Quaderno 7 / Corpo Celeste

8 Dicembre 2020
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Oggi ho letto Anna Maria Ortese, Corpo celeste.

E adesso ricopio qui le sue parole perché non avrei parole così battenti e dirette per dire quello che preme.

 

“So questo. Che la Terra è un corpo celeste, che la vita che vi si espande da tempi immemorabili è prima dell’uomo, prima ancora della cultura, e chiede di continuare a essere, e a essere amata, come l’uomo chiede di continuare a essere, e a essere accettato, anche se non immediatamente capito e soprattutto non utile. Tutto è uomo. Io sono dalla parte di quanti credono nell’assoluta santità di un albero e di una bestia, nel diritto dell’albero, della bestia, di vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo. Sono dalla parte della voce increata che si libera in ogni essere, e della dignità di ogni essere – al di là di tutte le barriere – e sono per il rispetto e l’amore che si deve loro.

 

C’è un mondo vecchio, fondato sullo sfruttamento della natura madre, sul disordine della natura umana, sulla certezza che di sacro non vi sia nulla. Io rispondo che tutto è divino e intoccabile: e più sacri di ogni cosa sono le sorgenti, le nubi, i boschi e i loro piccoli abitanti. E l’uomo non può trasformare questo splendore in scatolame e merce, ma deve vivere e essere felice con altri sistemi d’intelligenza e di pace, accanto a queste forze celesti. Che queste sono le guerre perdute per pura cupidigia: i paesi senza più boschi e torrenti, e le città senza più bambini amati e vecchi sereni, e donne al di sopra dell’utile. […] Vivere non significa consumare, e il corpo umano non è un luogo di privilegi.

 

Tutto è corpo, e ogni corpo deve assolvere un dovere, se non vuole essere nullificato; deve avere una finalità, che si manifesta nell’obbedienza alle grandi leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli altri viventi. E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate. Noi, oggi, temiamo la guerra e l’atomica. Ma chi perde ogni giorno il suo respiro e la sua felicità, per consentire alle grandi maggioranze umane un estremo abuso di respiro e di felicità fondati sulla distruzione planetaria dei muti e dei deboli – che sono tutte le altre specie – può forse temere la fine di tutto? Quando la pace e il diritto non saranno solo per una parte dei viventi, e non vorranno dire solo la felicità e il diritto di una parte, e il consumo spietato di tutto il resto, solo allora, quando anche la pace del fiume e dell’uccello sarà possibile, saranno possibili, facili come un sorriso, anche la pace e la vera sicurezza dell’uomo.”

 

Non avere vergogna di difendere con parole scarne e semplici il bene della diversità, della svariatezza, dell’interdipendenza degli esseri, rispetto a un pensiero che guarda solo all’intricatezza umana e non osa richiami a partire da sé, come invece fanno gli asini ragliando. Considerare l’altro che non può parlare un testimone del nostro disastro, della nostra cieca voracità, della nostra passione di essere in primo piano e ridurre così tutto il resto a nostro sfondo. Imparare da animali e alberi e minerali come stare al mondo con l’umiltà delle creature, l’onesto essere precari in vita. Non raccontarsi la storia come vogliono i tiranni del pensiero, non infilarsi una maschera e lasciarla diventare nostra pelle.

 

Imparare a stare nascosti. In disparte. Tornare a giocare. Fare della innocua follia una legittima risorsa. Stare fermi e zitti a guardare e ascoltare. Smettere di far paura a tutti gli altri esseri e agli umani che non stanno in riga. Smettere di parlare solo con chi ci fa eco. Lasciarci vedere brutti come siamo, crudeli come siamo, per fiducia nella trasformazione e nella bontà fondamentale, quella che non lo fa apposta. Non cercare scuse, ma smettere e rammendare. Farci domande, tante domande e aspettare silenziosi che arrivino le risposte, aspettare tutta la vita e forse scoprire che la nostra esistenza così com’è e come siamo è la risposta, e non le parole con cui ricopriamo il nostro spavento raccontando la storia della storia della storia. Sapere che la paura che gli animali hanno di noi è la stessa che noi abbiamo della nostra nuda solitudine. Lasciare che la nostra vera storia non occhieggi soltanto nel disastro.

 

Non confessarla, ma offrirla con dignità perché è il nostro ponte più solido verso la storia degli altri. Rianimare la storia tatuata nel corpo, nella voce, negli sguardi. Non ignorare quello che bussa nelle buie notti e stenderlo al sole di giorno. Entrare nel nostro mancare e conoscerlo anziché riempirlo costantemente di futilità. “Lei non sa chi sono io.” Oh sì che lo so e mi si stringe il cuore sapendolo. Le opere sono gradini in discesa non in salita. Rivoluzionare la coscienza, non essere un carattere, ma un fiume, con tanti affluenti, e agire partendo dall’attesa e dal silenzio. Intonarsi alle azioni, riconoscendo le intenzioni. Risvegliarci ogni momento. Cosa cerchiamo quando anziché annusare le scie e poi seguirle corriamo dietro alle illusioni umane di appropriazione e accumulo, di ascesa? Restare fedeli alla sete senza confonderla con l’evaporazione dell’acqua. Quando disseto curo la mia arsura. 

Di riuscirci prego.

 

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