Corpo e iPad
Non possiamo permetterci di lasciare la tecnologia a tecnici, tecnologi o tecnocrati. Computer, telefoni cellulari ma anche automobili, frullatori e, naturalmente, l’onnipresente iPad, non sono soltanto dispositivi definiti da certe caratteristiche tecniche né il mero supporto ad attività che avremmo compiuto senza di essi. Nel momento in cui entriamo in contatto con loro, veniamo alterati. Di colpo non siamo più noi. Non solo possiamo fare una telefonata in qualunque momento, ma vogliamo farla. Non soltanto possiamo controllare la posta elettronica ovunque, ma non possiamo farne a meno. Prima detestavamo cucinare dopo eccoci punto di riferimento della famiglia grazie a un frullatore che è stato capace di riprogrammare letteralmente il nostro rapporto con i fornelli. Riprogrammati noi? Stanno così le cose? Stiamo diventando come le macchine che usiamo, tanto da avere qualche dubbio, alla fine, su chi usi chi, che cosa che cosa?
La notizia però non è questa – almeno a leggere l’ultimo saggio di Maurizio Ferraris intitolato ANIMA e iPad – ma il suo esatto contrario. Ovvero che macchine come l’iPad sono parte di quanto di più autenticamente umano ci sia in noi, della nostra stessa anima. Ferraris così ritorna sul ruolo che le tecnologie hanno nella società contemporanea. Il tablet, moderna tabula sulla quale scrivere e leggere, è l’ultima incarnazione di quella che potremmo considerare la madre di tutte le tecnologie, ovvero la scrittura, tramite la quale qualcosa di effimero e volatile come un pensiero può trovare una stabilizzazione, essere ricordato ma soprattutto essere condiviso. L’anima, per Ferraris, sta in questo. E non è un’anima qualunque, è un’ANIMA tutta in maiuscolo, forse l’anima per eccellenza, o magari soltanto un’altra anima, diversa da quella cui siamo abituati.
Ripercorrendo la storia del pensiero, da Platone (che tanto osteggiava la scrittura perché ritenuta capace di compromettere la capacità umana di ricordare e riflettere) fino a Searle (che fonda la differenza tra l’uomo e la macchina sulla capacità di interpretare) passando da Kant e Qui, Quo e Qua, Ferraris lavora per abbattere il muro che esiste fra le due ontologie, quella dell’uomo e quella della macchina. Dimostra come vi sia dell’uno nell’altra (la capacità di ricordare, l’abilità di condividere grazie alla rete etc.) e della seconda nel primo (la meccanicità con la quale svolgiamo compiti che vanno dalla guida alla preghiera, tanto per rimanere in tema di anima). Le metafore che hanno guidato gli ingegneri nella realizzazione delle architetture dei calcolatori finiscono così per tornare indietro come altrettanti boomerang. Non più l’hard disk come il cervello, ma il cervello come hard disk. La famigerata stupidità artificiale.
La cosa di cui si parla di meno nel libro è però paradossalmente proprio l’iPad. L’ultimo prodotto interamente voluto, pensato e realizzato dalla buon’anima (o ANIMA?) di quel guru che è stato Steve Jobs, nel libro sembra avere il ruolo di un semplice pretesto. È una metafora della tecnologia in generale, della capacità di conservare informazioni, di collegarsi in rete, delle vie molteplici tramite le quali possiamo percorrere il sapere – nostro e dell’umanità in generale – nelle moderne banche dati, ma di come sia fatto, di come funzioni, del modo in cui ci fa fare le cose, del successo che ha avuto si dice poco o nulla. Approccio empirista? Eppure, come si sa, Jobs ha molto più del santone che dell’ingegnere, e il suo verbo sono i dispositivi che ha creato. Far parlare quelle forme, metterle in condizione di significare, esplicitare il senso che assumono all’interno di un contesto sociotecnico può essere una chiave proprio per superare quelle ontologie da cui si tenta di tenersi lontani e che, anche invertite di segno, forse sopravvivono.
Non tanto – o soltanto – che cosa è l’iPad dunque, ma come e perché funziona. Contiene dei dati? Benissimo: come li inseriamo al suo interno? Come li recuperiamo? Quali software utilizziamo per farlo? Chi produce questi software? Non sono noiose caratteristiche tecniche. Senza iTunes, senza le migliaia di “app” sviluppate più o meno artigianalmente da altrettanti produttori che non hanno nulla a che vedere con le grandi compagnie che dominano il mercato del software (e che offrono oguno una soluzione diversa allo stesso problema), senza il display sensibile al tocco che riconfigura profondamente le modalità di interazione con la macchina e il rapporto fisico che abbiamo con essa, iPad non sarebbe quello che è, la tecnologia non avrebbe fatto il salto che ha fatto e sta ancora facendo.
Fra l’altro, l’iPad funziona a partire da un rapporto del tutto inedito con il nostro corpo. Possiamo usarlo stando in piedi, seduti sul divano o in qualunque altro posto della casa. Lo possediamo tutto con le nostre due mani. Senza fili o altre protuberanze che fuoriescano. D’altronde, proprio il corpo è la prima macchina che siamo chiamati a costruire. Imparando a parlare e a camminare lo educhiamo, gli diamo una forma. Nell’abbagliante verità della relazione fra parola, tecnologia e anima non dobbiamo dimenticare che il testo di questa dottrina è scritto proprio nella forma delle cose. L’iPad contiene testi ma è un testo a sua volta, e ci parla di noi, di come funzioniamo. Empiristi sì, dunque, ma non relativisti. È per questo che non possiamo lasciare ai tecnici la tecnologia, e non soltanto discutendo a partire da essa, come fa Ferraris, ma anche contribuendo a pensarla, a dargli una certa forma, fornendo strumenti teorici a ingegneri che, magari, nel futuro che ci aspetta, non saranno esattamente uguali a Steve Jobs.