Kilowatt Festival / Cosa sperare dal e nel teatro?
L’edizione del 2017 del Kilowatt Festival – dal titolo Il principio speranza – ha quale sua principale ispirazione un testo molto importante. Si tratta dell’omonimo libro di Ernst Bloch. Scritto tra il 1938 e 1947, esso esplora in tre volumi la nozione di “speranza” e le sue disparate concretizzazioni: dal bisogno di cambiamento o della novità, presente nella struttura stessa del desiderio, al tentativo di rovesciare le situazioni in cui gli umani sono oppressi, spregiati, sfruttati da altri umani. Particolarmente rilevante appare essere, in questa sede, il cap. 30, che studia «La scena come istituzione paradigmatica, e la decisione che vi ha luogo». Al suo interno, Bloch formula l’ipotesi che il teatro alimenti la speranza in quanto «istituzione rasserenante-anticipante»: l’arte di creare «immagini-guida» che prefigurano uno scenario futuro più bello dell’attuale, che a sua volta stimola attori e spettatori a impiegare le energie per realizzarlo nella vita. In altre parole ancora, Bloch suppone che esso stabilisca paradigmi o modelli di condotta, che inducono a decidere se tradurre in realtà l’ideale estetico vagheggiato, o se relegarlo a mero «sogno a occhi aperti» per seguire progetti più modesti ma concreti.
È chiaro che questa visione parte da un’idea molto connotata dei fini e delle forme che il teatro dovrebbe assumere. Bloch ha soprattutto in mente la teoria dello “straniamento” di Brecht, ossia (in estrema sintesi) l’idea che l’arte teatrale consista in un processo di presentazione dell’attuale stato di cose come non ovvio né necessario, dunque modificabile nelle fondamenta stesse del suo essere. In questo senso, non tutti gli spettacoli di Kilowatt Festival si attagliano alla perfezione alla concezione del teatro elaborata dal filosofo tedesco. Alcuni di loro non si propongono di creare «immagini-guida» per dare una nuova direzione al futuro. Oltre agli spettacoli circensi, difficilmente si sposano bene con la visione di Bloch lavori come The Hard Way to Understand Each Other di Teatro Presente, che con piccoli quadri poetici e commoventi rappresenta le grandi difficoltà delle relazioni comunicative di oggi, o Act to Forget di Tom Struyf, dedicato allo studio dei misteriosi comportamenti della memoria. Ma si tratta di un dettaglio, che non pregiudica in alcun modo la qualità dell’iniziativa complessiva. Esso fornisce una prova, anzi, del fatto che un’idea filosofica possa determinare direzioni di pensiero, poesia e azione diverse da quelle che si era proposta di aprire esplicitamente.
Molti colleghi e amici critici hanno già avuto modo di parlare nel dettaglio degli spettacoli del festival, ciascuno con l’acutezza e la profondità loro peculiari. Per non rischiare di ripetere in forma dimidiata o peggiorata concetti/pensieri già espressi, affronterò dunque qui una questione teorica più generale. Mi propongo di problematizzare il nesso tra la speranza e il teatro, mostrando che al suo interno si annidano dei pericoli e dei rischi, di cui varrebbe forse la pena essere consapevoli per praticare il teatro in modo ancora più serio e intenso.
Dato poi che si spera sempre a motivo di qualcosa e in qualcosa, il tema in questione sarà affrontato tentando di rispondere ai problemi che seguono. Per un verso, da che cosa è animato il teatro che vuole infondere buone speranze per il futuro? Per un altro, in che cosa l’arte teatrale induce a sperare e quali effetti determina, sia positivi che negativi?
Il primo problema può prendere di nuovo avvio da Bloch. Egli pensa che la speranza sia uno stimolo ben preciso: la volontà di placare il sentimento dell’angoscia («la speranza annega l’angoscia»), che nasce dalla percezione del non-senso o nulla dell’esistenza. Lo sperare nasce, dunque, a motivo di un malessere e da un elemento infernale, che si cerca di eliminare arrivando a uno stato paradisiaco, ancora da compiere nel futuro. Se il teatro è davvero un’«istituzione rasserenante-anticipante», esso offrirebbe allora antidoti alle angosce individuali e sociali (a loro volta derivanti da uno stato di cose che rende odiosa la vita), quali la poesia, la bellezza e altre esperienze positive che, nei loro momenti migliori, gli artisti riescono a catturare/evocare.
