lute Books, San Francisco 1987; [Terre di confine/La frontera. La nuova mestiza, trad. it. di Paola Zaccaria, Palomar, Bari 2000 e Black Coffee, Firenze 2022] 
- Light in the Dark/Luz en lo Oscuro. Rewriting Identity, Spirituality, Reality, edited by AnaLouise Keating, Duke University Press, Durham, NC 2015; [Luce nell’oscurità/Luz en lo oscuro. Riscrivere l’identità, la spiritualità, la realtà, trad. it. di Laura Scarmoncin, consulenza culturale e traduttiva dalla lingua spagnola di Saya Mamani, cura del Gruppo di Ricerca Ippolita, Meltemi editore, Milano 2022]

Judith Butler

- Bodies That Matter. On the Discursive Limits of “Sex”, Routledge, New York and London 1993; [Corpi che contano. I limiti discorsivi del «Sesso», trad. it di Simona Capelli, edizione ridotta, Feltrinelli, Milano 1996; trad. it. di Simona Capelli e Chiara Fioravanti, edizione integrale, Castelvecchi, Roma 2023] 

Silvia Federici 

- Beyond the Periphery of the Skin: Rethinking, Remaking, and Reclaiming the Body in Contemporary Capitalism, PM Press, Oakland CA 2020; [Oltre la periferia della pelle. Ripensare, ricostruire e rivendicare il corpo nel capitalismo contemporaneo, trad. it. di Patricia Badji, D Editore, Roma 2023]

bell hooks

- Teaching Critical Thinking: Practical Wisdom, Routledge, New York 2009; [Insegnare il pensiero critico. Saggezza pratica, trad. it. di feminoska, Meltemi, Milano 2023]
- Where We Stand: Class Matters, Routledge, New York and London 2000; [Da che parte stiamo: la classe conta, trad. it. di Marie Moïse, Tamu, Napoli 2022]

Gabriel Wiener

- Huaco retrato, ‎ Literatura Random House, 2005; [Sanguemisto, trad. it. di Elisa Tramontin, La Nuova Frontiera, Roma 2022]

Monique Wittig

- Le corps lesbien, ‎ Les Editions de Minuit, Paris 1973; [Il corpo lesbico, cura e trad. it. di Deborah Arzillo, VandA•edizioni, Milano 2023]

L'illustrazione in copertina è di Laura Berger.

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TAGGED: femminismo

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