Tale logica della speranza ha il difetto, tuttavia, di necessitare proprio del malessere da cui ci si vuole liberare. Immaginiamo infatti che, a un dato momento della storia umana, uno degli scenari paradisiaci sperati finora senza successo venga raggiunto, dunque che l’angoscia e l’odio nichilistico verso l’esistenza siano divenute solo un lontano ricordo: una vaga ombra nella memoria di chi si è svegliato dopo un lungo incubo. Secondo la logica che Bloch professa, il teatro cesserebbe a quel punto di esistere, dato che gli mancherebbe la spinta propulsiva che lo animava all’inizio. Eppure, la conclusione pare essere eccessiva e assurda. La poesia, la bellezza e le altre esperienze positive che il teatro cerca sono valevoli di per sé di essere coltivate, persino in assenza dell’angoscia. Prova ne è il fatto che è proprio nei rari momenti privilegiati in cui noi siamo del tutto tranquilli e liberi da dolori o preoccupazioni che ci dedichiamo ad attività auto-gratificanti, belle e piacevoli. Delle due l’una, dunque. O l’angoscia permane in forma nascosta anche in questi rari momenti privilegiati, ma allora non abbiamo la certezza che essa scomparirà persino nel più paradisiaco degli scenari futuri. Oppure il teatro può agire sia in presenza che in assenza dell’angoscia, sicché non è sempre un’«istituzione rasserenante-anticipante». Se trova origine da cause diverse dalla lotta al nichilismo, vuol dire che questa non è l’unico motore dell’attività creativa.
Il nesso speranza-teatro non è, insomma, né necessario, né sufficiente. Ammesso che le mie osservazioni siano pertinenti, l’arte teatrale risulterà avere, infatti, anche principi diversi dal “principio speranza”: il bisogno di esprimersi e conoscere, ad esempio, o il desiderio di trascorrere il tempo in piacevolezza e amicizia con altri esseri umani. È bene che un teatro non-speranzoso esista e soddisfi aspirazioni diverse da quelle dello stimolo al puro cambiamento.
Il secondo problema – quello della cosa in cui la speranza induce a riporre fiducia – è assai più complesso e difficile da risolvere in poche battute. Ma non si mancherà troppo nel segno nel supporre che il candidato migliore consista nel concetto di utopia (= la tensione a tentare di realizzare, “qui e ora”, uno stato di cose non ancora presente nell’arco spazio-temporale). Il punto non è solo corroborato, di nuovo, da Il principio speranza di Bloch, che al rapporto tra il disegno utopico così definito e la speranza dedica, in fondo, la sua intera ricerca. L’utopia è anche il fine individuato da artisti come Marco Martinelli, nel suo recente Farsi luogo (Mov. 90: «Ma se non ci piace il presente, la catastrofe della politica, cos’altro possiamo fare se non avere la sfrontatezza dell’u-topia?»), e da Claudio Morganti, in alcuni suoi scritti sull’arte del teatro (cfr. e.g. Il pubblico: «Mi interessa molto l’utopia. Sono un tifoso dell’utopia e credo che la componente utopica non possa essere sganciata dall’arte. È proprio grazie all'utopia che Beckett può meravigliosamente sintetizzare: “L'artista è colui che fallisce come nessun altro osa fallire”»). E dato che tanto questi due autori, quanto Bloch insistono nel descrivere il disegno utopico come un atto rischioso e impossibile, ne segue che per loro la parola “utopia” ha il senso più radicale possibile: quello di aspirazione a un obiettivo irrealizzabile, che vale in ogni caso perseguire e sfiorare, per poi precipitare a terra, con le ali bruciate dal volo troppo vicino alla luce dell’ideale.
La speranza in cui il teatro ripone fiducia non è pertanto ordinaria. Tutti noi speriamo, infatti, in obiettivi o esperienze attese non necessariamente utopici, come trovare una relazione sentimentale ricca e soddisfacente, che pur essendo rara e spesso dipendente solo dal caso non è di per sé un fine impossibile. Il paradosso nel teatro è invece quello di ambire a uno scopo che sarà destinato allo scacco e al fallimento. Per dirla con una formula, è un tracotante atto di “sperare un insperabile”.
Anche questa concezione cade nella medesima difficoltà incontrata in precedenza. Il teatro può porsi scopi anche non-utopici. Per tale ragione, stabilire a priori che esso tende necessariamente all’utopia significa negare altri suoi potenziali modi, discorsi, obiettivi. A ciò va aggiunto un’altra e ben più insidiosa difficoltà, che ci proviene stavolta da due poeti.
Uno è Esiodo che, nei vv. 91-102 delle Opere e i giorni, racconta il mito di Pandora. Esso riferisce che questa donna diffuse nel mondo tutti i mali che affliggono oggi l’essere umano, come malattie, morte e dolori, aprendo un vaso che originariamente li conteneva, salvo uno: la speranza, rimasta nel fondo dell’orcio per volere di Zeus. Sono versi misteriosi e controversi circa il loro reale significato. Si può supporre, tuttavia, che Esiodo intenda dire che gli umani avrebbero dovuto affrontare la morte e altri mali, con in più la dolorosa aspettazione di potersene un giorno liberare, se la speranza fosse uscita. L’idea che questa non abbandoni il vaso può dunque servire a dire che il nostro mondo non è il più tragico tra quelli possibili. Sapendo che da morte, dolore e malattia non si può sfuggire, possiamo almeno raggiungere un po’ di serenità accettandoli pazientemente come di per sé inevitabili.
Un altro poeta è Charles Baudelaire. Nel suo pometto in prosa A ciascuno la sua chimera (in Lo spleen di Parigi), egli costruisce un quadro allegorico. Gli esseri umani si trascinano a fatica e con la «fisionomia rassegnata di quelli che sono costretti a sperare sempre», perché ognuno di loro porta sulle proprie spalle una «chimera», ovvero un sogno, un ideale, un’utopia appunto, di cui noi ci facciamo con slancio schiavi. Baudelaire denuncia, dunque, un pericolo insito nel disegno utopico. Se diventa l’unico modo lecito per orientare le energie umane verso il meglio, allora esso diviene un «mostro» che impedisce di procedere a schiena eretta e a passo leggero nel mondo. Chi cerca di sfuggire all’inferno si fa trascinare da ambizioni che procurano amarezza e turbamento: si determina, così, un nuovo inferno dentro l’inferno.
La difficoltà che ci presentano Esiodo e Baudelaire è, perciò, che l’artista di teatro che crede nell’utopia scoperchia l’ultimo male che sarebbe dovuto restare nascosto nel vaso di Pandora e genera mostri che opprimono a terra. Egli procura la speranza che sia possibile liberare il mondo da malattia, dolore, morte e, a tal fine, può arrivare ad ammalarsi, soffrire e persino morire nell’inseguire questo ideale assoluto, o peggio a procurare tale esito in altri. L’artista aggiunge ai mali già noti il tormento dell’aspirazione utopica e il senso di amarezza che segue dopo ogni necessario fallimento.
D’altro canto, il pessimismo di queste voci poetiche è controbilanciato da un “pensiero folle” di Eraclito, che nel fr. 22 della sua opera perduta Sulla natura afferma: «Se non speri, non troverai ciò che è insperabile, poiché esso è difficile e arduo». Benché il senso della massima sia ancora più oscuro del vero significato dei versi delle Opere e giorni, essa può essere interpretata come segue. È quando si pratica la speranza fino a un limite sovrumano, o la si esercita persino nei casi in cui appare essere illogica, che si arrivano a cogliere cose su cui la speranza umana non può per sua costituzione posarsi, se non persino immaginare. Questo fatto può essere dimostrato persino in via empirica, sia pure con molta cautela. Nel tentativo speranzoso di allontanare da sé ogni malattia, gli esseri umani hanno nel frattempo scoperto arti che, altrimenti, forse non avrebbero potuto nemmeno concepire: la musica per curare l’anima, la medicina per lenire il corpo. E se allora il teatro porta con sé speranze di tipo utopico, non si può escludere che, nel fallire nella ricerca delle sue utopie, trovi cose che finora non si erano mai immaginate: ad esempio, un’idea di comunità umana basata sulla ricerca in comune della bellezza. Esso è l’arte di scoprire qualcosa di ignoto, durante il suo tentativo di fuga dall’inferno dei viventi.
Ci troviamo così, nel sollevare e analizzare questa seconda difficoltà sul nesso teatro-speranza, in un’aporia. Da un lato, si ha ragione di credere che la speranza sia un male infernale, perché induce a formulare programmi fallimentari accompagnati da costante amarezza. Dall’altro, vi sono anche indizi a favore che essa sia un atto che, pur nella sua illogicità, conduce a beni che mi si sarebbero cercati o ottenuti. Come superare l’aporia?
Vi sono almeno tre vie. La prima è aderire immotivatamente a una delle alternative e coltivare il teatro in modo conforme alla propria scelta. Vi saranno, in tal senso, artisti utopici contrapposti ad artisti non-utopici: gli uni praticheranno con coraggio misto ad amarezza l’arte del fallimento nella ricerca di alti ideali, gli altri un’arte che cammina leggera e senza lasciarsi opprimere da chimere. Una seconda via è sospendere scetticamente il giudizio. Se l’analisi della speranza ha portato a risultati contraddittori, vuol dire che non sappiamo che cosa sia lo sperare in sé, dunque saremo costretti a indagare meglio che cosa questo sia, prima di pronunciarci sul suo eventuale nesso col teatro. La terza via è procedere in modo dialettico. Invece di aderire a un’unica delle due alternative, si cercherà di praticare una soluzione mediana, come quella di coltivare – con temperanza, buon senso e spirito di costante adattamento alla realtà – utopie che non opprimono, ma stimolano a spingere un poco più in là i nostri limiti espressivi e conoscitivi. In questo modo, la chimera di cui parla Baudelaire non sarà più sulle nostre spalle. Sarà il destriero che useremo per volare tra terra e cielo, ossia senza radicare eccessivamente le radici in qualcosa e, nello stesso tempo, senza ferirci nell’elevarci troppo in alto. Se poi risulteremo tenaci nel perseguire l’utopia facendo attenzione a non farci piegare e distruggere da essa, potremo forse scoprire un giorno le condizioni necessarie e sufficienti per realizzarla, che prima si ritenevano inattuabili e destinate sempre a fallire. Col volgere di strani eoni, anche l’impossibile può diventare possibile.